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Sci alpino, intervista al campione Gustav Thöni che lancia Jannik

La leggenda alto atesina della neve e i 50 anni della valanga azzurra: «Sinner? Fortissimo e come me rispetta gli avversari, la finale di Miami avrei voluto non finisse più »

Renato Malaman
4 minuti di lettura

Gustav Thöni ha vinto quattro Coppe del mondo e medaglie olimpiche segnando un’epoca nello sci alpino

 

«Quel prete scendeva sugli sci come un boscaiolo, ruvido e senza stile. Sì, ho insegnato a sciare anche al nostro amato parroco qui a Trafoi. Per forza – aggiunge sorridendo Gustav Thöni – vederlo scendere era uno strazio».

L’ex campione, che già aveva insegnato a sciare a tutto il paese, va orgoglioso del fatto che poi don Gilberto lo ripagò diventando a sua volta un maestro. Tanto da alternare l’altare con lo skilift.

Gustav nella sua Trafoi con Petra, una delle tre figlie

 

Fa specie rivedere il Gustav nazionale, oggi settantatreenne, l’uomo delle quattro Coppe del Mondo (1971, ’72, ’73 e’75), dei tanti podi olimpici (Sapporo’72, oro e argento; Innsbruck’76) e mondiali (St. Moritz 74), fare il nonno felice di 12 nipoti (quelli che gli hanno regalato le figlie Petra, Susanne e Anna) e di continuare in fondo a fare anche l’albergatore, seppur solo compiti di rappresentanza, ovvero consumare penne a forza di autografi.

Già, l’albergo “Bella Vista” al tornante 46 della statale “38” dello Stelvio: Gustav nacque lì il 28 febbraio 1951 e una targa lo ricorda.

Quell’albergo è la vita dei Thöni: gli antenati della mamma erano locandieri già nel 1875, ieri una semplice locanda e oggi un coccolo Family Hotel affidato alla figlia Petra e al genero Stephan, che per portare su ospiti hanno puntato con amore tutto montanaro anche su benessere e buona ristorazione.

L’albergo è un luogo sociale per Trafoi.

Anche per necessità, visto che in paese non c’è più il parroco, d’inverno chiude il minimarket e un altro albergo ha dovuto abbassare le serrande. Vivere lassù, al tornante 46 del Passo dello Stelvio (chiuso per neve da novembre a maggio), non è facile.

Dicono che per amare la montagna bisogna esserci nati…

«Io non potrei vivere in nessun altro luogo al mondo, amo questa natura, queste vette (e indica il ghiacciaio dell’Ortles e la piramide perfetta del Madatsch, ndr), ma anche questa gente. Qui si vive di pane a valori. ..».

Dica la verità, lei torna qui ogni mattina con la scusa dell’albergo, ma lo fa per lustrare con gli occhi i suoi quattro preziosi globi di cristallo e le tante medaglie…

«Abbiamo allestito il museo qui in albergo (ben visibile anche dalla sala da pranzo, ndr) su invito dei tifosi. Bei tempi quelli delle gare: allora sciavamo soprattutto per divertirci. Più di adesso, mi sembra… L’affetto sincero dei tifosi fa sempre piacere».

In gennaio, in occasione dei 50 anni dallo storico slalom di Berchtesgaden, quando lei vinse e altri quattro azzurri si piazzarono subito dietro (Gros, Schmalzl, Stricker e Pietrogiovanna) ha invitato tutti i compagni dell’allora Valanga Azzurra e Alberto Tomba al “Bella Vista” per festeggiare. Nostalgia?

«Mi ha fatto un enorme piacere averli qui. C’era anche la vedova di Erwin Stricker, che è mancato prematuramente. E con lei le mogli di mio cugino Roland e di Fausto Radici, che pure ci hanno lasciato. Si è ricreato subito il clima di allora. Eravamo proprio amici per la pelle. Mai litigato e questo stupisce tutti».

La Brignone ha eguagliato i suoi 69 podi, forse raggiungerà anche Tomba a 88. Alle Olimpiadi di Cortina, Federica con la Goggia e la Bassino fa sperare in una Valanga Rosa…

«Mai stato geloso dei miei primati. Anzi, fa piacere che il movimento cresca. A Cortina però aspettiamoci qualche sorpresa anche dai maschi. Nelle gare secche il fattore giornata riveste un ruolo decisivo...».

