Scoop: recensione del film originale Netflix con Gillian Anderson
    Scoop Scoop

    In evidenza

    Scoop: recensione del film Netflix con Gillian Anderson

    Pubblicato

    il

    L’intervista concessa dal duca di York Andrea alla BBC, incentrata sulla sua amicizia con il famigerato Jeffrey Epstein e sul suo possibile coinvolgimento in reati sessuali, è stata indubbiamente uno spartiacque per la famiglia reale britannica. Non tanto per le conseguenze sullo stesso Andrea (a cui la madre Elisabetta ha revocato il titolo di Altezza Reale e i gradi militari), ma perché ha evidenziato lo scollamento totale fra la percezione della corona e l’opinione pubblica, già messa a dura prova dai ripetuti scandali. Una vicenda brillantemente messa in scena in Scoop, film Netflix di Philip Martin con Gillian Anderson, Billie Piper, Keeley Hawes e Rufus Sewell.

    Un duello dalle sfumature western (come esplicitamente detto durante il film) fra due istituzioni britanniche, accomunate dagli stessi problemi nella comunicazione. Da una parte la BBC, legata a un giornalismo tradizionale e in difficoltà a mantenere il passo della concorrenza sui vari media; dall’altra la famiglia reale e nello specifico Andrea, intenzionato a riprendere il controllo della narrazione nel maldestro tentativo di ripulirsi l’immagine. Sulla base di Scoops: The BBC’s Most Shocking Interviews from Prince Andrew to Steven Seagal di Sam McAlister, viviamo così la genesi di questa storica intervista, fortemente cercata da lei stessa in qualità di produttrice (impersonata da Billie Piper) e sagacemente condotta da Emily Maitlis (Gillian Anderson, strepitosa come sempre).

    Con il passare dei minuti, assistiamo allo sgretolamento delle certezze di Andrea (un mimetico Rufus Sewell) e della sua segretaria personale Amanda Thirsk (Keeley Hawes), incapaci di cogliere l’inefficacia della loro strategia comunicativa su una vicenda a dir poco sinistra, che coinvolge diverse ragazze minorenni all’epoca dei fatti.

    Scoop: l’intervista al principe Andrea fra grande giornalismo e pessima comunicazione

    Billie Piper in un'immagine di Scoop, nuovo film originale Netflix sulla celebre intervista della BBC al Principe Andrea

    Anche se l’intervista è ricostruita con dovizia di particolari (le parole ovviamente, ma anche le luci, la scenografia, la postura dei corpi), il cuore di Scoop è rappresentato dal giornalismo. Un giornalismo messo sempre più in crisi dai social, che portano i lettori a diventare parte attiva dell’inchiesta e del dibattito (come sottolinea la stessa Sam McAlister), ma anche e soprattutto dall’aderenza a dinamiche dell’informazione ormai irrimediabilmente superate, responsabili di un progressivo allontanamento da ciò che oggi percepiamo come notizia o utile spunto di approfondimento. Una dinamica che si riflette sulle persone responsabili delle comunicazioni istituzionali, a loro volta legate a protocolli troppo rigidi e a una percezione distorta dei cittadini e del loro spirito critico.

    Anche se in prima linea ci sono Andrea ed Emily Maitlis, lo scontro alla base di Scoop è soprattutto fra chi osserva i duellanti da dietro le quinte, ovvero Sam McAlister e Amanda Thirsk. Due donne che non mancano di sottolineare la loro stima reciproca, ma che per la loro diversa sensibilità sulla gestione di questo straordinario evento mediatico finiscono per trovarsi ai lati opposti della storia. Nell’ombra c’è poi una terza figura, cioè la Regina Elisabetta, sempre presente nonostante non sia mai in scena. Una presenza che aleggia sia sulla BBC, che teme una sua ingerenza sull’intervista, sia su Andrea, che al contrario si muove con disinvoltura eccessiva e fatale per il suo percorso all’interno della famiglia reale.

