Alcuni versi di Pietro Ingrao

Da «L’alta febbre del fare» del 1994 (*)

PIETRO INGRAO-apicella

FRATELLANZE

Fluttuando in alto alla luna, perduti

i codici,

ultimo su colline

di morti, m’abbracciavo

a frantumo di ramo

 

dolcemente scoprivo

fianchi, i seni, il morbido

cavo del ventre, non potrei dire

le palme e se c’era

un fiato, succhiando, ma il sonno, l’ombra,

la smisurata luce,

ostinato indagando scrutavo

le pesanti nodose palpebre

se di fronte a me

s’aprissero.

LA NOTTE

Il grande silenzio

delle rondini radenti

simili a bocche sigillate, allora che a piedi scalzi

invade il fianco l’oscuro, denudarsi,

splendere i muri

nell’opale.

Questi strani sposalizi di un istante.

PADRI E FIGLI

Bianco schiumare di vento

alle mie frontiere, come sei comando

e invocazione violenta.

Mi curvo al rombo dell’ira amorosa:

urla al frutto del suo ventre, strappa

vele al cielo, coltri

delle montagne.

Reclina

il capo furente. Grida.

IMPOSSIBILI

Sorpresi nell’aprirsi

della fame e della luce, infinito

d’uccelli schiudono labbri, ridono

sgomenti, cedono ali al nulla.

ANNUNCI

E scorgere che al tuo scomparire nulla

dell’onda sara’ sospeso, o infranto;

le mute stanze che solo attendono:

chi piu’ non ti scruta,

non esige piu’ nulla

gia’ t’ha abbandonato

TRANSITI (I)

Settembre sono questi cieli

il loro destino incerto

il fulgore morente

come s’aprono piano

le scogliere della luce

s’inumidiscono lembi

a dischiudere segni, come mai prima

s’incupiscono monti

lievi al nostro stupire.

DISORDINE, ORDINE

II crudo zampillo nella cruna

del lampo. Trovammo

fucili nella spianata, enormi

vessilli spenti…

Non potrai cancellare

il lacero sentiero

dove si scioglie la bruna

cantilena dell’autunno: strano, lungo

rossore che non fugge.

FUGGENTE OSPITE

Stringerla in pugno come,

l’ombra del crepuscolo.

O deporla senza polvere nella calma del computer. Forse

inghiottirla, deglutire lentamente

aspirando l’afrore, dove accecata dalla luce

sbanda e s’oscura,

le macchie mortali del transito

serrate nel midollo,

fuggente ospite

all’oscillare del nostro passo.

NESSUN DIO

E s’arravugliano semi,

s’alzano nel velo

di frantumi stellari,

grevi soffi nel brucare sottile di mondi:

cosi’ forme si distillano

nell’arso,

nessun dio le sa

stringere in pugno.

PER “TELLA”

II vento

e’ calmo al tramonto: puo’ prenderti in braccio,

sottile; i ceri, le carte, i trasporti sono soltanto

la rozza mano che sgombera

il tavolo. Il soffio irrequieto

delle tue scalinate

e’ l’incredibile

gremito stellare, la volta a vela. Ieri,

oggi?

Ritorni a questo lume.

SOLO

Solo contemplare l’onda:

senza invocare transito

o cibo: ospitarla

nella mente, senza frutto,

senza tentare alcuna costa,

ne’ alcuna schiuma

frangere. Non piu’ strumento:

leggere il mare.

TRANSITI (II)

Sembra un autunno

un inganno

un lume sedotto

curvo a stringere

il dubbio celato nell’ora,

abbandonato a lisciare l’inclinazione sospesa dove il capo splende nell’istante,

come una scala d’alberi

in declino,

un congedo che sosta.

INCONTRI

Non e’ chiaro le meduse che loro lingua,

lacrime, cupidigia,

non si vede quando ridono.

Il re e la regina. Fuggo all’invocarmi,

e conoscermi; o fuggono

me che fuggo, o scrutare

io il rigo che cinge, il silenzio

del loro fine,

la spenta corolla

l’iride che affonda

CALEMBOUR

E tutto – il suo tutto e’ consumato,

e si consuma, ancora

non essendo in midollo consumato: patendo

il consumarsi e sentirsi consumato,

l’oltre inesorabile, istante

del transito in nulla.

La morte severa come sembra staccarsi:

fuggire dalla terra: nascondersi per essere morte.

