‘In Germania la democrazia è in pericolo’ - Limes
numero del mese

Fine della guerra

Conflitti infiniti perché senza scopo
sono la malattia dell'Occidente
Solo il ritorno alla politica ci salverà
numero del mese

Fine della guerra

Conflitti infiniti perché senza scopo
sono la malattia dell'Occidente
Solo il ritorno alla politica ci salverà
numero del mese

Fine della guerra

Conflitti infiniti perché senza scopo
sono la malattia dell'Occidente
Solo il ritorno alla politica ci salverà

GEDI Digital S.r.l. - Via Ernesto Lugaro 15, 10126 Torino - Partita IVA 06979891006

‘In Germania la democrazia è in pericolo’

Conversazione con Herfried Münkler, professore emerito di Teoria della politica all’Università Humboldt di Berlino.
a cura di Fernando D’Aniello
Pubblicato il
Pubblicato in: Fine della guerra - n°4 - 2024
Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

LIMESProfessore, la guerra russa all’Ucraina significa forse l’inizio di una nuova fase in Europa, quella che lei ha definito nel suo ultimo libro «accelerazione della trasformazione della politica mondiale»? 1

MÜNKLER La guerra russa all’Ucraina non ha necessariamente a che fare con quello che nel libro chiamo la formazione del sistema delle cinque grandi potenze: Stati Uniti, Cina, Russia, Unione Europea e India. Credo che molto più importante sia stata la rinuncia degli Stati Uniti al ruolo di custodi dell’ordine, avviata il 15 agosto 2021 con il ritiro dall’Afghanistan. Gli americani hanno abbandonato la loro responsabilità globale, sebbene continuino a perseguire una politica delle sfere di influenza regionali nei Caraibi, in America centrale e in diversi altri spazi d’interesse.

Ora la Russia tenta di spostare i confini in Ucraina per espandere il proprio potere: in gioco per i russi è soprattutto il controllo del Mar d’Azov e del Mar Nero. Questo è un ulteriore aspetto della politica delle zone di influenza, che in questo caso interessa l’Unione Europea ancora più della Nato. I russi hanno avuto l’impressione che l’Ucraina fosse diventata una minaccia perché dimostrava di poter avere uno Stato di diritto – per quanto in divenire – e persino un’amministrazione in grado di resistere alla corruzione in una società civile viva. Putin ha avuto paura che qualcosa di simile a Jevromajdan potesse ripetersi sulla Piazza Rossa. Per lui si tratta di un’idea traumatica perché, come agente dei servizi segreti, era a Dresda prima della caduta del Muro e sa perfettamente quale problema costante abbia rappresentato per la DDR confrontarsi con la Repubblica Federale Germania, paese libero, ricco e prospero. Un problema che non poteva essere risolto. Proprio quel ricordo deve averlo spinto a pensare: «In nessun caso posso permettermi un’Ucraina simile al mio fianco».

Dal punto di vista geopolitico e geostrategico il Mar d’Azov e il Mar Nero sono per Putin molto importanti anche per impedire che finiscano sotto la Nato, visto che oltre all’Ucraina anche la Georgia nel 2008 ha fatto domanda di adesione all’Alleanza Atlantica – richiesta respinta. È quindi uno scontro su come debbano essere determinate le zone d’influenza, come possano svilupparsi, che ruolo debba giocare la forza militare. Il punto è se Putin alla fine lascerà il campo con costi e perdite considerevoli ma senza alcun guadagno, cosa che al momento non sembra plausibile. Questo è certamente un problema e una sfida per gli europei e non solo per i tedeschi, perché a Bruxelles – vale a dire sia all’Unione Europea sia alla Nato – si dovrà tener presente che se Putin potrà spostare i confini con la forza delle armi, allora troverà emuli in tutto il mondo. Soprattutto in Europa. Ad esempio, i turchi potrebbero essere i prossimi imitatori. Erdoğan già da tempo coltiva una politica neo-ottomana e ha messo gli occhi sul Nord della Siria e dell’Iraq. In Serbia, Aleksandar Vučić è un problema, visto che non riconosce i confini con il Kosovo e vorrebbe staccare la Republika Srpska dalla Bosnia Erzegovina. Lo stesso vale per Orbán. Il leader ungherese sta scommettendo sulla dissoluzione dell’Unione Europea e della Nato perché pensa di trarne vantaggio. Per Budapest il trattato del Trianon (1920) resta un trauma, mentre gli altri europei considerano i trattati di pace successivi alla prima guerra mondiale come storia. Per i tedeschi Versailles ha un posto solo nella memoria degli storici. Gli austriaci non parlano più del trattato di Saint-Germain. Per gli ungheresi il Trianon resta invece un problema da risolvere.