    L’autogol della corona britannica

    Gillian Anderson in un'immagine di Scoop, nuovo film originale Netflix sulla celebre intervista della BBC al Principe Andrea

    Anche se ormai siamo abituati alle catastrofi comunicative, grazie soprattutto al notevole contributo alla causa delle istituzioni italiane, non si può che restare esterrefatti davanti a Scoop. Come è possibile che nessuno fra Andrea e il suo staff abbia compreso l’insostenibilità di una strategia basata sulla totale negazione di fatti ampiamente documentati da foto e testimonianze dirette? Perché durante le varie sessioni di prova per l”intervista (anch’esse mostrate nel film) non si è intervenuto sulla postura del duca di York, sul suo evidente imbarazzo e sulla sua mimica facciale, già da sola in grado di comunicare colpevolezza e disagio? Perché anche davanti all’evidenza nessuno dello staff della più celebre casa reale del pianeta è stato in grado di riconoscere un plateale boomerang a livello comunicativo?

    Domande che al di là degli inevitabili capri espiatori sono destinate a rimanere senza risposta, ma testimoniano la differenza di velocità fra un’informazione in rapidissima evoluzione e un apparato politico, diplomatico e istituzionale semplicemente incapace di reggere il passo. Philip Martin, non a caso già alla regia di alcuni episodi di The Crown, riesce a trasformare in pregevole racconto questa dinamica, avvalendosi della sceneggiatura calibrata alla perfezione di Samantha McAlister, Peter Moffat e Geoff Bussetil e di interpreti formidabili, capaci di rendere elementi narrativi e comunicativi i silenzi, le esitazioni, gli sguardi e i più piccoli movimenti del corpo. Il risultato è una sorta di incidente stradale al rallentatore della famiglia reale, ancora più sconcertante perché avvenuto nella più totale trasparenza giornalistica e senza rilevanti scorrettezze da parte della BBC.

    Scoop: l’essenza della notizia

    Scoop si inserisce nella scia di opere come Tutti gli uomini del presidente, Quinto potere, Frost/Nixon e Il caso Spotlight, ricordandoci il ruolo del giornalismo come da cane da guardia del potere e l’essenza della notizia, cioè tutto ciò che per qualcuno non deve essere raccontato. Lo fa con un racconto compatto e inappuntabile dal punto di vista tecnico, che per una volta non ha bisogno di atti coraggiosi o di artifici retorici, ma si limita a mostrare con lucidità e chiarezza la mediocrità di certi uomini di potere, talmente sicuri di se stessi da non accorgersi neanche dei loro atti più autodistruttivi.

    Scoop è disponibile dal 5 aprile su Netflix.

    Overall
    8/10

    Valutazione

    La storica intervista al principe Andrea rivive in un film Netflix dalla scrittura intelligente e dal formidabile comparto attoriale, in un inno al buon giornalismo e alla comunicazione efficace.

    Pubblicità

    In evidenza

    Zamora: recensione del film di Neri Marcorè

    Pubblicato

    il

    Zamora

    Ci sono storie legate a un passato lontano e irripetibile, collocate in una dimensione spaziale e culturale ben precisa, ma nonostante questo capaci di parlare al cuore dello spettatore, con leggerezza e garbo. È questo il caso di Zamora, prima regia cinematografica di Neri Marcorè basata sull’omonimo romanzo di Roberto Perrone, compianto giornalista e scrittore scomparso nel 2023. Un’opera in bilico fra la provincia lombarda e una Milano in pieno boom economica, affine sia al cinema di Pupi Avati (non a caso regista di Neri Marcorè ne Il cuore altrove e in altre occasioni), sia alle prime atmosfere fantozziane, esplicitamente richiamate dalla passione per le partitelle fra scapoli e ammogliati di un imprenditore tanto spaccone quanto invadente.

    Al centro della vicenda c’è Walter Vismara (un ottimo Alberto Paradossi), scrupoloso e timido contabile che perde il suo lavoro presso una piccola fabbrica di Vigevano, ritrovandosi però catapultato e raccomandato a Milano, nella grande azienda del Cavalier Tosetto (Giovanni Storti). Ospite della sorella Elvira (Anna Ferraioli Ravel, vista recentemente in Un altro Ferragosto), Walter cerca di ambientarsi nella nuova dimensione, stringendo un rapporto sempre più profondo con la collega Ada (Marta Gastini) e finendo suo malgrado coinvolto nelle partitelle settimanali fra i dipendenti. Del tutto ignorante in ambito calcistico, Walter dichiara di essere un portiere, finendo così a collezionare papere e gol subiti. Ribattezzato sarcasticamente “Zamora” (come il leggendario portiere spagnolo), il protagonista si mette in contatto con l’ex portiere caduto in disgrazia Giorgio Cavazzoni (Neri Marcorè), con l’intento di risollevare le sue prestazioni sportive e conquistare Ada.

