Onlife - Quando è iniziata l'era del perfezionismo?

Onlife - Quando è iniziata l'era del perfezionismo?

Oggi si parla della morte di Facebook, il social nato in una stanza di Harvard, ma a ripensarci è lì che abbiamo contratto il virus dell'apparire, del controllo delle nostre fotografie, e del bisogno di dire sempre qualcosa di intelligente. Il punto di Ester Viola

ester viola onlife cosmopolitan facebook
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Ebbene, insieme ad Alessandro Michele che se ne va da Gucci, giunge il nunzio anche di una possibile uscita di Mark Zuckerberg da Meta. Pettegolezzo, fesserie. Liquidano così. Mica il genio abbandona la sua creatura, il primo figlio, impossibile.

La mala parata però è sotto gli occhi di tutti. L’aggeggio sanguina, perde soldi, tanti soldi. Facebook è ormai il social dinosauro, chi volete che ci stia, zii e genitori a mettersi like tra loro, e caricare dodici foto della festa di compleanno della cognata Mariassunta, con torta poco fotogenica fatta in casa, panna squagliata, luci terribili, vecchiaie assortite. Su Facebook resistono ostinati quelli che non hanno saputo farsi strada altrove, sui social moderni, quelli più esigenti, più rapidi. Infine ci restano - terribile razza - quelli che vogliono ancora scrivere lungo.

I giovani e semigiovani non ci vanno più, su Facebook. Giusto qualche volta, perché si fa, perché si deve, ieri mi ha scritto la mia maestra delle elementari, Maria Letizia. È come tornare al paese a Natale, la cameretta, le tue cose, ancora i diari di scuola con le copertine scarrupate, ma tu sei andato via, non c’entri più, con quel mondo. E però quel mondo insiste a farsi chiamare casa. Il passato è vorace, funziona così. Brutta bestia.

E io c’ero, però. Me lo ricordo. Ve lo ricordate pure voi. L’abbiamo preso insieme, quel traghetto per l’oltremondo, quindici anni fa. Oltremondo. Così lo chiama Baricco, nel suo The Game, pubblicato per Einaudi. Quando tra log in e log out c’era un interruttore. Quelli fuori, noi, diventavano quelli dentro solo ogni tanto, e in quel dentro ci pascolavano poco.

«Qualcuno, tale Tim O’Reilly, un editore irlandese che veniva da studi classici, conia l’espressione "Web 2.0". L’intenzione era quella di distinguere una prima fase del Web – in cui l’utente per lo piú era passivo: consultava, navigava, ma trovava le cose già cucinate – da una seconda fase segnata dall’interattività diffusa: l’utente era chiamato, piú direttamente, a creare l’oltremondo. È uno spartiacque sensato, e rende bene conto di cosa abbia significato la colonizzazione digitale: non ci siamo limitati a prendere possesso delle terre dell’oltremondo, ma ci siamo messi, tutti, a coltivarle, a disegnarle, a costruirle. Cosa che Tim capí quattordici anni fa».

Io me lo ricordo. Era il 2008, forse già il 2009.

Come non hai Facebook?

No.

Ma come no. Iscriviti subito.

Ma a che serve?

Vedrai.

Ma vedrai cosa?

Siamo tutti lì, c’è anche XY. Secondo me s’è lasciato con Z. Non ci sono foto insieme.

Ma che fate su quel coso?

Niente. Cioè scriviamo. Ci parliamo. Ti piacerà, ti dico.

Figurati.

Due giorni dopo ce l’avevo. Facebook. Ero entrata nel gruppo, ben ultima, ma c’ero. Un profilo nuovo di zecca, all’inizio senza foto, ero un figurino grigio. Eravamo tanti, figurini grigi. E mi dissero tutti: devi mettere la foto.

Leggevo i cazzi degli altri. Ma devi scrivere i tuoi, mi dissero tutti.

Quando ci vedevamo, tra amici, fuori, cominciavamo a commentarci le bacheche, si chiamavano così.