Ecco perché penso che un successo dei russi in Ucraina possa avere conseguenze profonde, scatenando possibili emuli, senza considerare i milioni di profughi ucraini che arriveranno in Europa, specie in Germania e nella parte centrale del continente. Intendo un ordine di grandezza tra i cinque e i dieci milioni di migranti. È lampante: questo spazio sarà drammaticamente destabilizzato. Abbiamo a che fare con un conflitto che accompagna il processo di formazione di un nuovo ordine mondiale, sebbene sia difficile dire in che direzione esso proceda.

<span class=gwt-InlineHTML kpm3-ContentLabel>Carta di Laura Canali - 2024</span>
 

LIMESCrede che l’Ucraina debba riprendere tutti i territori occupati dai russi?

MÜNKLER Il ripristino dello status quo precedente il 2014 – la costellazione vigente prima della creazione delle regioni separatiste e dell’annessione della Crimea – è necessario perché sia chiaro che i confini non si possono spostare militarmente. Le potenze garanti del memorandum di Budapest del 1994 – Stati Uniti e Regno Unito – non hanno fatto nulla quando nel 2014 i russi hanno considerato quel memorandum carta straccia. Germania e Francia, che si sono sostituite alle prime due, hanno promosso con gli accordi di Minsk una politica di appeasement che si potrebbe riassumere così: «Voi russi fate in modo che le guerre per Luhans’k e Donec’k siano congelate e noi non tematizziamo la questione della Crimea». Questo appeasement non ha funzionato. Politici come Rolf Mützenich (capogruppo della SPD al Bundestag, n.d.r.) propongono di concludere il conflitto congelandolo. La loro tesi: «Accettiamo in principio le attuali linee del fronte e su questa base realizziamo un cessate-il-fuoco». La conseguenza di questo congelamento equivarrebbe a realizzare il piano russo almeno fino a Odessa, vale a dire tagliare fuori l’Ucraina dal Mar d’Azov e dal Mar Nero. La geografia mostra come l’accesso a Odessa può essere bloccato in qualunque momento dalla Crimea. Eppoi i russi e i loro emuli potrebbero dire: «Allora si può fare! Basta insistere e si ottiene, anche con la forza, tutto quello che si vuole».

Gli europei hanno sempre usato la formula: la Russia non può vincere e l’Ucraina non può perdere. Carl Schmitt direbbe che siamo di fronte a una «formula di compromesso», qualcosa che permette di non decidere né fissare degli obiettivi, aspettando di capire che piega prenderanno gli eventi. Questo è il vero problema. Al momento non sembra che l’Ucraina possa conseguire una vittoria militare. Ma accettare lo status quo sarebbe una sconfitta molto dura per l’Occidente, innanzitutto per l’Ucraina stessa. Non è possibile accettare questo stato di fatto. Eppoi non credo che Putin accetterà di trattare prima delle elezioni presidenziali americane, perché pensa che se Trump vincerà le carte saranno rimescolate in suo favore.

LIMESLei ha utilizzato il termine appeasement. Il suo giudizio sulla politica dei governi tedeschi degli ultimi anni è chiaro: Berlino è stata troppo accomodante con Putin. Ma come dobbiamo relazionarci in futuro con la Russia?

