The French Dispatch di Wes Anderson, con Benicio Del Toro, Léa Seydoux, Bill Murray, Tilda Swinton, Frances McDormand, Timothée Chalamet (film, al cinema dall’11 novembre)

Nel 2001, esattamente vent’anni fa, uscì I Tenenbaum, terzo film di Wes Anderson. Un film imperdibile e prezioso. Da allora, Anderson ha continuato ad essere prezioso, non sempre imperdibile. The French Dispatch è un compendio delle ossessioni del regista, in particolare quella per la nostalgia, nostalgia della carta stampata, nostalgia della gioventù, nostalgia della nostalgia stessa. Il titolo completo del film è The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun ovvero il nome di un fittizio supplemento di un fittizio giornale del Kansas. Così fittizio che viene realizzato in Francia, in una città inventata dal nome divino Ennui-Sur-Blasé (in realtà è stato girato ad Angoulême) e però la rivista somiglia parecchio al New Yorker, non tanto al vero New Yorker ma all’idea platonica di una rivista raffinata, elitaria, graficamente e stilisticamente perfetta.

Entrare nei film di Anderson è come entrare in un mondo parallelo, fatto di cose bellissime ma illogiche. Infatti, The French Dispatch è anche il primo film antologico della storia a essere impaginato come una rivista. (Ci sono tre storie, per me la migliore è quella con Del Toro pittore informale/brutalista in galera, la più debole il ’68 con Chalamet giovane engagé). Inoltre, cambia tempo e luogo e protagonisti e persino genere, diventando, a un certo punto un cartoon. Ah, e imbarca un numero impressionante di facce note per pochissimi minuti di posa, altro classico giochino di Anderson, qui portato all’estremo. Elizabeth Moss per un attimo, Owen Wilson per due, Willem Dafoe per un’inquadratura, Henry Winkler (Fonzie di Happy Days, sì) manco il tempo del lampo di un ricordo.

C’è chi definisce i film di Anderson “film boutique”, io li vedo più come torte multistrato particolarmente elaborate, a volte troppo. Qui, al cuore dell’impasto, c’è davvero l’idea di omaggiare la bella scrittura stampata di una volta, la forza evocativa dei racconti dei grandi. Altri strati s’inchinano al cinema europeo o comunque all’idea di cinema europeo che è di Wes Anderson, altri ancora alla sua evidente e smodata passione per la simmetria e per la cartoleria. La colonna sonora del film è di Alexander Desplat ma le note del musicista premio Oscar sono sottolineate da una serie di rumori del secolo scorso: i concertini dei tasti delle macchine per scrivere e delle matite sulla carta.

Insomma, è il solito Anderson. Eccentrico, adorabile. Se siete fan, se vi emozionate ogni volta che entrate nel suo Bar Luce della Fondazione Prada che lui realizzò a Milano nel 2015, non potete perdere questo film.