Il collezionista delle isole remote - La Stampa

Recensione di Masolino D’Amico

storie di mare

Il collezionista delle isole remote

Ernesto Franco dà la parola a un marinaio di lungo corso

Filfla, a sud di Malta, è un’isola o, forse meglio, uno scoglio quasi inaccessibile e disabitato. Qualcuno vi visse molti secoli fa, dato che nel trecento vi fu edificata una cappella, ma adesso, dopo essere stata adibita a bersaglio per le esercitazioni della flotta inglese, non ospita più creature viventi tranne una strana razza di lucertole a suo agio sulla superficie di roccia coperta di schegge metalliche. Così abbandonato in mezzo al mare, è un luogo che sollecita la fantasia, almeno nella descrizione che ne fa il Pilota. Questi è un marinaio che ha visto isole strane in più di mezzo mondo e ora ne rievoca alcune, e traccia la storia del loro passato anche leggendario, a beneficio di un ascoltatore congeniale. Racconta a mo’ di Marlowe conradiano, mentre a bordo di un piccolo battello percorre pigramente le acque del porto di Genova, di notte, mentre svolge qualche mansione favorita dal buio (pesca alla lampara, piccolo contrabbando), fumando sigarette di paglia e dissetando sé e il suo compagno con vino ligure rinfrescato in un secchio tenuto sott’acqua. Ernesto Franco, autore di Storie fantastiche di isole vere, è evidentemente un appassionato collezionista di tali luoghi, che l’evocazione del Pilota rende più magici e ricchi di risonanze di qualunque visita di persona. Il primo di questi luoghi, subito dopo Filfla, è ancora più precluso agli umani: è l’isola Ferdinandea, formazione di origine vulcanica che famosamente scaturì accanto alla Sicilia, tra Sciacca e Pantelleria, nel 1831, fu rivendicata da non meno di tre nazioni che si affrettarono a mettervi piede, e ben presto tornò a inabissarsi per sempre. Poi i racconti toccano la surricordata Malta (dove i campanili hanno due orologi, uno attivo e uno dipinto, che così indicano la stessa ora solo due volte al giorno, e che ha nelle sue viscere statue preistoriche di misteriose femmine acefale di straordinaria grassezza); Ons al largo della Galizia, dove per gettare il malocchio su qualcuno bisogna rubargli un pezzo di stoffa e metterlo in bocca a un rospo; l’arcipelago delle Orcadi col suo misterioso cerchio di pietra neolitico e il suo cimitero di guerra, una corazzata inglese e settantaquattro navi tedesche sommerse sotto i flutti... Via dicendo, si toccano isole dalla reputazione minacciosa come la Tortuga rifugio dei pirati e Alcatraz col suo sinistro penitenziario; isole ricche di richiami alla mitologia greca come Lesbo, Creta, Itaca; isole lontanissime e quasi fiabesche come l’isola di Pasqua e la Galàpagos; isole cruente come Cuba e Haiti... A volte l’incanto della parola contagia l’ascoltatore, che diventa un po’ poeta a sua volta: «Il Pilota riprende a mormorare la litania delle isole mentre continua il suo infallibile rosario di ami e ardiglioni. Il mare frange piano davanti a noi, mola all’infinito i sassi e gli scogli. Mi sembra che le due musiche si intonino». Si sta parlando di Lofoten, dove c’è il Maelstrom, e dove i vichinghi inventarono lo stoccafisso che poi un veneziano importò nel Bel Paese. Invece che nel solito battello, una volta ci troviamo in un bar della città, per un momento pieno delle creature preistoriche che popolarono Lesbo(elefanti, giraffe, rinoceronti...) prima della miracolosa generazione dei suoi poeti (Saffo, Alceo, Teofrasto...). A volte poetico diventa, quasi ostentatamente, anche il Pilota. «A Creta ci sono arrivato in un giorno di sole e Meltemi. Bastavano loro a riempire il mondo quella mattina. Uomini, cose e navi sembravano esistere solo in rapporto con il sole e il vento, come oggetti e personaggi di una scena che qualcuno muovesse con fili invisibili. Più tardi, nella terribile luce meridiana, ho avuto la perfetta visione di qualcosa che avevo già visto infinite volte sulle sponde del Mediterraneo, ma mai in modo così assoluto, senza margini di equivoco: la forza del vento che pettinava un fitto orizzonte di ulivi e gli ulivi che, con uguale forza, gli resistevano morbidi ma nemmeno troppo piegati, in un gioco che pur essendo movimento annullava il tempo. E il verde e l’argento delle chiome che copiavano il movimento delle onde del mare poco lontano. L’unica cosa ferma ero io, e mi venne voglia di ringraziare senza sapere né chi né come. Sì, Creta per me sono innanzitutto quegli ulivi al vento».

I commenti dei lettori