MÜNKLER La politica di accomodamento con la Russia ha avuto in Germania un consenso molto forte ed è stata condivisa in fin dei conti anche dai due grandi partiti, SPD e CDU-CSU. È qualcosa che ha che fare con il trauma del 1941-45. E con l’idea che i rapporti economici evitano le guerre, legano entrambe le parti a vantaggi reciproci, fanno in modo che nessuno voglia cambiare la situazione con la forza delle armi. Credo sia stata una valutazione errata perché basata sul presupposto che Putin fosse un attore razionale, che pensasse ai rapporti economici con gli europei, al fatto che l’Europa tramite l’acquisto di risorse energetiche e materie prime finanziasse in buona parte il bilancio russo e che, in definitiva, tutto ciò fosse un motivo sufficiente per evitare qualsiasi atto che mettesse in pericolo le relazioni commerciali.

Putin ha invece aggredito l’Ucraina con l’idea di creare un fatto compiuto. E se l’offensiva militare si fosse completata in due settimane, come lui pensava, non ci sarebbero stati aiuti militari americani o europei tali da rovesciare la sua vittoria. È stata l’eroica resistenza delle Forze armate e della società ucraine che ha creato i presupposti perché l’Occidente tornasse in gioco e potesse cambiare la situazione. Insomma, è stato un fondamentale errore credere che si potessero fermare i russi con mezzi economici. I tedeschi hanno creduto di essere particolarmente intelligenti avendo imparato da quello che chiamo il modello Spencer, l’idea britannica che il commercio possa sostituirsi alle guerre e che proprio il commercio e l’economia possano diventare le leve della politica internazionale.

Mi sono concentrato soprattutto sul mio paese, la Germania, ma gli altri europei non erano di opinione diversa. Anche loro hanno in buona parte ridotto e trasformato le loro forze militari per adattarle a missioni internazionali destinate a mettere fine a guerre civili, trascurando la difesa territoriale, imperniata su unità corazzate, fanteria e così via. Con il senno di poi si può dire che è stata un’ingenuità, fondata in buona fede sull’idea che Putin volesse la pace.

Carta di Laura Canali - 2022
Carta di Laura Canali - 2022 

LIMESCome pensa che da questo caos possa nascere un direttorio a cinque capace di affermare un nuovo ordine mondiale?

MÜNKLER L’ordine mondiale ha bisogno di qualcuno che si occupi di mantenerlo e che sanzioni coloro che ne violano le regole. I tedeschi hanno creduto che potesse essere l’Onu. Pura ingenuità, perché le Nazioni Unite non sono in grado di imporsi. Più che altro, offrono uno spazio per definire compromessi, solo raramente sono state capaci di proporsi quali garanti di un ordine. Il segretario generale Dag Hammarskjöld, morto in Congo (nel 1961, in circostanze mai chiarite che fanno pensare a un assassinio, n.d.r.), è stato il solo che abbia promosso un ruolo attivo e forte delle Nazioni Unite. Ma erano gli anni Sessanta ed esse agivano come organi di negoziazione. Al loro posto sono subentrati gli Stati Uniti. E qui conviene chiedersi: hanno fatto bene? Bisogna rispondere di no.

Gli Usa hanno agito raramente come custodi dell’ordine, più frequentemente come signori. Problema classico anche della teoria economica: «Quando il custode assicura common goods, qual è il suo interesse nel continuare a investire se tutti ne approfittano?». Qual è il suo profitto? Questa domanda si è fatta più pressante proprio quando il ruolo di custode stava diventando troppo costoso. Già Clinton e Obama avevano compreso che alla lunga sarebbe diventato troppo oneroso mettere a disposizione questi beni comuni a livello globale. Infine, con Obama e la svolta verso il Pacifico si è materializzata un’altra idea: noi siamo custodi dove arrivano i nostri interessi, non più globalmente. Qui c’è un problema fondamentale: dove troviamo uno che investe nei common goods se poi arrivano tutti gli altri per godere opportunisticamente di quei beni? Da questo dilemma gli Stati Uniti sono usciti con Trump. In modo esplosivo.

