Responsabilità civile

Leasing traslativo: quale disciplina in caso di risoluzione?

L'art.1526 sulla vendita con riserva di proprietà si applica solo alla risoluzione per inadempimento, non a quella consensuale (Cassazione, sentenza n. 27999/2019)

decisione

La norma che prevede il ripristino delle originarie posizioni dei contraenti in caso di risoluzione del contratto non trova applicazione nell’ipotesi di scioglimento consensuale. 

Al contratto di leasing traslativo si applica, in via analogica, la disciplina della vendita con riserva di proprietà.

Trova quindi applicazione anche l’art. 1526 c.c. ma solo in caso di risoluzione per inadempimento dovuta a colpa dell’utilizzatore.

Se invece il contratto di leasing si scioglie per mutuo consenso manca il presupposto essenziale di applicazione della norma (l’inadempimento per colpa di una delle parti), dovendosi ritenere che queste ultime abbiano ritenuto confacente ai propri interessi non dare ulteriore esecuzione al rapporto obbligatorio.

Il rapporto pregresso viene quindi ad estinguersi consensualmente con efficacia "ex nunc", non operando, in assenza di una diversa esplicita volontà delle parti, la disciplina legale degli artt. 1458 e 1526 c.c.

Questo il principio statuito dalla terza sezione civile della Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 27999 del 31 ottobre 2019 (testo in calce).

Sommario

I fatti di causa

La pronuncia trae origine da un contratto di leasing immobiliare concluso tra una ditta individuale ed una società e assistito da garanzie personali e reali (pegno di titoli).

A seguito del mancato pagamento dei canoni da parte dell’utilizzatrice, le parti sottoscrivevano un accordo volto a disciplinare la futura prosecuzione del rapporto.

Successivamente e con l’assenso della concedente, la ditta utilizzatrice restituiva l’immobile e cessava il pagamento dei canoni: il contratto veniva quindi risolto consensualmente tra le parti.

La ditta individuale conveniva poi in giudizio la società cedente per formalizzare la predetta risoluzione: chiedeva che venisse accertata e dichiarata la risoluzione del contratto per inadempimento della controparte, con condanna di quest’ultima alla restituzione di tutti i canoni versati e al risarcimento del danno a norma dell’art. 1526 c.c., formulando anche richiesta di revoca del pegno in via subordinata.

La concedente proponeva a sua volta domanda riconvenzionale, chiedendo la declaratoria di risoluzione del contratto per inadempimento colpevole dell’utilizzatrice e la condanna di quest’ultima al rilascio dell’immobile.

Il Tribunale accertava lo scioglimento del contratto per mutuo consenso ma rigettava la domanda di condanna alla restituzione dei canoni, ritenendo che l’art. 1526 c.c. fosse applicabile alla sola ipotesi di risoluzione per inadempimento.

Accoglieva invece la domanda proposta in via subordinata, disponendo lo svincolo del pegno costituito in favore della concedente.

La pronuncia prime cure veniva confermata dalla Corte d’Appello di Milano, che pur ritenendo applicabile l’art. 1526 c.c. all’ipotesi di risoluzione consensuale, ne escludeva l’operatività nel caso di specie.

A detta della Corte difettava infatti un presupposto fondamentale per l’applicazione della norma, ossia la prova dell’indebito vantaggio conseguito dalla concedente mediante l’appropriazione dei canoni versati e la restituzione del bene.

La vicenda giungeva quindi dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione.

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Il ricorso per cassazione: i motivi

Quattro i motivi posti alla base del ricorso.

La prima censura investe il giudizio della Corte d’appello, che tra i presupposti applicativi dell’art. 1526 c.c. ha posto una necessaria sperequazione tra le parti, frutto dell’indebita posizione di vantaggio realizzata dalla concedente.

Una valutazione non condivisa dalla ricorrente, secondo cui l’applicazione analogica dell’art. 1526 c.c. al contratto di leasing traslativo prescinderebbe invece da qualsiasi accertamento giudiziale in ordine all’effettivo assetto delle posizioni delle parti conseguente all’esecuzione del contratto.

Con il secondo motivo di ricorso, proposto in via subordinata, si osserva che, a prescindere dall’applicazione dell’art. 1526 c.c., in caso di risoluzione per inadempimento dovrebbe comunque operare il disposto dell’art. 1458 c.c..