    Zamora: il calcio come metafora della vita nel debutto alla regia di Neri Marcorè

    Zamora

    Dopo i recenti Chi segna vince e The Beautiful Game, di nuovo il calcio come metafora della vita e occasione di riscatto. Walter Vismara ha tutto per raggiungere il successo e la felicità: cordialità ed eleganza innate, rigore e talento nel suo lavoro e una cultura sconfinata, che lo rende un potenziale concorrente dei principali quiz televisivi. Nonostante questo, il protagonista è frenato dalla sognante ingenuità figlia del provincia, da un malcelato senso di superiorità morale sui suoi illetterati colleghi e soprattutto dall’orgoglio, che lo porta a chiudersi a riccio davanti alle difficoltà e agli eventi non previsti dal suo approccio analitico. Il ruolo del portiere, propenso al rischio e foriero di critiche, diventa così per lui una sorta di terapia d’urto con cui imparare a lasciarsi andare e a reagire alle piccole e grandi delusioni della vita.

    Neri Marcorè si concentra su questo tema, facendone il baricentro narrativo di Zamora e ritagliandosi il ruolo di uno sportivo disilluso e sconfitto, costretto a improvvisarsi mentore tanto nel calcio quanto nella vita. Come accade spesso nel cinema sportivo, la distanza fra i due si assottiglia sempre di più, portando benefici a entrambi e incentivandoli a superare i rispettivi limiti. Lo scenario abitato dai due è però altrettanto importante. Il regista tratteggia infatti una Milano in trasformazione, non ancora alienante ma già attraversata da una malsana spinta verso la competizione e la produttività.

    Un ritratto a tratti anche nostalgico, che omaggia la gloriosa tradizione della comicità milanese attraverso i richiami ai tempi del Derby Club (la presenza di Antonio Catania, ma anche le musiche di Pacifico ispirate a Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e Cochi e Renato) e alla successiva generazione, rappresentata dallo stesso Giovanni Storti, Giacomo Poretti, Walter Leonardi e Ale e Franz.

    Un nuovo notevole debutto alla regia

    In un periodo segnato dal debutto alla regia di grandi interpreti del cinema italiano (Paola Cortellesi, Micaela Ramazzotti, Margherita Buy e Michele Riondino sono solo alcuni esempi), Neri Marcorè si distingue per lucidità e perizia, destreggiandosi con sicurezza anche nelle svariate sequenze ambientate sui di campi da calcio, da sempre terreno scivoloso anche per i registi più navigati. Da attore poliedrico e consumato, il regista sa inoltre trarre il meglio dai propri interpreti, capaci di donare brillantezza e leggerezza al racconto e di dare vita a personaggi veri e tridimensionali. Un quadro all’interno del quale emergono le donne (le dominanti e già citate Anna Ferraioli Ravel e Marta Gastini, ma anche Pia Lanciotti e Giulia Gonella), che appaiono sempre un passo avanti agli uomini, nonché simbolo di emancipazione e svecchiamento delle tradizioni.

    Neri Marcorè gioca sul sicuro, cercando sempre l’umanità del racconto e dei protagonisti e limitando l’asprezza al bullismo dei colleghi di Walter. Una scelta sintetizzata proprio dal personaggio del Cavalier Tosetto, potenzialmente spregevole e respingente, ma che anche grazie alla simpatia innata di Giovanni Storti dà vita alle scene più divertenti di Zamora. Nonostante il film funzioni a più livelli, resta quindi anche un pizzico di rammarico, in quanto un pizzico di coraggio in più avrebbe consentito di sfruttare maggiormente la dimensione fantozziana del racconto e in particolare il clima tossico respirato da Walter nella sua nuova azienda, che emerge solo a tratti e solamente attraverso personaggi marginali.