Da allora la questione è la seguente: se si vuole un ordine, questo non procederà più da un momento unipolare. Non sarà nemmeno bipolare, come prima del 1989, perché oggi ci sono più attori in gioco. Ecco perché procedo, più che nel senso indicato da Kant – il quale sviluppava princìpi generali che alla fine erano finzioni giuridiche – in quello di Hegel. In particolare seguendo quanto scritto nella prefazione alla Filosofia del diritto: «Ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale». Questo vuol dire cercare non quello che dovrebbe essere ma quello che è. E di qui continuare a cercare ciò che rebus sic stantibus è presumibilmente più razionale, praticabile e positivo. Dunque, se si dividono i compiti del custode unico tra cinque custodi, ognuno dei quali ha i propri ambiti e le proprie zone di influenza, costi e profitti si avvicinano più di quanto accada in un sistema globale. Ma chi è nella condizione di sostenere qualcosa del genere? Ecco come sono arrivato a indicare questi cinque – sebbene lo spirito della pentarchia sia anche che uno dei cinque possa sempre uscirne e quindi venga sostituito da qualcun altro. Nella mia idea di pentarchia non c’è il Brasile né uno Stato africano e nemmeno uno islamico: questi compongono quella che Parag Khanna chiama la seconda fila, insomma le riserve.

Ovviamente ho anche riflettuto sull’equilibrio del sistema. Ecco perché ho preso i democratici, Stati Uniti ed Europa, ma anche gli autoritari, ovvero Russia e Cina. L’India – che è la più antica democrazia del mondo, ma oggi il nazionalismo indù del presidente Modi permette di dubitarne – è atterrata sulla Luna e da poco è il paese più abitato della Terra. In effetti si tratta al momento del rappresentante più rilevante del «Sud Globale» e in quanto tale dovrebbe trovare spazio tra i cinque. I cinesi amano ripetere di essere i rappresentanti del Sud ma nel frattempo, secondo le statistiche economiche e sociali, sono approdati al ricco Nord. Insomma il mio tentativo è di pensare un ordine che non sia ideale ma abbia determinate qualità e si fondi sul riconoscimento reciproco fra i cinque membri del direttorio mondiale, traendone così profitto.

Anche i russi ottengono un certo riconoscimento: non gli viene più detto «siete solo una potenza regionale» come fece Obama o, come spesso si sente dire in Germania, «una pompa di benzina con arsenali atomici». Ma con la Russia restano ancora diversi attriti. E non solo con gli europei ma anche con la stessa Cina in Asia centrale, considerata sia dall’Unione Sovietica sia dall’impero zarista quale propria zona d’influenza.

L’idea è che se i cinque si riconoscono reciprocamente nel ruolo di custodi dei propri spazi non vorranno ricorrere a brutali guerre di conquista. Non è detto che funzioni, potrebbe anche naufragare. Ma credo che nelle circostanze attuali sia il miglior ordine possibile.

LIMESNell’Unione Europea, parte della pentarchia, quale sarebbe il ruolo della Germania?

MÜNKLER La politica tedesca deve diventare più chiara perché al momento si limita a osservare e aspettare, dando un contributo significativo affinché l’Ucraina non crolli, ma continuando a titubare. Se esiste una limitata strategia tedesca, penso sia innanzitutto quella di tenere insieme l’Ue. Se si guarda la situazione, notiamo che in termini di prodotto nazionale lordo i paesi dell’Europa centro-orientale, dalla Repubblica Ceca alla Polonia fino agli Stati baltici, inviano all’Ucraina una quantità relativamente elevata di aiuti, così come i paesi scandinavi, soprattutto la Norvegia. I paesi occidentali e meridionali, cioè Francia, Spagna e Italia, sono più cauti perché per loro la minaccia non arriva principalmente da est ma dalla costa mediterranea e quindi contano quante barche sono in partenza dalla sponda opposta.

