Francesca Amitrano “Con la fotografia illumino il cinema della Napoli più buia” - la Repubblica

Napoli

L’intervista

Francesca Amitrano “Con la fotografia illumino il cinema della Napoli più buia”

Francesca Amitrano “Con la fotografia illumino il cinema della Napoli più buia”
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I personaggi di “Mare Fuori” sembrano camminarti accanto, anime perse colme di speranza che cercano riscatto con lo sguardo.

A moltiplicare l’impatto è la fotografia della serie che ha sbancato nel mondo. Una luce che Francesca Amitrano ha capito ben presto come orientare nel cinema. Le è bastato mettere il naso fuori casa, dopo il Ponte della Sanità, e dopo aver visto le scene ambientate nel 1999 alla Galleria Principe di Napoli del film “Il talento di Mr. Ripley” con Jude Law, ha compreso che la fotografia può cambiare universi, migliorarli, suscitare visioni. Classe 1979, direttrice della fotografia delle stagioni della serie dei record Mare Fuori 2, 3 e 4 e della prossima, la quinta, Francesca Amitrano in meno di 15 anni, dopo la formazione al Centro Sperimentale e uno stage con Matteo Garrone su “Gomorra”, ha firmato la fotografia di grandi progetti di cinema e tv.

Tre volte candidata ai Nastri d’argento per “Ammore e malavita” e “Diabolik” dei Manetti Bros e “La tristezza ha il sogno leggero” di Marco Mario De Notaris, attore e regista, suo marito e padre di sua figlia Lucia. Sguardo sognante, passione militante per la vita, la settima arte e la politica per un altro mondo possibile. Francesca Amitrano è una delle poche donne direttrici della fotografia nel cinema italiano.

Amitrano, dopo anni di gavetta e film al cinema, come ci si sente a “illuminare” Mare Fuori, tra le serie internazionali più viste?

«Siamo pronti per andare sul set: ne sono felice, girare nella propria città, far parte di un progetto così amato è entusiasmante, ho sempre pensato che attraverso la luce puoi raccontare le emozioni e trasformare luoghi così come la Galleria Principe ha cambiato per un attimo quello che, quand’ero una liceale, era uno dei luoghi più abbandonati di Napoli, rinato solo negli ultimi tre o quattro anni. Così mi sono innamorata della fotografia. Con “Mare Fuori” è stato lo stesso: qualcosa che si presume debba essere brutto, buio, deprimente, un carcere minorile, è diventato bello, è lì che fluiscono i sentimenti e le emozioni dei ragazzi. Per questo siamo stati anche criticati, ma ci sono spettatori che hanno visto intere stagioni quattro o cinque volte».

In che senso criticati?

«C’è l’idea che un posto come il carcere dev’essere brutto: invece la fotografia, anche se molto realistica, l’ha reso bello. Ogni tanto ci permettiamo di suggerire anche qualche luogo del cuore al regista, io ho proposto la Piscina Mirabilis:

è il finale della terza stagione».

Qual è la scena a cui tiene di più?

«Durante le riprese della quarta stagione, dovevamo allestire la scena in cui Carmine dichiara il suo amore a Rosa, che però pensa un po’ a se stessa. Lo sfondo era un bagno, asettico, bianco, con la luce piatta. Ho detto al regista che volevo partire da zero, ho oscurato tutto e ricreato daccapo. Ho immaginato che fosse pomeriggio tardi. Per raccontare i loro stati d’animo, ho usato dei vetri rotti che vengono colpiti dalla luce, come se il sole colpisse il mare e Carmine e Rosa venissero illuminati da questa luce».

Visione e creatività, è questo il segreto del successo della serie?

«Non esiste una ricetta, funziona il gruppo, questi ragazzi bravissimi dai volti che bucano lo schermo, tanto talento e passione. Ho lavorato con tre registi a “Mare Fuori”, la prima Milena Cocozza poi con Ivan Silvestrini e ora con Ludovico Di Martino».

