La minaccia universale del male - la Repubblica

Editoriali

La minaccia universale del male

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Come se si muovesse fuori dal tempo, ignorando la realpolitik occidentale del calendario gregoriano e il consenso dispotico dell’era putiniana giunta al suo venticinquesimo anno, la Jihad islamista è uscita dall’ombra in cui ci illudevamo di averla confinata per portare il terrore e la morte nel cuore della Russia, in una notte giovane di musica e di festa. Mancava solo il terrorismo: adesso tutti gli spettri del caos sono allineati nello scenario dell’ultima guerra in Europa, ultima in ordine di tempo ma anche in ordine di distruzione, visto che è ormai saltato l’interdetto universale che per decenni ci aveva impedito di traslocare gli arsenali nucleari dalla deterrenza al possibile utilizzo tattico della loro potenza. Non ci sono più filtri, istituzioni di garanzia, strumenti condivisi e accettati di regolazione dei conflitti. Siamo esposti di fronte al male, senza averne più una nozione comune, morale, politica o culturale: ognuno giudica per sé, misurando le sue paure e le sue reazioni, senza più la possibilità di una difesa comune. Solo il male nella sua minaccia resta universale.

Putin due anni fa aveva dato inizio a questo ridisegno del mondo, scegliendo il ruolo di invasore per restituire alla Russia la cornice imperiale di sudditanza perduta con il dissolvimento dell’Unione Sovietica. Oggi l’assalto con le mitragliatrici alla periferia di Mosca dimostra che l’ aggressore può anche essere aggredito e ha dei punti di vulnerabilità, soprattutto quando tutta l’energia politica, militare, sociale del Paese è concentrata sul fronte ucraino e la gerarchia della sicurezza nazionale diventa scalabile dall’interno con il terrorismo. La storia del putinismo fatto regime dimostra che il presidente sa sfruttare politicamente gli attentati scatenando ogni volta un durissimo contrattacco di repressione, capace di rispondere a quel bisogno-dovere di protezione che in Russia lega da sempre il suddito al sovrano, come certifica l’inno imperiale: “O Dio, proteggi lo Zar/ forte e maestoso/ che regna per la nostra gloria/ sul nemico atterrito”. Vedremo molto presto come Putin imposterà la sceneggiatura di reazione. Per ora si intravvede un tentativo di cercare responsabilità almeno logistiche, di copertura, in Ucraina, col rischio di sottovalutare l’evidenza della rivendicazione jihadista. In realtà i 133 morti di Mosca pesano politicamente al punto da squilibrare il quadro internazionale che aveva disegnato il leader del Cremlino.

Nella sua ambizione di scardinare il sistema mondiale che aveva sigillato il Novecento, sostituendolo con un nuovo ordine geopolitico, Putin era mosso da un’esigenza quasi messianica: rifiutare la sentenza del secolo in base alla quale la Russia aveva perso la guerra fredda (come dimostrava l’ammainabandiera dell’Urss sulla cupola del Cremlino e lo scioglimento dell’impero nei Paesi satelliti) negandone di conseguenza gli effetti sulle mappe europee. Solo così, partendo da questa ribellione alla storia, il Cremlino poteva mantenere vivo e intatto il deposito spirituale di una missione universale per la Russia, alfiere e testimone di un’altra modernità contraria alla globalizzazione, alla società aperta e ai principi liberali, in difesa della tradizione, della vera fede e della conservazione dei valori, in un mondo multipolare. Il prezzo da pagare per Putin era quello di uscire dal concerto naturale dei leader delle grandi potenze, rinunciando ad un rango ridimensionato ma riconosciuto e accettato universalmente, che garantiva comunque un ruolo di primo piano al presidente della Russia. Putin ha scommesso sulla convenienza di un appello a tutti i nemici dell’Occidente, agli avversari della democrazia, alle ambiguità delle democrature e alle tentazioni dei leader neo-autoritari, offrendo a tutti un manifesto e una bandiera: l’anti-democrazia, nella convinzione che il liberalismo sia ormai nella parabola finale di discesa e stia per sfociare nel nichilismo, esito inevitabile dell’Occidente. Qui Putin ha incontrato la frustrazione del suo popolo, a cui l’Occidente dopo la caduta dell’Urss ha negato la dimensione imperiale, credendo che fosse estinta con la fine del sovietismo: e questo spiega in parte il consenso popolare del leader.

La concezione di sé come impero, infatti, nella Russia non era un sottoprodotto del leninismo: quando la famiglia Romanov è stata massacrata a Ekaterinburg dai bolscevichi, quella dinastia regnava sulle Russie da 300 anni. Putin non insegue il comunismo smarrito, ma l’impero perduto. Per recuperarlo nel mondo nuovo disegnato dai vincitori della guerra fredda deve riscrivere la storia, e manipolare la geografia. Prova a spostare i punti cardinali del nuovo secolo: si separa dall’Ovest abbandonandolo alla deriva nell’Atlantico, e denunciando l’Europa vassalla degli Usa. Ingigantisce il concetto di Est inventando la creatura geo-strategica dell’Eurasia, un continente da unificare, il cui centro è la Russia nuovamente egemone dello spazio ex sovietico, e soprattutto pronta a trasformarlo in soggetto politico. Con questa operazione, Putin cancella Pietro il Grande che fondando San Pietroburgo aprì alla Russia una finestra sull’Europa e sposta l’Est più a Oriente nell’alleanza con la Cina: facendo di Mosca nuovamente la capitale di un impero bifronte, e principalmente il ponte indispensabile tra Est e Ovest. Resta il Sud, cui Putin ha già dato una dignità politica complessiva unificandolo nella figura del “Sud globale”, invitato dal Cremlino a entrare nelle fratture aperte nel vecchio ordine del mondo per scalarne le gerarchie, con Mosca come lord protettore.

Soltanto che il mondo non si lascia disegnare a piacere, e un attentato jihadista rivela le linee di fuga del progetto imperiale di “rivoluzione conservatrice”, come la chiama il filosofo Aleksandr Dughin. La trasversalità orizzontale della minaccia terroristica attacca insieme le democrazie e il neo-autoritarismo Granderusso, l’Est e l’Ovest, mentre la sfida del Cremlino all’Occidente rende oggi impossibile una coalizione organizzata contro l’Isis, lasciando Putin solo a fare i conti domestici con l’ incoerenza del dialogo ravvicinato con Hamas e con l’Iran, come se il terrorismo concedesse eccezioni. E i conti in casa sono complicati dalla presenza in Russia di venti milioni di musulmani cui Mosca propone un patto di inclusione patriottica rifacendosi a Caterina II, ma riconoscendo il pericolo della predicazione costante e dell’ infiltrazione clandestina dei testimoni di un islamismo radicale combattivo, di ceppo indigeno ibridato dall’Isis.

Cosa dobbiamo aspettarci? Nel caos ci si può orientare solo a patto di mantenere viva la scintilla di una civiltà comune: altrimenti ognuno è vittima di un suo nemico, non riconosciuto dagli altri come tale. Forse è tardi, e quella scintilla è perduta. Ma se è così, Putin proprio oggi sentirà l’eco delle parole di Khomeini a Gorbaciov, nel gennaio 1989: “È chiaro come il cristallo che l’Islam erediterà le Russie”.

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