La divisione dell’Europa su quanto investire nella resistenza ucraina deve essere ricucita. Serve qualcuno nel mezzo che funga da bilancia. I tedeschi non investono tanto quanto i norvegesi o i polacchi, ma sono relativamente vicini all’Ucraina – e questa è l’unica cosa su cui i politici di Berlino, almeno CDU, SPD e Verdi, possono essere abbastanza d’accordo: tenere unita la Nato e l’Ue cercando sempre l’equilibrio. Per quanto riguarda i rapporti a lungo termine con Russia e Ucraina, non credo che ci sia una linea chiara. Non nella coalizione-semaforo, dove FDP e Verdi sono i più critici rispetto alla ripresa dell’appeasement voluta da una parte dei socialdemocratici. La Germania conduce questa discussione con sé stessa in nome dell’Europa intera. Ci sono paesi che hanno un confine diretto con la Bielorussia e vedono molte cose in modo diverso. C’è chi è più lontano e può tirarsi indietro. A eccezione di Macron, che si è inventato la storia delle truppe di terra non perché voglia davvero mandarle ma per affermare la leadership francese in Europa. E vuole farlo senza portare gli aiuti materiali all’Ucraina al livello tedesco – non ha tanti miliardi a disposizione.

LIMESChe cosa resta dell’asse Parigi-Berlino?

MÜNKLER Temo la vittoria di Marine Le Pen alle prossime elezioni presidenziali francesi. Tuttavia, quando dovrà fare sul serio, la signora Le Pen sarà probabilmente più scaltra e più riservata di quanto dimostri in campagna elettorale, perché mettere in discussione l’Unione Europea rovinerebbe fra l’altro l’economia agricola francese, che è la maggiore beneficiaria dell’Ue. Ma allo stesso tempo questo è anche il motivo per cui i francesi tengono il piede sul freno quando si tratta di avvicinamento dell’Ucraina all’Europa. Perché secondo le regole dei fondi agricoli Kiev diventerebbe il principale destinatario degli aiuti europei. E questo naturalmente spiega perché a Berlino non sono particolarmente audaci: non vogliono mettere a repentaglio gli stretti rapporti con la Francia, che rappresentano la ragion di Stato tedesca. È però chiaro che il collasso militare dell’Ucraina sarebbe una catastrofe. Questo spiega perché alcuni tedeschi dicono che bisogna assolutamente mettersi d’accordo con i francesi, altri invece sostengono: «Non importa come i francesi vogliano costruire un carro armato o un caccia comune. Questo è il momento di sviluppare la nostra industria della difesa». In effetti, possiamo farlo, però mettendo in pericolo la cooperazione con la Francia. L’asse franco-tedesco sarebbe a rischio.

Qui emerge il vero problema dell’Europa: abbiamo una capacità molto limitata di agire verso l’esterno, perché all’interno giocano interessi molto diversi e contraddittori. Situazione in qualche modo gestibile quando si tratta della questione dell’austerità o della politica migratoria, perché sono problemi europei. Ora, invece, parliamo di agire verso l’esterno. In questo caso non esiste una via di mezzo. Quella che in precedenza avrebbe potuto essere presentata come un’intelligente politica di compromesso dal centro, appare ora come una forma di indecisione, esitazione, fallimento. C’è una frase attribuita a un poeta della guerra dei Trent’anni: «Nel pericolo e nell’emergenza, la via di mezzo conduce alla morte» (Friedrich von Logau, n.d.r,). Questo non è stato il pensiero tedesco degli ultimi sessant’anni: la via di mezzo era allora la soluzione di tutti i problemi. Ma ci sono costellazioni – e di solito includono guerre – nelle quali la via di mezzo conduce verso l’abisso.

Carta di Laura Canali - 2023
Carta di Laura Canali - 2023 

LIMESL’Europa può diventare una potenza militare?