Come mai ha deciso di fare la direttrice delle fotografia e non la regista?

«Da ragazzina volevo fare la fotogiornalista, poi la passione per il documentario ha preso il sopravvento, grazie anche alla militanza politica, passione venuta fuori al liceo: ho frequentato il Genovesi, e poi all’università Scienze Politiche: ho partecipato al No Global Forum, al G8 di Genova e poi alla Carovana per la Palestina, c’erano anche i 99 Posse con noi. Frequentavo, intanto, un corso con Leonardo Di Costanzo, Giovanni Piperno e Agostino Ferrente, e pensavo che il documentario aveva una luce in Italia non bella, negli anni 2000 era così. Ma poi guardavo a film come “Frida e The Hours”, e ho detto: perché il documentario non può avere questa luce così bella come i film? Per questo ho provato le selezioni per fotografia al Csc -Centro sperimentale di Roma».

E poi?

«Frequentavo i festival, a “Linea d’Ombra” ho conosciuto il direttore Mario Amura, è stato decisivo per la scelta. Finito il Csc, arriva uno stage sul set di Gomorra con Matteo Garrone, e la frase illuminante del regista Mariano Baino: Francesca, ci sarà mai un giorno che qualcuno ti dirà questo è il tuo giorno? E allora ho iniziato a mandare il curriculum in giro partendo dalle piccole produzioni. La fortuna ha voluto che mentre iniziavo, Gaetano Di Vaio a Napoli fondava la casa di produzione Figli del Bronx. Mi ha chiesto di seguire Abel Ferrara per una specie di spot elettorale per Beppe Grillo, mancava un operatore e poi mi ha presentato Guido Lombardi, ho diretto la fotografia del suo primo corto “Vomero Travel”, poi “Là Bas” premiato a Venezia, Take Five e poi ho conosciuto i Manetti Bros».

Un ciclone che ha coinciso con la rinascita del cinema a Napoli...

«Un po’ sì: “Song’ e Napule” ha girato tanto anche grazie al passaparola, con i Manetti Bros poi ho fatto il Commissario Rex e l’ispettore Coliandro con Giampaolo Morelli per il quale mi sono trasferita a Bologna. Il ritorno a Napoli con “Ammore e Malavita” è stato un successo, ma io non volevo accettare, ero incinta».

E i Manetti Bros come l’hanno presa?

«Non mi hanno lasciato scelta, e forse scherzando hanno detto che avrebbero fatto il film senza direttore della fotografia piuttosto che senza di me. Il termine della gravidanza coincideva con l’inizio delle riprese. Ma Lucia ci ha messo del suo, è nata tre settimane prima. E’ finita che ho iniziato ad allattarla nelle Vele di Scampia sul set».

A proposito di donne: ha fatto dei workshop al Csc, proprio dove ha studiato e insegna all’Accademia di Belle Arti, ma nonostante le soddisfazioni, rimangono le difficoltà: avete fondato un collettivo dei direttori di fotografia Chiaroscuro nel quale lei si sta occupando della questione del gender gap nel cinema...

«Ci siamo rese conto che anche quando arriviamo a dirigere un comparto o a ruoli di responsabilità guadagniamo molto meno di un uomo, vogliamo far partire un’indagine dell’Istat sul gender gap salariale e non solo, in Italia le direttrici di fotografia che lavorano di più sono poche, oltre me sono Martina Cocco, che ha fatto “The Good Mothers”, Sara Purgatorio, Maura Morales, Debora Vrizzi e Daria D’Antonio. Gli inizi sono stati difficili, ma ora vogliamo cambiare le cose insieme... A proposito della questione femminile sono orgogliosa di aver fatto il film di Marta Savina, “Primadonna”, ispirato alla storia di Franca Viola che ha portato a cambiare la legge: lo stupro è diventato da reato contro la morale reato contro la persona ».

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