CRINIERA

S’abbracciano quiete

argentee solitudini, dove venti viola

cavalcano per stringere

la fuggente criniera dei defunti. Inseguendosi

volavano le braccia levate degli scomparsi,

la gola tesa

nel desiderio dell’impossibile canto: ne’ mai vocabolario

potra’ metterli in riga.

LAVORI

Come e’ penoso mangiare in cielo, e caldo i fianchi

inginocchiati sul computer

sporgersi alle vallate dei pensieri:

come roco stringere in pugno un raggio.

DOMANI, IERI

E nessuno t’inseguira’. Qualche lieve

bagliore. Tornano gli stormi

di ieri, incanutiti dalle nevi,

dall’ovest incrociano febbrili

il tuo cercare. Si vedono rare bandiere

calme. Altri scendono

negli scafi:

solo il chiamare lontano,

la madre, l’eterno

appello allo scendere della sera.

Poi si dira’ il nostro tempo. Da lontano

si smontera’ (alla fine) docilmente:

le obbligazioni di fili avvinti,

i burroni, gli aerei

cavalcavia, le ascisse. Si diranno

le tavole imbandite, il concime deserto.

E la successione nutrirsi del nostro fango

OZI (I)

Non andrei in viaggio. I meli

quest’anno son grevi; il profumo si sparge

nella vallata come coltri di uccelli

distese. Oscilla

il pensiero. E nel buio apparire

i lunghi desideri.

RITMI

Cadono le luci del vento.

Cadono i reami.

Cadono i veli della mente

le mutilazioni inferte

cadono le macchie

i serrami delle prigioni

le cinture delle piazze.

Cadono i domani le selve dei desideri.

In frantumi

cadono le paludi di grattacieli

le pupille insonni.

LETTERA D’AMORE

Sei un riccio

una betulla

una fame d’erba

un rotolo nel controverso, una goccia

i tuoi stemmi mordicchiati

dallo sporgere nel debole

non giuri vittoria, non urli, ti lasci

cadere cercando;

quando abbracci digrigni i sottili denti.

Sotto il tuo pallore

nell’oscillare tra due olmi,

l’ansia che scavalca l’ordine,

l’abbandonarsi in mare.

CHIAMATA

C’e’ un rombo un’armata

un sordo rullo di tamburo

che avanza all’alba dal fondo

delle metropoli;

senza trombe ne’ squilli

dilaga il lungo

scalpiccio; lente, pesanti,

al suo scuro clamore

in alto si schiudono

le palpebre grevi delle serrande:

fugge il notturno sospirando,

s’alza l’alta febbre

del fare.

EDUCAZIONE SENTIMENTALE

II tintinnio delle catene

questo suono quieto:

ci accompagna

docile per mano,

e s’adatta ubbidiente

al nostro passo. Come muoversi,

un molle crepuscolo, nel passeggio serale.

DUELLI

Immaginate

un fulmine, ma quieto.

E incrini lento: curva prolungata

lacerazione: su l’immota cerchia di torri

avvinghiata alla citta’.

Immaginate si chiuda il fulmine.

Eterna cicatrice.

Esseri neri a passeggio sulle mura.

Degli alberi sul selciato

cancellata l’ombra.

OPERAIO

La stanza, il nitore, la penombra

della cifra: e solo leggere il quadrante:

come un prato.

E’ tempo; e tutto e’ necessario.

Sono i calmi

meriggi della merce’. Tu

fletti naturalmente

nella misurata foresta della macchina.

EPPURE

Per gli incolori

che non hanno canto

neppure il grido,

per chi solo transita

senza nemmeno raccontare il suo respiro,

per i dispersi nelle tane, nei meandri

dove non c’e’ segno, ne’ nido,

per gli oscurati dal sole altrui,

per la polvere

di cui non si puo’ dire la storia,

per i non nati mai

perche’ non furono riconosciuti,

per le parole perdute nell’ansia

per gli inni che nessuno canta

essendo solo desiderio spento,

per le grandi solitudini che si affollano

i sentieri persi

gli occhi chiusi

i reclusi nelle carceri d’ombra

per gli innominati,

i semplici deserti:

fiume senza bandiere senza sponde

eppure eterno fiume dell’esistere.

DOVE

Forse si rompeva la luce

forse eri stanca,

non ci parliamo da tanto,

chiuse

a noi le cattedrali dell’ordine;

solo rotte musiche

del sottosuolo, i rari

sussulti dell’aria,

dove adagio muovono i nostri passi.

CONFLITTI (I)

Fuggiva la luna inseguita

dal nero manto,

gridava alto da squarci

muta vela invocante

pupilla umana a liberarla.