La norma, estensibile analogicamente anche all’ipotesi di risoluzione del contratto per mutuo consenso, comporta come è noto l’obbligo per il concedente di restituire tutti i canoni versati.

Il terzo motivo di ricorso denuncia l’omessa valutazione di un fatto decisivo da parte della Corte territoriale - la prova del versamento dei canoni alla società concedente per tutta la durata del leasing - che, se debitamente rilevato, avrebbe condotto, secondo la ricorrente, ad una diversa valutazione degli “indebiti vantaggi” conseguiti dalla concedente a seguito del mutuo scioglimento del contratto.

Con il quarto motivo si lamenta infine che dal momento che l’utilizzatrice aveva provato lo scioglimento consensuale del contratto e l’ammontare dei canoni corrisposti fino a tal momento, sarebbe stato onere della concedente dar prova del compenso per l’uso del bene per tutta la durata del contratto, da detrarre dall’importo globale dei canoni e restituire all’utilizzatrice per la parte residua.

Leasing “di puro godimento” e leasing “traslativo”

Preliminare all’esame dei motivi di ricorso è l’analisi della fattispecie negoziale sottesa.

La Corte chiarisce a tal proposito che il contratto di leasing finanziario può atteggiarsi diversamente a seconda degli accordi conclusi concretamente dalle parti.

Potrà dunque aversi un leasing “di puro godimento” se lo scopo del contratto è solo quello di consentire l’impiego temporaneo del bene da parte dell’utilizzatore (così Cass. Sez. 1, sentenza n. 13418 del 23/05/2008) oppure un leasing c.d. “traslativo”, se la finalità è quella di consentire un trasferimento differito del bene mediante una rateizzazione del prezzo.

Tale ultima figura negoziale si caratterizza per avere ad oggetto beni che di regola conservano, alla scadenza del rapporto, un valore residuo superiore all’importo convenuto per l’opzione di acquisto.

La durata del contratto è predeterminata solo in funzione del trasferimento differito del bene e della rateizzazione del prezzo d’acquisto, una quota del quale è scontata direttamente attraverso la corresponsione dei canoni (in tal senso cfr. Cass. Sez. 3, sentenza n. 4969 del 02/03/2007; id. Sez. 1, sentenza n. 13418 cit.; id. Sez. 3, sentenza n. 19287 del 10/09/2010; id. Sez. 3, sentenza n. 19732 del 27/09/2011).

L’analogia tra leasing traslativo e vendita con riserva di proprietà è intuitiva, tant’è che la giurisprudenza di legittimità è ormai concorde nel ritenere applicabile (seppur in via analogica e in assenza di diversa pattuizione) la disciplina codicistica prevista per la vendita con riserva anche al leasing traslativo (così Corte Cass. Sez. 3, sentenza n. 73 del 08/01/2010; id. Sez. 1, sentenza n. 2538 del 09/02/2016; id. Sez. 5 -, sentenza n. 8110 del 29/03/2017).

Ciò significa che, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, troverà applicazione anche il disposto dell’art. 1526 c.c., previsione peraltro ritenuta inderogabile "in pejus" dalla giurisprudenza (cfr. Cass. Sez. 3, sentenza n. 19732 del 27/09/2011).

Risoluzione del contratto di leasing e art. 1526 c.c.

Muovendo da tali premesse, la Corte osserva che l’assunto secondo cui la risoluzione del leasing traslativo imporrebbe sempre l’integrale restituzione di tutti i canoni corrisposti dall’utilizzatore è privo di fondamento ed è contraddetto dalla stessa formulazione dell’art. 1526 c.c..

La norma richiama infatti un necessario bilanciamento tra gli interessi delle parti conseguenti all’evoluzione del contratto - tra il risultato negoziale programmato ed il diverso assetto frutto della risoluzione anticipata, tra l’obbligo di restituzione delle rate versate e l’“equo compenso” dovuto al concedente per il godimento del bene - da cui non può in alcun modo prescindersi.

Pur condividendo la conclusione cui è pervenuta la Corte d’appello, la Cassazione ne corregge però la motivazione.

Chiarisce infatti che la Corte territoriale ha errato nel ritenere che l’art. 1526 c.c. sia applicabile anche all’ipotesi di risoluzione consensuale del contratto di leasing, operando invece nel solo caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore.

