Quello che non so di lei, il giallo di Roman Polanski di cui non vi sveliamo il finale

Quello che non so di lei, il giallo di Roman Polanski di cui non vi sveliamo il finale

Anche perché non c'è.

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Siamo in Scozia. Due uomini salgono su un treno. Uno dice: cosa c’è in quel pacco lì sopra, sulla cappelliera? L’altro risponde: un McGuffin! Allora il primo incalza: E che cos’è un McGuffin? Be' – continua il secondo – è un macchinario per catturare i leoni nelle Highlands scozzesi. Ma non ci sono leoni nelle Highlands, obietta l’uomo. L’altro replica: bene, allora non è un McGuffin.

Alfred Hitchcock racconta questa storiella a François Truffaut in un’intervista del 1966 per spiegargli il suo primo McGuffin cinematografico, la busta con i 40.000 dollari in Psycho. Altri esempi famosi: la valigetta in Pulp Fiction, la scatola blu di Mulholland Drive, la fantomatica C-14 di Camera Cafè venduta dagli acerrimi rivali della Digitex.

courtesy Cecchi Gori

Il McGuffin, dunque, indica un espediente narrativo che non ha nessuno scopo o significato per lo spettatore se non quello di fare avanzare la storia; e il nuovo film di Roman Polanski Quello che non so di lei, interpretato da Emmanuelle Seigner ed Eva Green, funziona proprio a inscatolamento progressivo di McGuffin. Vediamo perché.

Alle prese con il blocco dello scrittore

Tratto dal best seller Da una storia vera di Delphine De Vigan edito in Italia da Mondadori (molto fedele al libro, tra l’altro) e sceneggiato da Olivier Assayas e Polanski stesso, Quello che non so di lei racconta la storia di Delphine (Emmanuelle Seigner), una scrittrice di successo che ha appena venduto vagonate di copie del suo ultimo romanzo: la storia autobiografica della sua famiglia, molto pesante, molto cruda, con molta strumentalizzazione del dolore della madre.

Tutto il mondo aspetta trepidante il suo nuovo libro ma, come tutti gli scrittori di successo che si rispettino, Delphine cade in preda a un brutto caso di blocco creativo, con un sacco di inquadrature della pagina bianca del file Word e sul cursore che lampeggia laconico in alto a sinistra.

Durante un “estenuante” firmacopie – metto estenuante tra virgolette perché la povera autrice si stanca dopo nemmeno mezz’oretta, mentre uno come Zerocalcare fa le sette di mattina alle Feltrinelli con i disegnetti –, Delphine incontra Leila (Eva Green), una giovane e misteriosa donna dall’altrettanto misterioso soprannome “Lei”. Nella versione originale francese, il suo soprannome sarebbe Elle, che significa appunto Lei, e il gioco di parole è salvo anche nella traduzione.

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Leila riesce a entrare, con una naturalezza che molti hanno chiamato “buco di sceneggiatura”, nella vita della scrittrice, diventando di fatto la sua unica amica e confidente, prima invitandola a una festa di compleanno a cui tutti gli altri partecipanti hanno dato buca, poi andando direttamente a vivere nel suo appartamento, facendole un po’ anche da consigliera, segretaria e social media manager. Il loro rapporto diventa morboso e ambiguo fin da subito, e pare che entrambe stiano facendo una specie di doppio gioco.

Delphine, pur iniziando a essere impaurita dall’amica, decide di darle corda per usare la sua incredibile storia personale come ispirazione per il prossimo romanzo, mentre Lei diventa sempre più violenta e instabile, soprattutto da quando le due donne decidono di passare qualche giorno nell’isolata casa in campagna di Delphine, luogo di trasformazione simbolica se ce n’è uno (Misery insegna), che dirotta quella che fino a quel momento poteva essere considerata una dark comedy verso un thriller psicologico molto cupo e ansiogeno. Visto che svelare il finale di un thriller è un peccato mortale, per adesso accontentiamoci di questo.

Perché succede quello che succede? Ce lo chiediamo in continuazione, e ci rispondiamo anche

Il film è molto Polanski old school, con due grandi tematiche che ritornano spesso nella produzione del regista polacco. La prima è quella del libro che racconta la storia di un altro libro, presente ne La Nona Porta (con Johnny Depp ed Emmanuelle Seigner) e ne L’uomo nell’ombra con Ewan McGregor, dunque il concetto dell’inscatolamento, della metariflessione narrativa. La seconda è legata alle situazioni insolite e inquietanti che nascono dal rapporto più o meno malato e morboso tra esseri umani. In questo caso ricordiamo almeno il bellissimo e pesantissimo Repulsione del 1965, con Catherine Deneuve che, completamente allucinata, ammazza un po’ di persone, tra cui il povero Colin che voleva solo amarla. E poi il recente Venere in pelliccia, dove Vanda (interpretata sempre da Seigner, che è la moglie di Polanski) soggioga il povero regista ai suoi voleri per poi scomparire nel nulla.

Ma dicevamo dell’inscatolamento progressivo di McGuffin. Quello che non so di lei è un film che funziona per palese disposizione di indizi lungo la narrazione. Seguendo l’evoluzione dello strano rapporto tra le due protagoniste, lo spettatore si trova continuamente a domandarsi i motivi di ciò che accade, cercando indizi un po’ dappertutto. E la cosa interessante è che li trova, esposti in bella vista. E questa catena di indizi, ben lungi da essere lineare e univoca, lo sballotta lungo tutta la narrazione, portandolo a fare supposizioni che, al momento, sembrano sensatissime ma che poi, all’indizio successivo, si sciolgono come il cuore e la psiche di Delphine. Avanti così, a braccetto con il passare dei minuti, la nostra natura eminentemente narrativa ci porta a costruirci in testa possibili spiegazioni e finali, fino ad arrivare a quello definitivo.

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Solo che, come appunto dicevamo prima, tutti questi indizi non sono altro che McGuffin: oggetti, aspetti e situazioni che non significano nulla di per sé, se non nella loro capacità di portare avanti la narrazione. È come se la storia di questo film, e del libro da cui proviene, si strutturasse attraverso l’articolazione di indizi che, alla fine, indizi non sono, ma piuttosto modalità narrative che permettono al film stesso di srotolarsi. A pensarci, effettivamente, è anche un po’ come sgranare un rosario: tu vai avanti, palletta dopo palletta, sperando che ogni preghiera ti porti sempre un po’ più vicino alla salvezza dell’anima, sperando che ogni palletta significhi qualcosa, per poi ritrovarti alla fine della ghirlanda che sei ancora triste e povero, e ben lontano dal regno dei cieli. Tutte quelle preghiere, tutti quei pallini da sgranare, non sono serviti ad altro che a farti arrivare in fondo, a portare avanti la narrazione della tua fede.

Quello che so di lei non è un film che finisce male, e non è nemmeno un film che finisce bene. Il fatto è che Quello che so di lei, semplicemente, a un certo punto finisce e forse, a pensarci, il vero McGuffin sono gli spettatori, la cui unica funzione è quella di farsi abbindolare da ogni finto suggerimento e rassegnarsi ad accogliere la fine, qualunque essa sia.

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