UTILITA’ DELLE RANE

Apprendemmo cadenze

e saziata l’eterna fame,

ascesi al millesimo

piano, da cubi scrutare

rane nei rigagnoli arrampicarsi

a rozzi cieli

donde minacciare noi del millesimo,

allo scendere della cena,

da volubili lumi,

l’angelo quotidiano

cantarci l’inno del tepore di rane

allevate in rigagnoli:

civile cibo umano, senza tanto rumore.

ANAGRAFE

Chi conosce il seme coperto, i girasoli

sotto la luna, i pallidi. Le sbarre

che abbiamo chiuso. Lo zero.

CIBO

Mangiamo, succhiamo, a miliardi.

Canta la musica verde

delle bocche che maciullano; i curvi monti

degli ossi spolpati; l’ansare

di chi vorrebbe.

Ascoltate quieti

il tritore delle mascelle vuote, nel tintinnare

della moneta.

I pianeti

non possiamo berli. Li recinge e governa,

nella superiore bilancia,

l’ombra del foglio sottile

che vola da polo a polo

sulle bocche umane avvinghiate

alla crosta.

NON S’INNAMORA

Non si puo’ dire dove siamo stati. Timbri delle vie

s’accendevano

e morivano, tra ruderi

si scorgevano una mischia, dove l’arancio

assaliva

per irrompere nel grigio

lungamente disteso, grattacieli

sventrati eppure giganti

nell’invadere la mente, morti steli

di una passione.

Abbiamo costruito

l’oggetto che pensa e prevede:

non piange,

non ride, non s’addormenta. Genera.

Non s’innamora.

Cenerentola non ha incontrato questo principe.

I GOVERNATORI

Il carpentiere non li scorge: ne’ sta bene

che li incroci.

Il nome sta scritto, gli ordini

sono alti. Che file lunghe inermi

a radunare gli attestati! Solo alcuni lo fanno.

Si sa che lo fanno per noi;

ne’ s’addormentano: cingono

il caldo globo.

Noi ci fidiamo. Non diciamo

perche’. Non li abbiamo chiamati,

non si puo’ interrogarli. Ma siamo

nel giro, si sa come accadde:

i secoli dell’incendio,

la prima la seconda sterminazione,

e la grande regolazione del cibo, quando

due stemmi si deposero sul globo.

Restano macchie, e inni.

Non si dice ai bambini,

non e’ il caso. I governatori sono calmi.

TESTIMONIANZA

II dito sulla bocca

premendo, l’insanguinato

ucciso:

vedemmo, oh come vedemmo.

Sull’assassinato,

in sera di primavera, il dolce bisturi calmo.

DA DESERTI (I)

Scivolavano in brandelli, oggetti semoventi

iridati di pupille, abbracciati

da lenzuoli in fiamme, anelati dal vento:

crollando

si sgranavano barbagli d’identita’,

insanguinati grumi di linguaggi.

Da sommi cieli, olimpico il canto della macchina intelligente.

DA UN VERBALE

Non so possa dirsi

se un cadere

di rintocco stordito. O

un lontano fumo.

Non c’e’ macchia:

un sospirare rozzo, non ho preso la targa,

dove l’autobus aggirava l’angolo.

Non si vedeva il nome.

UNO SQUILLO A VOLTE

Gireremo nei dintorni, le mani

a scostare siepi. Non dovete

sorprendervi.

Nei lunghi seni della pianura tra folle

d’erba scorgono contadini aggirarsi, le falci

curve, affilate, asteroidi

crollate sul campo.

Levarle alto, lentamente

fletterle sugli steli

del lungo prato, fino al verde sangue

della rescissione. Gli steli

s’abbandonano franti,

le braccia mortalmente stanche.

Lontani contadini

scrutano da nidi di colli.

Dubbio

se riuscira’ a incontrarli, poiche’ il sole

precipita. Solo da gioghi

sembra udire una banda: uno squillo appena.

DA DESERTI (II)

Quelli che, quelli che non dicono, o

esistono scanditi

dal silenzio delle bombe: arruffate

giraffe in corsa.

Non si sa se respirano,

o dormivano, o si stringono

congiunti o ridevano

bevendo: ora solo fiato

di caccia umana.

ROSSO

Ci congiungiamo a morsi: come colmo d’ansia

e’ il canto spiegato dell’alleluja. C’inseguiamo

per vicoli strani: lo mormorano le vegliarde

elemosinanti ai bordi dei marciapiedi, le autostrade in fuga

sulla pellicola della terra,

le folle che assediano le stazioni…

Sulle fronti solo, vendicatore s’asciuga un rosso rivo.