    Zamora: l’importanza di lasciarsi alle spalle le proprie sconfitte

    Zamora

    Come da tradizione del cinema sportivo, a fare da crocevia per i destini dei protagonisti è una partita, disputata in un anonimo campo di periferia in un giorno di festa, ma con una tensione pari a quella di una finale di Champions League. Un’occasione per dimostrare il proprio agonismo e anche per gettare il cuore oltre l’ostacolo, verso un finale che non è solo chiusura di un cerchio, ma soprattutto spinta a lasciarsi alle spalle le cadute e ad andare avanti, senza desiderio di vendetta e con rinnovata consapevolezza.

    Zamora è disponibile dal 4 aprile nelle sale italiane, distribuito da 01 Distribution.

    Overall
    7/10

    Valutazione

    Neri Marcorè debutta alla regia con un film gradevole e leggero, i cui personaggi avrebbero però potuto beneficiare di un pizzico di cattiveria in più.

    Continua a leggere

    In evidenza

    Mothers’ Instinct: trailer e poster del film con Jessica Chastain e Anne Hathaway

    Pubblicato

    il

    Mothers' Instinct

    Il 9 maggio arriverà nelle sale italiane Mothers’ Instinct, film di Benoit Delhomme basato su Doppio sospetto di Olivier Masset-Depasse. Un intenso thriller psicologico dalle atmosfere hitchcockiane, interpretato dalle attrici vincitrici dell’Oscar Jessica Chastain (Gli occhi di Tammy Faye, Zero Dark Thirty, The Help) e Anne Hathaway (Il diavolo veste Prada, Les Misérables), che tornano a recitare nello stesso film dopo la loro prova in Interstellar di Christopher Nolan. Un’opera da cui lo spettatore sarà affascinato, per i costumi dai toni pastello e per le ambientazioni tipiche del sogno americano dei primi anni ’60. Un doloroso scontro tra due caratteri ugualmente forti, in una sottile indagine dell’identità femminile e dei lati più oscuri dell’amore materno.

    Fanno parte del cast anche Anders Danielsen Lie, Josh Charles, Eamon O’Connell, Baylen D. Bielitz e Caroline Lagerfelt. Il film è prodotto da Jessica Chastain, Anne Hathaway, Jacques-Henri Bronckart, Kelly Carmichael e Paul Nelson. La sceneggiatura è di Sarah Conradt-Kroehler, mentre i produttori esecutivi sono John Zois, Jolian Blevins, Olivier Masset-Depasse e Sébastien Raybaud. Diamo subito un’occhiata a quello che ci aspetta attraverso il primo trailer ufficiale.

    Mothers’ Instinct: il trailer ufficiale italiano

    Questa la sinossi ufficiale del film:

    Ambientato nei primi anni ’60, le migliori amiche e vicine Alice (Jessica Chastain) e Celine (Anne Hathaway) vivono entrambe una vita idilliaca con prati ben curati, mariti di successo e figli della stessa età. Questa perfetta armonia va improvvisamente in frantumi dopo un incidente: il figlio di Celine muore tragicamente mentre Alice stava guardando i ragazzi. Senso di colpa, sospetto e paranoia si uniscono in una cosa sola e daranno il via a una battaglia psicologica che rivelerà il lato più oscuro dell’istinto materno.

    In conclusione, ecco il poster ufficiale italiano di Mothers’ Instinct, che arriverà nelle sale italiane il 9 maggio, distribuito da Vertice 360.

    Mothers' Instinct
    Continua a leggere

    In evidenza

    Monkey Man: recensione del film di Dev Patel

    Pubblicato

    il

    Monkey Man

    Era inevitabile che il cinema d’azione indiano, portato recentemente al successo planetario da RRR, incontrasse prima o poi quello statunitense, rinvigorito dalla serie di John Wick e da progetti come Atomica bionda e Io sono nessuno. Una commistione che arriva grazie a Dev Patel, attore britannico di origini indiane portato al successo da The Millionaire, che firma la sua prima regia con Monkey Man, distribuito in sala grazie all’interessamento di Jordan Peele dopo l’abbandono del progetto da parte di Netflix. Un esordio ambizioso, in cui Dev Patel mette la sua statura divistica a disposizione di un racconto che fonde elementi della cultura indiana con la compattezza tipica del cinema hollywoodiano.

