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Danno amministratori società fallita: può liquidarsi in misura pari alla differenza tra attivo e passivo fallimentare
Nel caso in cui l’azione di responsabilità proposta dal curatore del fallimento nei confronti degli amministratori della società fallita trovi il suo fondamento nella violazione da parte di questi ultimi del divieto di intraprendere nuove operazioni previsto dall’art. 2449 c.c., nel testo anteriore alla riforma del diritto societario, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall’art. 2447 c.c., secondo l’ordinanza n. 10198/20204 della Cassazione civile il giudice può avvalersi, ai fini della liquidazione del danno, del criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali ovvero di quello equitativo della differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, sempre che sia stato allegato un inadempimento degli amministratori almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato e siano state specificate le ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore.
Il Fallimento ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Catania, gli amministratori della società fallita, chiedendo la condanna dei convenuti, in solido tra loro, al risarcimento di tutti i danni cagionati alla società fallita nel periodo compreso tra il 30/6/1997 e il fallimento, dichiarato con sentenza 22/10/2004.
Il Fallimento, in particolare, ha dedotto, a sostegno della domanda, che gli amministratori, pur a fronte della del 12 marzo 2024 riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, avevano inadempiuto agli obblighi previsti dalla legge, preoccupandosi, piuttosto, con la compiacenza del collegio sindacale, di nascondere le suddette perdite attraverso la sopravvalutazione di poste dell’attivo e la svalutazione o mancata appostazione di poste del passivo, ed avevano, in tal modo, proseguito l’attività sociale, provocando, nel periodo successivo alla perdita del capitale, un aumento delle passività di €. 5.799.856,83.
Il Tribunale di Catania ha ritenuto la fondatezza dell’azione di responsabilità promossa dal Fallimento “sotto il profilo dell’irregolarità della tenuta, dall’esercizio 2001, della contabilità sociale tale da rendere la stessa del tutto inattendibile, così impedendo alla Curatela un’esatta ricostruzione dell’attività sociale” ed ha, quindi, condannato tutti i convenuti al “risarcimento del danno subito dalla COEM, presuntivamente determinato nella misura pari alla differenza tra l’attivo e il passivo fallimentare” in ragione del principio per cui “l’impossibilità di determinare in modo specifico il nesso esistente tra le singole violazioni in cui siano incorsi gli amministratori e l’ammontare del danno globalmente accertato … in conseguenza della circostanza che le scritture contabili siano state tenute in modo da impedire la ricostruzione a posteriori delle vicende societarie legittima l’ascrivibilità a loro carico dell’intero danno”.
La corte d’appello ha accolto gli appelli principali nonché gli appelli incidentali ed ha, per l’effetto, revocato la sentenza appellata.
Il Fallimento ha chiesto la cassazione della sentenza della corte d’appello.
La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, cassa con rinvio la sentenza impugnata.
In particolare, il Supremo Collegio ribadisce il principio secondo il quale, nel caso in cui l’azione di responsabilità proposta dal curatore del fallimento nei confronti degli amministratori della società fallita trovi il suo fondamento nella violazione da parte di questi ultimi del divieto di intraprendere nuove operazioni previsto dall’art. 2449 c.c., nel testo anteriore alla riforma del diritto societario, a seguito dello scioglimento della società derivante dalla riduzione del capitale sociale al di sotto dei limiti previsti dall’art. 2447 c.c., il danno dev’essere liquidato nella misura corrispondente alla “perdita incrementale” “riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento della società”, a condizione, però, che tale perdita, a seguito di uno specifico accertamento in fatto sul punto, sia effettivamente riferibile “alla prosecuzione dell’attività” e che la stessa “non si sarebbe verificata ove gli amministratori avessero correttamente operato”, dovendosi, comunque, dedurre dalla stessa la parte che si sarebbe comunque prodotta “anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento, per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali, in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa” (Cass. n. 17033 del 2008, in motiv.).
In caso d’impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all’incompletezza dei dati contabili, tuttavia, il giudice può avvalersi, ai fini della liquidazione del danno, del criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali (Cass. n. 4347 del 2022) ovvero di quello equitativo della differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare (Cass. n. 19733 del 2015), sempre che sia stato allegato un inadempimento degli amministratori almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato e siano state specificate le ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore (Cass. SU n. 9100 del 2015; Cass. n. 38 del 2017; Cass. n. 13220 del 2021).
La mancanza di scritture contabili, al pari della sommarietà delle stesse o della loro inintelligibilità, se, dunque, non è di per sé sufficiente a giustificare la condanna degli amministratori (e dei sindaci che, con la loro inerzia, vi abbiano concorso) in misura corrispondente alla differenza tra passivo accertato e attivo liquidato in sede fallimentare, consente, nondimeno, proprio a fronte dell’impossibilità di quantificare esattamente il danno per la mancanza dei dati contabili a tal fine necessari, la liquidazione equitativa del pregiudizio arrecato al patrimonio sociale in corrispondenza del deficit emerso nella procedura concorsuale ove il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento almeno astrattamente idoneo a porsi come causa di un danno di tale entità (cfr. Cass. n. 15245 del 2022, in motiv.).
Esito:
Cassa, con rinvio, la sentenza n. 1905/2019 della Corte d’Appello di Catania, depositata il 3.9.2019.