C’è qualcosa di speciale che lega Wes Anderson allo scrittore britannico Roald Dahl fin da quando, da bambino, lo leggeva nella sua cameretta a Houston, in Texas. Forse proprio lì ha iniziato a immaginare, anche attraverso quelle parole, il suo cinema colorato e immaginifico, fatto di inquadrature simmetriche che lo rendono riconoscibile al primo sguardo. Oggi non solo Anderson continua a leggere i racconti di Dahl con la figlia Freya, di sette anni, ma da alcune di quelle storie ha tratto nel 2009 il film Fantastix Mr. Fox e ora una serie di quattro film brevi che approdano su Netflix: La meravigliosa storia di Henry Sugar, Il cigno, Il derattizzatore e Veleno.

E in questi giorni esce al cinema anche il suo nuovo film Asteroid City, con Scarlett Johansson e Tom Hanks, ambientato nel 1955 tra gli abitanti di una cittadina in quarantena per un contatto con gli alieni. Tutti questi progetti, spiega Anderson, hanno preso forma durante la pandemia: «Qualcuno dirà che i mesi del covid erano il momento perfetto per stare con la famiglia. E in effetti ero con la mia famiglia, ma lavorando al computer», sorride da Venezia, dove l’abbiamo incontrato per la presentazione di La meravigliosa storia di Henry Sugar, nel quale Roald Dahl in persona, interpretato da Ralph Fiennes, ci racconta la strana vicenda del ricco Henry Sugar, Benedict Cumberbatch, che scopre a sua volta un guru indiano, Ben Kinglsey, in grado di vedere senza usare gli occhi.

Quando è nata l’idea di adattare questo racconto?

Molti anni fa quando ho visitato Gipsy House, la casa di famiglia di Dahl nel Buckinghamshire, e ho incontrato la moglie Felicity e il nipote Luke. Ma il progetto si è sbloccato solo quando ho deciso di usare nel film le parole stesse di Dahl. Leggendolo a mia figlia ho capito che quello che amavo era proprio il modo in cui la sua voce, le sue metafore portavano questa storia alla luce.

the wonderful story of henry sugar benedict cumberbatch as henry sugar in the wonderful story of henry sugar cr netflix ©2023pinterest icon
Netflix

Per questi nuovi film brevi ha scelto alcuni dei racconti di Dahl che contengono i suoi passaggi più crudeli…

Henry Sugar è una storia amichevole, ma in effetti Il derattizzatore, su un disinfestatore di ratti, è molto disturbante, Il cigno, su due ragazzi che ne bullizzano un altro, è dark, e Veleno ha una sorta di brutalità emotiva che ho affrontato come fosse una storia di un altro tempo. Sono forse i racconti di Dahl che ci riportano meglio il suo famoso lato nero.

Tra gli anni ’60 e ’80 Dahl ha scritto romanzi celebri molto frequentati dal cinema come La fabbrica di cioccolato e Matilde. Oggi gli editori britannici hanno deciso di eliminare dai suoi testi i passaggi che, per la sensibilità contemporanea, possono suonare offensivi, come la parola “grasso” usata in senso dispregiativo. Che ne pensa?

Penso che nemmeno l’autore stesso avrebbe il diritto di cambiare la sua opera a posteriori. Una volta che l’ha lasciata nel mondo, l’opera non è più sua, appartiene al pubblico. Tanto meno quindi quei testi dovrebbero essere cambiati da qualcun altro.

Lei quando ha finito un’opera riesce davvero a lasciarla andare?

Sono diventato un po’ ossessionato da quello che avrei potuto fare diversamente. Soprattutto per Le avventure acquatiche di Steve Zissou: a un certo punto eravamo 20 giorni oltre il termine delle riprese, 10 milioni di dollari oltre il budget, e alcune cose che avevamo programmato non si potevano fare. Abbiamo dovuto trovare soluzioni alternative.

Il suo stile è amato anche perché molto riconoscibile. Come l’ha costruito nel tempo?

In realtà per me ogni progetto è diverso, ma capisco che quando il pubblico li vede pensa: ecco, questo è tipico Wes Anderson. Henry Sugar è ambientato in India, Asteroid City nel deserto. Il mio stile si evolve senza che ci rifletta troppo su. L’approccio è prendere molte informazioni e cercare di metterle tutte in un’inquadratura nel modo più semplice.

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Nicky J Sims//Getty Images

Asteroid City è ambientato negli Stati Uniti ma è girato in Spagna, perché?

Volevo fare qualcosa di poetico e surreale insieme. Il cinema di Wim Wenders, che è nato a Berlino, è stato una delle ispirazioni più importanti: la sua visione dell’America mi ha ispirato più della mia stessa esperienza nel deserto del Texas.

Racconta spesso storie contenute in altre storie, come in una sorta di cornice, attraversando i media…

Mi piace quest’idea, l’ho usata anche in Grand Budapest Hotel, ispirato al libro di Stefan Zweig, che usa lo stesso meccanismo in molti suoi libri. Però qualche mese fa ho scritto con Roman Coppola un film senza la cornice, un racconto piuttosto lineare anche se strambo, con tre personaggi, girato in una stanza. E in futuro farò un progetto animato che quasi non avrà parole.

Che rapporto ha con la letteratura?

Amo i libri, ne possiedo molti che non ho letto eppure continuo a comprarne. Condivido l’amore che aveva Truffaut: anche se i suoi film non erano adattamenti, erano pieni di libri. Nei film di Godard i personaggi vanno in giro sempre leggendo, e lui amava riempire lo schermo di parole.

Perché lavora spesso con le stesse persone? Roman Coppola, Jason Schwartzman, Bill Murray...

Per un senso di protezione. Ho tra i miei amici i migliori attori del mondo, ogni film è come una reunion, ma allo stesso tempo mi piace avere voci nuove. Fare un film è accettare che il caos entri nella tua vita. Girando Il treno per il Darjeeling, gli anziani di un piccolo villaggio in India ci hanno costruito apposta una capanna per le riprese, ma il giorno dopo siamo tornati e l’avevano tutta decorata con dei fiori, anche se la scena era un funerale. Abbiamo girato lo stesso.

Quale cinema l’ha ispirata da ragazzo?

Guerre Stellari: ancora oggi mia figlia fa finta di essere la principessa Leila. Ma anche Spielberg e Hitchcock. A Houston c’erano poche sale, ma andavo al cinema ogni weekend.

I suoi film hanno sempre anche un tono giocoso. Anche lei è così nella vita?

Lavoro meglio se mi diverto nel mio gruppo. Molti registi sono più concentrati sul superare le sfide quotidiane sul set, mentre io penso di avere un po’ una sindrome per cui il modo normale di fare le cose non è mai il modo in cui voglio farle.