MÜNKLER Sì, quantomeno in termini di risorse. Se si prendono insieme i bilanci della difesa europei, ammontano a molte volte quanto spendono e possono spendere i russi. Anche la somma del potenziale produttivo degli europei è molto superiore a quello russo. E questo vale anche per il numero di abitanti. Non è questione di capacità materiale, ma di volontà. Quali costi siamo disposti a tollerare per raggiungere l’obiettivo?

So da diverse conversazioni con politici tedeschi che sono molto titubanti riguardo alla prospettiva di assumere la leadership militare in Europa. Osservano che il compromesso europeo si basa sul fatto che a noi tedeschi è consentita la potenza economica, talvolta convertibile in potenza politica, ma non la potenza militare. E se molti ora si chiedono perché i tedeschi non hanno aumentato la produzione di munizioni e armi in tempi relativamente brevi (i presupposti tecnici ci sono sempre stati), risponderanno: «Al momento sono in molti a dirci “fate pure”, e tuttavia in uno scenario in cui questi 84 o 85 milioni di persone con un pil molto più alto rispetto agli altri grandi Stati europei fossero anche i principali produttori di armi in Europa, allora direbbero che la questione tedesca è tornata». Naturalmente si può anche sostenere che è sempre stata qui, non è mai scomparsa davvero, ma la politica del governo tedesco è costantemente stata quella di dire: «Facciamo silenzio, non parliamone».

LIMESQuesto vale anche per le armi nucleari?

MÜNKLER Sono favorevole ad armi nucleari europee. Occorre però risolvere la questione di un credibile alto comando. Non è un problema irrisolvibile, ma richiede fiducia tra gli europei. Anche qui il mio suggerimento è di ragionare in cinque: Triangolo di Weimar, cioè Francia, Germania, Polonia, e due paesi dell’Europa meridionale, che probabilmente sarebbero Italia e Spagna. Tra questi paesi potrebbe circolare il «pulsante rosso» dell’alto comando, magari ogni mese o due. Immaginiamo: prima è un polacco ad avere il pulsante per due mesi, poi magari toccherebbe a un italiano o a uno spagnolo e a un certo punto anche a un tedesco. Ciò implica una tale rinuncia alla sovranità da suscitare l’obiezione per cui quei paesi non si metteranno mai d’accordo. Soprattutto i francesi non saranno disponibili perché sono gli unici a disporre nell’Ue di armi nucleari. Macron dice: «Sì, le nostre armi potrebbero essere uno scudo protettivo per tutta Europa», ma Le Pen lo interrompe subito: «No, servono solo a proteggere la Francia». Ecco perché la deterrenza nucleare europea non deve essere soggetta all’autorità nazionale, altrimenti non è credibile. E quanto alle repubbliche baltiche o ai polacchi, direbbero: «Non ci fidiamo di loro, ci hanno deluso più volte o hanno avuto parte in terribili piani di spartizione». Deve essere una questione europea e funzionare di conseguenza.

LIMES Che cosa resta del modello tedesco dopo la rinuncia al gas russo, la crisi con la Cina, la rivalità con gli Stati Uniti?

MÜNKLER Qualche tempo fa ho riletto quello che lo storico economico francese Alain Minc scrisse venti o trenta anni fa sulla scia della globalizzazione: o si cerca di difendere e conservare lo Stato sociale nella sua forma attuale, come è stato sviluppato durante la guerra fredda, ciò che porterà al baratro economico perché è troppo costoso; o si può fare del mercato il sovrano assoluto, inasprendo però le differenze sociali perché renderà i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Oppure – terza strada – si riduce lo Stato sociale e lo si considera uno strumento che, sotto gli imperativi del bene comune e dell’equità (nel senso di giusto e proporzionato, in latino aequitas), sostiene tutti coloro che vivono un’esistenza precaria. Credo che a lungo termine questo potrebbe essere un percorso particolare europeo, abolendo lo Stato sociale per tutti. Ad esempio, uno come me, che in quanto assunto dalla città Stato di Berlino non stava poi tanto male e non avrebbe mai avuto bisogno degli assegni familiari, li ha sempre ottenuti perché era ed è una forma di coinvolgimento della classe media e alta nell’accettazione dello Stato sociale. Ma in questo modo non sarà possibile finanziarlo a lungo termine, soprattutto perché dovremo aumentare le spese per la difesa e riportare in Germania alcune linee di produzione delocalizzate in India, Cina o altrove per rafforzare la nostra resilienza economica in tempi di collasso delle catene commerciali globali. Tutto ciò avrà costi molto alti.

