Schlein, una leadership tormentata - la Repubblica

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Schlein, una leadership tormentata

La questione del simbolo del Pd si rivela un passo falso che dà l’idea di una crescente confusione. Pur sempre una piccola cosa rispetto all’incapacità del centrosinistra di cavarsi d’impaccio e costruire una vera coalizione

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Non è così grave in sé l’episodio del simbolo Pd con o senza il nome della segretaria Schlein. Inutile farne un casus belli per riaprire le ostilità contro chi guida il partito, quasi alla vigilia di elezioni fondamentali per decidere che ne sarà del centro-sinistra. S’intende, Elly Schlein si è mossa con una discreta goffaggine. Aveva già imposto il suo nome nelle liste, a rappresentare una volontà di leadership che deve essere in qualche modo affermata.

Molti hanno criticato tale scelta, in nome dei valori della sinistra che non devono essere corrotti da una spinta verso il personalismo (ossia il desiderio di accendere i riflettori su di sé, anziché sul lavoro collettivo). Ma sono polemiche sterili. Come diceva un famoso allenatore di calcio accompagnando la squadra in ritiro: “Se domenica vinceremo, la mia decisione sarà stata intelligente e vincente. Se perderemo vorrà dire che ho sbagliato tutto”.

Se il Pd avesse vinto in Basilicata l’elezione dimenticata, anche la questione del simbolo apparirebbe una mossa scaltra per attrarre l’attenzione e segnalare una rivincita in atto. Invece, stando così le cose, si rivela un passo falso che dà l’idea di una crescente confusione dalle parti del Nazareno.

Pur sempre una piccola cosa rispetto all’incapacità del centrosinistra di cavarsi d’impaccio e costruire una vera coalizione. Eppure una questione non tanto piccola se tutto si riduce a questo: una manovra interna al palazzo, figlia di una forzatura della segretaria di fronte a buona parte del gruppo dirigente.

È vero, lei ha avuto l’accortezza di stringere un’intesa col presidente dell’Emilia-Romagna, Bonaccini, che sarà capolista nel Nord-Est e avrà alcuni amici candidati qui e là. Ma evidentemente questo passo non è bastato, segno di un partito debole e sfilacciato. Un partito che soffre la condizione di vittima quasi quotidiana delle corse in avanti di Conte e fatica a prendere l’iniziativa politica.

Poi c’è l’argomento usato da Romano Prodi. Ossia, come si fa a dire “no” alla riforma del “premierato”, oggi e sempre, se si sceglie di personalizzare la proposta politica? Così da rendere il nome del leader assai più importante dei contenuti sottoposti all’elettorato. È come aprire la strada verso il presidenzialismo, che nella brutta versione italiana diventa, appunto, premierato.

Difficile credere, peraltro, che tutte queste valutazioni fossero presenti alla mente di Elly Schlein e dei suoi collaboratori quando si è discusso del nome nel simbolo, per rinunciarvi alla fine. Si voleva semmai aderire allo schema giornalistico del duello stile Ok Corral con Giorgia Meloni.

Il che, in termini un po’ approssimativi, suona conferma delle preoccupazioni di Prodi: le elezioni — anche quelle proporzionali — si risolvono ormai in uno scontro tra leader. E l’ex premier lo sa bene, visto che fu proprio lui ad accettare per due volte una campagna personalizzata contro Berlusconi. Del resto, è quello che accade quasi dappertutto in Occidente. Il problema è che il centrosinistra non è oggi nella forma migliore per reggere il confronto con una destra costruita da anni sul modello del leader.

In ogni caso, il tema per il Pd non è oggi la sconfitta in termini percentuali del centrodestra alle Europee, obiettivo che appare troppo ambizioso, quanto la capacità di Elly Schlein e degli altri vertici del partito di contenere le manovre di Conte, conservando al tempo stesso un’identità politica su cui avviare dopo giugno una ricostruzione. Vale a dire un rinnovamento che eviti la resa ai Cinque Stelle e consenta invece una rinascita riformista. Anche sul terreno molto attuale delle riforme costituzionali.

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