Invero appare sempre più scontato iniziare a parlare di televisione a partire da un preambolo sui cambiamenti introdotti dalle nuove piattaforme streaming, in primo luogo perché è davvero così, ma sarebbe una mancanza non cogliere come le serie della tipologia di Sharp objects, oggi presa in esame, abbiano il proprio principio in tentativi di adattamento e/o replica al nuovo di Netflix e cugini. Imposto un nuovo modello, la concorrenza deve aggiornarsi; stiamo parlando in termini mercantilistici in virtù del fatto che il piccolo schermo ha saputo muoversi soprattutto in questa direzione nel corso dell’ultimo quarto di secolo, almeno finché si parla della TV cable – quella generalista invece sopravvivrà uguale a se stessa nei secoli dei secoli.

Il punto della situazione

Chiaramente non possiamo ripercorrere interamente in questa sede quel processo di mutamento, ancor oggi purtroppo più radicale che mai, che sta schiacciando il cinema sul modello televisivo, specie attraverso le nuove forme di serializzazione e tabletizzazione fingendo l’esatto contrario. I network come HBO che fino a nemmeno dieci anni fa erano i padroni incontrastati delle frequenze a pagamento si sono visti superati, e progetti come Sharp objects rappresentano appieno una reazione al fenomeno: Sharp objects è il primo assaggio della vera e propria HBO 2018/19, dove il prototipo, il tipo-0 è rappresentato da Big little lies. Anche se stiamo trattando di una miniserie (questa sarà la prima e unica stagione), essa mutua da quell’evento mignon in sette episodi il format (poche puntate ma intense, e abbondanti in termini di minutaggio), l’impostazione del casting (affiancare interpreti di livello celebrati dalla critica a volti idolatrati dal pubblico adolescente), una configurazione dramathriller di ispirazione “letteraria” (il romanzo è Sulla pelle di quella Gyllian Flynn, alcuni lavori della quale sono stati già adattati per il grande schermo con La ragazza del treno e Gone girl) e soprattutto la regia, affidata anche in questo caso a Jean-Marc Vallée.

Quest’ultimo è anche uno dei nomi di punta, anche a livello pubblicitario, assieme quello di una trasognata Amy Adams che qui è Camille Preaker, mediocre giornalista del Chronicle di St. Louis che ritorna a malincuore a nel paesino natio di Wind Gap, divenuto da poco il teatro di un duplice omicidio, costretta a scrivere un pezzo strappalacrime dal proprio editore intenzionato a sfruttarne i natali per creare un effetto di finto intimismo che faccia vendere copie, memore del successo riscosso da uno dei giornali concorrenti con un caso analogo. Camille qui si scontra la quella mentalità arretrata e rurale che era sta felice di lasciare, ostacolata dalla diffidenza della polizia locale, dal malcelato astio della famiglia che non vuole sfigurare di fronte alla “gente”, e da una comunità chiusa che la etichetta ormai come forestiera.

La miniserie

Il pilot fa tutto ciò che dovrebbe fare un pilot, cioè introdurre con pazienza situazione, conflitti e personaggi. Vallée sceglie un approccio rapido che ci porta subito a Wind Gap, smorzando l’artificiosità della prima costruzione dell’intreccio attraverso un sistema di flashback, parallelismi visivi e soprattutto giochi di specchi e riflessi che un montaggio sapiente riesce a coniugare con lo svolgimento dell’azione presente. Camille ha un passato oscuro, ed è abbastanza ovvio sin da subito che il vero segreto riguarda lei in prima persona, le due ragazzine morte sono l’escamotage che riporta la protagonista lì dove dev’essere per svelare il mistero, divenendo un tutt’uno con la sua risoluzione. Mistero che come prevedibile ha a che fare con la realtà di questo borgo arretrato, elemento cardine in uno sviluppo narrativo non troppo originale sinora: siamo abituati a vedere questo tipo di cittadina che vive di caccia e vecchie storie in quello che nel cinema ora viene chiamato southern drama, dove viene presentato come la vera faccia dell’America. Qui invece invece si calca la mano sull’ambientazione solo in contrasto la caratterizzazione da ribelle vecchio stile di Camille, come una piccola realtà frutto di una oscillazione erronea del migliore dei mondi possibili.

Sempre difficile sfuggire a questo tipo di retorica, certo, ma ne risulta, di riflesso, una caratterizzazione puerile del personaggio, tanto da puntare più sull’immedesimazione con il pubblico di target che sulla psicologia dello stesso. Ovviamente ci aspettiamo un monte-durata di appena 8 ore quindi procedere con misura o per strati si presenta complicato, ma allora si sarebbe dovuto puntare di più sull’interpretazione di Adams, in grado di aggiungere qualcosa a un personaggio meno delineato. Infatti anche la stessa attrice risulta un po’ bloccata, forse per via di un approccio registico fin troppo invasivo. Non si può negare che Vallée abbia firmato una prima regia sì di livello, delicata e precisa, però si ha come l’impressione che a tratti il regista premiato per Dallas Buyers Club abbia voluto strafare, scimmiottando quel Cary Fukunaga che in True Detective (di cui si va abbastanza in scia) aveva rappresentato un vero valore aggiunto: la semplicità spesso è un’ottima scelta in TV, fare finta di fare del cinema a puntate non è non sarà mai ammissibile. Alcune scelte di Vallée hanno pagato, altre no.

La prima puntata di Sharp objects alla fine non può essere biasimata eccessivamente, centra l’obiettivo, risulta talvolta forse un po’ ruvida, nel senso che non si scorge una quadratura delle varie idee alla base, è scattosa e poco amalgamata, ma in fin dei conti quale pilota non lo è. Quest’incipit rivela forse del potenziale inespresso, ma non ne paga troppo lo scotto, dato che il tempo per redimersi certamente c’è, alla luce anche del cliffhanger di chiusura. Camille non è solo una persona dal passato tormentato che affoga la tensione nell’alcol, è così turbata che gli eponimi corpi contundenti li utilizza per incidersi la pelle, il suo autolesionismo è una sorta di grafomania nervosa che non ha dimenticato la morte di un’amica d’infanzia, l’ombra di comunità che vive di e per un omertoso isolamento, e una madre Adora (una Patricia Clarkson che avrà molto da dire) che ha sempre posto in primo piano il buon nome della famiglia, professando il culto della donna muliebre e imponendo lo stesso pensiero a Camille e alla di lei sorellastra, avuta in seconde nozze. Il montaggio, come già accennato dà la spinta necessaria per considerare Vanish un buon inizio, capace di giocarsi subito alcune cartucce (solitamente segno d’abbondanza) anche se macchiato da più di una caduta. Sufficientemente lento, non troppo poco concreto, ma la prossima settimana però ci si deve aspettare un deciso passo in avanti.

Qui lunedì prossimo su NonSoloCinema scopriremo se così sarà, e così fino all’ultimo episodio.