La decisione della Corte di merito viene dunque confermata nel dispositivo ma ne viene corretta la motivazione alla stregua del seguente principio di diritto: “In tema di scioglimento per mutuo consenso, ai sensi dell’art. 1372 c.c., comma 1, del contratto di leasing traslativo, non trova applicazione -neppure analogica- la disposizione dell’art. 1526 c.c. che prevede il ripristino delle originarie posizioni delle parti contraenti attraverso la restituzione all'utilizzatore delle rate versate ed il riconoscimento al concedente del diritto all’equo compenso per l’uso del bene, difettando nel caso di accordo solutorio l’indefettibile presupposto legale dell’inadempimento imputabile a colpa dell’utilizzatore che determina la risoluzione del contratto, atteso che i contraenti - nell’esercizio della loro autonomia negoziale - hanno valutato confacente ai propri interessi non dare ulteriore seguito alla esecuzione del rapporto obbligatorio, ritenendosi soddisfatti dalla parziale attuazione del contratto. In tal caso il contratto solutorio puro -che non contenga ulteriori disposizioni concernenti il rapporto estinto- produce quale unico effetto quello della liberazione delle parti contraenti dall'obbligo di eseguire le ulteriori prestazioni ancora dovute in virtù del precedente contratto”.

Risoluzione per mutuo consenso e leasing traslativo

Parimenti priva di fondamento è la censura inerente la mancata applicazione dell’art. 1458 c.c. e dunque l’inapplicabilità degli effetti restitutori previsti dalla norma in caso di risoluzione.

Quest’ultima opera infatti rispetto ai soli contratti ad esecuzione continuata o periodica, categoria cui, secondo la Corte e la prevalente giurisprudenza di legittimità, non sono ascrivibili i contratti di leasing traslativo.

Tali fattispecie difettano infatti della perfetta corrispettività tra le prestazioni reciproche e periodiche (propria invece del leasing tradizionale) ma anche dell’equivalenza tra le posizioni delle parti al momento di anticipata risoluzione del rapporto che è appunto il presupposto essenziale per l’applicazione della norma citata (cfr. Cass. Sez. U, sentenza n. 65 del 07/01/1993, che richiama il precedente di Cass. Sez. 1, sentenza n. 5572 del 13/12/1989).

La Corte chiarisce a tal proposito che, salvo diversa, specifica pattuizione negoziale e a differenza di quanto previsto per legge in caso di risoluzione per inadempimento, lo scioglimento del contratto per mutuo dissenso non opera retroattivamente.

Il negozio solutorio si sostanzia infatti in un nuovo contratto che, considerando esaurita la causa funzionale propria di quello precedente, paralizza l’ulteriore svolgimento del rapporto obbligatorio senza però incidere sulle prestazioni già eseguite. Verranno quindi regolati solo i nuovi effetti che si produrranno tra gli originari contraenti, restando invariata la precedente regolamentazione delle prestazioni già eseguite nella vigenza del contratto risolto.

Il solo effetto conseguente alla risoluzione è quindi quello di far cessare i vincoli obbligatori che ancora permangono come retaggio del precedente rapporto, dovendosi ritenere che le parti abbiano reputato satisfattivo l’assetto conseguente alla parziale attuazione realizzata fino a quel momento.

E’ quindi da escludere ogni ulteriore conseguenza, tanto più in termini di ripristino dello "status quo ante", proprio per effetto della valutazione compiuta dalle parti al momento di caducazione dell’accordo.

Il rapporto pregresso viene quindi ad estinguersi consensualmente con efficacia "ex nunc", non operando, in assenza di una diversa esplicita volontà delle parti, la disciplina legale degli artt. 1458 e 1526 c.c.

Nel caso di specie, osserva la Corte, entrambi i Giudici di merito hanno accertato che non era intervenuto alcun accordo modificativo del contratto di leasing, volto a disporre la prosecuzione del rapporto.

Il contratto originario doveva quindi intendersi risolto consensualmente a fronte della cessazione del pagamento dei canoni seguita dalla restituzione dell’immobile, circostanze cui con valenza inequivoca.

Conclusioni

Sulla base delle riferite argomentazioni la Corte ha quindi rigettato il ricorso, condannando la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità e all’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002.

CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 27999/2019 > SCARICA IL TESTO IN PDF

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