    Al centro di Monkey Man c’è una vendetta, che l’ex galeotto Kid (Dev Patel) deve consumare ai danni delle persone responsabili della morte di sua madre Neela. Con pazienza e astuzia, il protagonista elabora un piano che lo vede impegnato in combattimenti truccati, durante i quali, vestito con una maschera di scimmia, accetta di farsi massacrare. Grazie ai contatti e alle informazioni acquisite durante questa attività, Kid si fa strada nell’ambiente delle persone di cui vuole vendicarsi, entrando in contatto anche con la comunità Hijra, gruppo religioso formato da persone transgender da cui impara ad accettare tutti i risvolti della sua personalità.

    Monkey Man: la risposta a John Wick di Dev Patel

    Monkey Man

    Con il coraggio tipico degli esordi, Dev Patel non si limita a fare di Monkey Man la sua personale declinazione del cinema d’azione, ma infarcisce il racconto di molteplici temi e delle più disparate suggestioni, con il rischio di sovraccaricarlo. Ai margini della tipica dinamica da revenge movie, trovano infatti spazio riflessioni sulla corruzione della polizia e della politica, sul controllo delle masse e sull’emarginazione, nonché slanci verso la cultura indiana (in particolare nei confronti della figura di Hanuman), strizzate d’occhio alla comunità LGBTQIA+ e contaminazioni con il puro cinema di arti marziali, con tanto di scene di allenamento. Non mancano gli spunti di interesse, ma il tutto fatica non poco a stare insieme.

    L’intento da parte del regista di riconnettersi con le sue radici è chiaro e lodevole, ma il worldbuilding di Monkey Man è decisamente stereotipato, nonché foriero di personaggi secondari al limite del macchiettistico. Un contesto che non è necessariamente un problema per un film incentrato soprattutto sugli scontri fisici, ma che diventa invece limitante per un’opera che soprattutto nell’ultimo atto sembra invece volersi spingere in territori ben più profondi, fra tensioni sociali, cospirazioni e rigurgiti sovranisti.

    Monkey Man lascia qualche perplessità anche dal punto di vista registico. Dev Patel guarda chiaramente tanto all’azione grafica e quasi fumettistica del già citato John Wick (peraltro esplicitamente citato in un dialogo) quanto all’atletismo e alla violenza efferata della serie di The Raid, ma non riesce a raggiungere i livelli delle sue fonti di ispirazione. Questo a causa di una regia poco ispirata e inesperta, incapace di trasmettere la complessità e la durezza degli svariati scontri fisici e costretta a un montaggio convulso nel tentativo di colmare le lacune della messa in scena.

    Un’opera prima imperfetta

    Un’opera prima da buttare? Assolutamente no. Nonostante i tanti difetti di Monkey Man, Dev Patel ha il merito di centrare un protagonista in delicato equilibrio fra pericolosità e fragilità, perfettamente in linea con la rinnovata sensibilità contemporanea. Rispetto al dominante e letale Baba Yaga incarnato da Keanu Reeves, siamo di fronte a un eroe molto più debole e insicuro, più volte in difficoltà. Il protagonista perfetto per una storia di rivincita e riscatto che parte dai bassifondi, per poi risalire verso le più alte sfere in bilico fra violenza e spiritualità.

    Paradossalmente, a risultare più incisiva è proprio la componente più umana ed emotiva del racconto, a cavallo fra mondi e culture diverse. Una qualità che il Dev Patel regista potrà sicuramente ancora sfruttare nel prossimo futuro, magari allontanandosi dal cinema di azione, che al momento non sembra nelle sue corde.

    Monkey Man è disponibile dal 4 aprile nelle sale italiane, distribuito da Universal Pictures.

    Overall
    5.5/10

    Valutazione

    Al suo esordio dietro alla macchina da presa, Dev Patel firma un’opera prima ambiziosa ma imperfetta, che si inserisce nel solco tracciato da John Wick senza un’adeguata perizia registica, trovando il proprio baricentro emotivo solo nell’equilibrio fra violenza e fragilità del protagonista.

    Continua a leggere
    Pubblicità

      Copyright © 2024 Lost in Cinema.