Pubblicare o morte (online). O scrivevo anche io qualche vago cazzo personale e iniziavo con gli autosacatti, o sarei rimasta esclusa dalla comunità. Sarei diventata tappezzeria. C’era già il gruppo dei saranno famosi di Facebook. Daniele aveva già impilato e reso pubblici sette album con tutte le foto di Capri, barche, mondanità. Iniziava a raccogliere consensi (like) anche da forestiere che se lo immaginavano ricco e matrimoniabile. Insomma, lo sapevamo tutti che bisognava fare di più. Diventare qualcuno online in provincia era la nuova Vuitton.

Il disagio, la diffidenza, durarono come il giocattolo del bambino ricco. Dopo qualche mese non c’erano più figurini grigi. Chi era quella figa sfavillante? Marialaura? Ma dai. E come aveva fatto a venire così, che pare Laetitia Casta, mandando le foto alla Madonna di Pompei?

Iniziammo a scrivere tutti, specie i meno belli, per farci apprezzare in qualche modo. Barzellette penose. Talmente penose che avevo un incubo ricorrente: nonostante il profilo chiuso, e segreto, sognavo il mio datore di lavoro che mi chiamava in disparte mostrandomi i miei status e mi chiedeva: «Ester, ma perché scrive queste sciocchezze?».

E mi svegliavo. Con un senso di imbarazzo che proseguiva per qualche minuto. Era il primo sintomo di salute che se ne andava, il senso di colpa e di ridicolo che poi negli anni ci ha abbandonato del tutto. La decenza umana non aveva speranze di farcela contro Golia. La microdose di dopamina del like era troppo forte, troppo bella. Era la musica del pifferaio. Non si poteva più fare senza.

Intanto passavano le stagioni e aumentava la confidenza.

Diventammo amici degli amici di gente che leggevamo altrove e ci piaceva, o ci divertiva. Eravamo di casa a casa di estranei. La scioltezza online cresceva ancora, a dismisura, cresceva come una pasta lievitata. Gli amici cominciarono a sentirsi autorizzati anche a scansionare le foto della gita dell’ultimo anno del liceo, delle vacanze dell’università, e taggare spietatamente in quell’inferno di Smemorande, sopracciglia sbagliate e guardaroba imperdonabile che sono stati i nostri vent’anni.

Ricordo benissimo quando persi la verginità sull’argomento “la tua faccia è in home dall’angolo sbagliato”. Mi ero appena iscritta a Facebook, e in bacheca – sarà stato il mio terzo log-in - avevo forse la più brutta foto che mi fosse mai stata scattata, postata da un’amica. Avevo un pullover giallo pelle-di-pollo e ridevo troppo, ero piena di denti, i denti erano storti, gli occhi non sembravano manco appartenere alla stessa faccia, tanto erano asimmetrici, un naso che non finiva mai.

Al momento avevo stabilito che non era importante, chi volevi ci avrebbe fatto caso.

Era un giovedì e credevo non l’avrebbe vista nessuno.

Due giorni dopo, un amico, un buon amico della compagnia con cui uscivo il sabato sera, Pasquale, al posto del «Come stai?» mi avvertì: «Fatti togliere quella foto». Era serio, non scherzava, lo diceva per il mio bene. Mi toccò il braccio in segno di vicinanza e di allarme.

Tornai a casa, accesi il pc alle due di notte – fu anche il mio primo log in ansioso – e riguardai la foto. Davvero, come aveva potuto. Io non ero quella, io ero meglio. La mattina dopo scrissi un messaggio a Cinzia.

«Scusami, per favore, la potresti togliere? Sai, la privacy, non amo tanto che ci siano mie foto stupide sui social. Sai, la deontologia professionale, l’albo degli avvocati, anzi dei praticanti».

Per vendetta quella domenica mi autoscattai con tanta di quella lena che nell’ultimo quarto d’ora, tagliando e saturando, venni fuori un paio di volte come un bianco e nero di Monica Bellucci prima maniera. Tutto era compiuto, Facebook cominciava a fare effetto, avevo preso la malattia.

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