Avremmo quindi un modello tedesco modificato, snellito sotto molti aspetti, più vicino all’idea di assistenza sociale e di reinserimento nei processi lavorativi e nella società. Una ripetizione di ciò che sono state nell’èra Schröder-Fischer le riforme Hartz nel campo del lavoro e dello Stato sociale. L’attuale coalizione di governo non sarà in grado di farlo perché i socialdemocratici credono che avranno una possibilità alle prossime elezioni solo mantenendo i benefici per tutti. Per certi aspetti anche i Verdi la pensano così, la FDP la vede diversamente.

LIMESNel suo libro lei sostiene che l’idea di Mitteleuropa non è più all’ordine del giorno, malgrado la tendenza di una parte della classe dirigente a coltivarla. Perché?

MÜNKLER Non so se si possa parlare di un’autentica preferenza delle élite per l’Est. Tuttavia, bisogna tener presente che c’è anche una sorta di riequilibrio, perché nella società tedesca è diffusa un’inclinazione verso il Sud, in termini di vacanze, stile di vita e così via. Anzi in linea di principio soprattutto a noi vecchi tedeschi occidentali l’Est non dice poi molto. Può darsi che sia una condizione destinata a cambiare nel corso degli anni e con le nuove generazioni, nel senso di un equilibrio europeo dal centro: Francia, Spagna e Italia sono di significativa importanza per i cittadini tedeschi; da un punto di vista geostrategico lo sono però anche lo stazionamento di carri armati in Lituania, un rapporto sensato con la Polonia. Dobbiamo andare all’Est ed esservi presenti.

Prendiamo il caso degli istituti Goethe che si spostano verso l’Europa centro-orientale. Ho parlato con il capo dipartimento responsabile della politica culturale del ministero degli Esteri, che mi ha detto: «Noi in realtà non abbiamo una strategia, reagiamo a quello che accade». A giocare certamente un ruolo è il fatto che l’interesse di imparare il tedesco – l’offerta di corsi di lingua rientra tra i compiti del Goethe-Institut – è molto maggiore lì che in Francia. A Bordeaux, ad esempio, negli ultimi cinque anni non ci sono stati corsi di tedesco. Dietro questa scelta non c’è chissà quale grande idea, solo una questione di domanda e offerta.

<span class=gwt-InlineHTML kpm3-ContentLabel><span class=gwt-InlineHTML kpm3-ContentLabel>Carta di Laura Canali - 2020</span></span>
 

LIMESPerché allora considera superata l’idea di Mitteleuropa?