Lei ne sa qualcosa con la sorpresa Ochoa, lo spagnolo che beffò lei e Roland nello slalom olimpico a Sapporo 72, impedendole di bissare l’oro del gigante.

«In realtà un altro oro platonico lo vinsi a Sapporo, come pure quattro anni dopo a Innsbruck, ma allora la classifica della combinata valeva soltanto per la Coppa del Mondo».

Il suo battesimo sulla neve…

«Papà Georg era maestro di sci. Per me fu come imparare a camminare. Da piccolo salivo sullo Stelvio per dare una mano allo skilift. Nel 1965 a 14 anni vinsi il Trofeo Topolino. Ricordo che c’era anche il mitico Zeno Colò, poi diventato un amico di famiglia».

L’attività agonistica allora imponeva grandi sacrifici.

«Per studiare io e Roland andavamo in collegio a Merano, poi quando entrammo nel giro della federazione quanti viaggi in corriera e treno… Pieni di roba, sci e scarponi compresi».

Lei rivoluzionò lo sci sperimentando nuovi materiali, stanco di spaccare scarponi di cuoio e sci di legno, incapaci di reggere la potenza del suo “passo spinta”…

«Mio padre ebbe il merito di convincere le aziende a investire su di me. Fui un buon collaudatore. In pochi anno cambiò tutto».

Eppure voi non eravate ostaggio degli sponsor, come lo sono tanti atleti di oggi…

«Non posso negarlo. Noi correvamo soprattutto per divertirci. Non eravamo smaliziati su queste cose, che oggi generano un grande business. Non farei cambio però…».

Gustav, lei fu anche il simbolo del riscatto dell’Alto Adige… Il pacchetto sull’autonomia è del 1969. I precedenti erano stati anni difficili.

«Io ho sempre detto che sono sudtirolese con passaporto italiano…».

Con le Fiamme Gialle, il gruppo sportivo della Guardia di Finanza, si è sempre trovato bene. Però quella volta che per obbedienza dovette rinunciare alle ultime due gare di Coppa del Mondo… Potevano valere il successo finale nel 1970.

«Mancai alle ultime due gare di Coppa, vero: in classifica generale avevo soltanto 8 punti di distacco da Schranz, che poi la vinse. Le Fiamme Gialle mi chiesero di partecipare ai campionati italiani. Andai e non ne feci un cruccio. Mi accontentai della Coppa nello slalom gigante e per l’altra mi rifeci negli anni successivi».

Dura allenare Tomba? Siete così diversi…

«Arrivava spesso in ritardo. Gli lanciavo certe occhiatacce… Per farsi perdonare si allenava di più. Oggi, quando compio gli anni, è il primo a farmi gli auguri. Già a mezzanotte…».

Jannik Sinner, altoatesino come lei…

«Dicono che abbiamo caratteri simili. La finale di Miami avrei voluto non finisse più per continuare a vedere un tennis così. Ho apprezzato la sua esultanza contenuta, perché non si può esultare quando si vince perché l’avversario cade. Siamo gente di montagna noi».

A proposito di umiltà e senso del gruppo. Vero che dopo gli allenamenti voi atleti aiutavate il preparatore Peccedi a raccogliere i paletti?

«Lui non ce lo chiedeva, ma noi li raccoglievamo. In fondo, in questo modo, si poteva ricominciare prima ad allenarsi…».

Basta amarcord. Ora si va a scoprire Trafoi. Con lui alla guida si sale al Santuario delle Tre Fontane, luogo spettacolare e di grande devozione popolare in paese. Dopo tanto parlare di Valanga Azzurra e Valanga Rosa ecco la valanga nera, la gigantesca massa di detriti che ha rischiato di seppellire la chiesa… A fermarla, dicono a Trafoi, ci ha pensato la Madonna delle Tre Fontane. L’ex campione annuisce sorridendo: «Sì, qui tutti siamo molto devoti».

Del resto, da piccolo, Gustav ha fatto anche il chierichetto e la parrocchia l’ha servita anche qualche anno dopo, insegnando a sciare a don Gilberto. Un tipo che sembrava negato per quello sport, eppure con Gustav ha finito per sciare… da dio.

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