MÜNKLER Intendo il Centro (Mitte) come forza espansiva, l’idea che noi tedeschi possiamo prendere qualcosa al Nord e al Sud, qualcosa all’Est e all’Ovest: una visione che ai tedeschi non ha portato così bene in epoca guglielmina, tantomeno sotto la dittatura nazista. Ai tedeschi piace molto la formula «siamo circondati da amici», attribuita a Kohl o a chiunque altro. si tratta di intendere la Mitte come fulcro dell’integrazione, e questo non è sempre facile. Bisognerebbe ragionare in senso strategico. Ma nella politica tedesca il pensiero strategico quasi non esiste. Le ultime menti davvero strategiche sono morte qualche tempo fa, ad esempio Egon Bahr (collaboratore di Willy Brandt e tra i teorici della Ostpolitik, scomparso nel 2015, n.d.r.). La politica in una democrazia parlamentare è un meccanismo di reclutamento di persone che pensano al massimo per i prossimi quattro anni, cioè fino alle prossime elezioni, e se le elezioni hanno appena avuto luogo, il periodo di tempo entro il quale pensano diventa di giorno in giorno più breve. In passato i partiti avevano la possibilità di riservare alcuni posti sicuri a personalità lungimiranti. Non lo fanno più per via delle quote: bisogna tener conto di tutti i possibili gruppi, nel senso di rappresentare la diversità sociale e non la disponibilità di risorse intellettuali. Questo è il problema. Ecco perché nel lungo termine non si può affatto essere sicuri che le democrazie vinceranno la competizione contro i regimi autoritari.

LIMESIn Germania stanno crescendo forze nazionaliste di destra. Alternative für Deutschland (AfD) conta su percentuali elevate non solo all’Est. Inoltre, c’è un nuovo partito, nazionalista di sinistra, fondato da Sahra Wagenknecht. La vecchia Repubblica Federale funzionava come democrazia protetta che escludeva gli estremismi. E oggi?

MÜNKLER La democrazia è in pericolo. In Germania lo sviluppo di partiti populisti, di destra e di sinistra, è avvenuto più tardi rispetto ad altri paesi europei – penso alla Scandinavia, all’Olanda e alla Francia. Si potrebbe quasi dire che gli italiani siano stati i primi a confrontarsi con il crollo del classico sistema dei partiti, alla fine dell’èra Craxi, e hanno avuto davvero un ruolo guida in Europa per quando riguarda l’emergere in politica di magnati dei media e altri miliardari. Dall’Italia è certamente possibile tracciare linee che arrivano sino a Trump ma anche ad alcune figure dell’Europa orientale. Questi raggruppamenti populisti si spacciano per autentici difensori della democrazia ma mettono in discussione lo Stato di diritto liberaldemocratico. Sono sotto attacco le libertà individuali, la partecipazione democratica e l’ordinamento giuridico, elementi centrali del modello di democrazia europeo e americano.

E a questo punto vorrei tornare sulla questione internazionale o sul problema geo­politico: il partito di Sahra Wagenknecht come pure l’AfD giocano con l’idea della dissoluzione dell’Occidente. Qui si connettono a una lunga tradizione della storia tedesca, alla Prussia che ebbe sempre un buon rapporto con la Russia, a Rapallo e ad altri momenti simili. Se quelle forze dovessero ottenere la maggioranza, sarebbe sicuramente la fine dell’Occidente così come lo abbiamo conosciuto e verosimilmente anche un grande passo verso lo scioglimento dell’Unione Europea e della Nato. Non è dunque solo un problema di qualità delle nostre democrazie, ma anche di politica delle alleanze e di ordine geopolitico.

LIMESÈ favorevole al divieto dell’AfD?

MÜNKLER Sono molto cauto nel sostenerlo. In uno Stato di diritto come la Germania potrebbe durare sei-sette anni, durante i quali il partito continuerà a inscenarsi come vittima. Un effetto politicamente tutt’altro che desiderabile. L’elefante deve restare nella stanza. Attraverso il costante dibattito democratico molti cittadini saranno incentivati a non votare AfD. Deve essere chiaro che ogni voto per l’AfD è politicamente perso, perché non avrà alcun ruolo nella definizione della compagine governativa.

Dunque, la possibilità di un procedimento dinanzi al Tribunale costituzionale di Karlsruhe è una componente della questione. Ma è proprio di una tradizione molto tedesca credere di potere risolvere un problema squisitamente politico con mezzi giuridici. Una componente, quindi, non di più.

Carta di Laura Canali - 2024
Carta di Laura Canali - 2024 

Note:

1. H. Münkler, Welt in Aufruhr. Die Ordnung der Mächte im 21. Jahrhundert, Berlin 2023, Rowohlt.