OZI (II)

A ginocchi serrati, su cordigliere

di grattacieli, siede il silenzio ovale

a lisciarsi i capelli.

Avvinti alla peluria della terra, ognuno,

nella sospirata corsa, un istante

l’abbraccia senza saperlo.

CANTO DELL’EDUCAZIONE

Non si vide levarsi in volo le mosche.

Si mangiava regolarmente

in piedi, le narici in silenzio. E il grande sonno

ascendere dall’unghia, adattarsi il sesso, come

dall’uno all’altro polo

la ghirlanda delle autostrade.

Tale dolce zuppa di cane

sulla tiepida tovaglia.

C’e’ un organo nella chiesa.

Non saprete mai

che dolcezza spande

a incantate formiche, vocate

a perseguirsi nella rupe dell’altare.

E un passo d’ape: cosi’ calmo, lento, inesorabile.

AUTUNNI

Franto e’ l’angelo imperiale. Non tuona piu’

l’incrociatore all’alba, i palazzi come orpelli immobili. Salvo l’irrequieta domanda:

non so se hai visto le rosse torpedini;

uguali a brace nella deserta stanza, dove assorto

canta il suo desiderio il crepuscolo.

AGIRE, CONTEMPLARE

II brusio dell’umano

all’albore come diventa totale clamore

nell’assorta materia; il filo selvoso dove scatta

il brivido del congiungersi; o vagare

il dito sulla fronte, e se puo’ esserci tempo

di guardare il mare senza partire:

l’urlo senza vederlo, il suo

assedio ai monti inauditi,

disperso nelle cosce

di bruma,

umido canto universale,

la solitudine,

le rughe dell’alta sua fronte.

STRANIERI

Un’ora, dimessa la bilancia, solamente

dare: svendersi.

Dubitare della quota.

Erano ceruleo smalto

le magnolie, nel giardino

che scrutavo dalle strette

imposte serrate. Solo che l’altro

era inutile cerimonia.

Stranieri: all’orecchio lo mormorava

una sottile, ostinata indifferenza.

LA GRANDE PRATERIA

Cosi’ si traversa la grande prateria,

gli urli sono lontani, un’utile brezza

li decompone in vili scorati sussurri. Sulle schiume

lento s’innalza celeste

un depuratore. Desalina

le lacrime. Il treno,

non c’e’ tempo, fugge.

UN MOMENTO

E un istante svegliarsi sfiorando il capo

alla terra, lisciando

gli arricciati capelli, gli infiniti insetti

che amorosi la mordono.

(“Noi non piu’

ancora c’incontreremo: sii libera

mentre fuggi’ a me. Corri

nel tuo vortice”.)

Esile, sulla fronte sua

scrivere: riposa.

CONFLITTI (II)

Ci sono veli corsari; spezzati promontori che li attendono.

Scialuppe tremanti trascendono le scogliere. Ebbri di

sale, aggrovigliati di penombre, irsuti pesci sciolgono i

loro canti impossibili.

Spandete voi, maree, gli incrostati relitti; a

memoria di chi comanda il tempo e i sospiri.

ISTRUZIONI PER L’USO

Non si puo’ arrossire.

Non si deve piangere. Ne’ oscillare,

o cadere

in ginocchio. Ne’ allentarsi nell’ombra.

Non si deve star

male. Non sta bene soffrire.

Non ditelo alle guardie: sapete,

non e’ adatto sudare.

Non e’ il caso di morire.

Ne’ precipitare

nell’ozio d’invocare un barlume,

o dubitare

di essere gialli,

impallidire di dolore, sbagliare

nell’accoppiarsi.

Deponete le pene.

Educatele se sono

sfrenate, se urlano

dagli occhi di spavento.

Apprendete dall’astrale saliscendi

della borsa. Solo dove ogni video

e’ muto, e dormono i registratori,

le lance degli orologi, i semafori, i pulpiti,

allora soltanto asciugatevi la fronte.

DA UN BLOC-NOTES

E’ tardi, si’ c’e’ un deragliare dove fugge il camion

all’imbraco della galleria. E lampi. Gli esperti

controllano: c’e’ danaro. Si’,

i gomitoli della scarpata, chi e’ crollato nel sonno.

Ma la vita s’allunga,

le costruzioni gia’ s’innalzano, piu’

delle paludi dello smog, anche se

vi sono strane lacrime fuori pista.

Dilatate i sondaggi.

Passeggiate lungo il lago

allora che si e’ stanchi: evitate lo sbandare

in cielo, l’accosciarsi in aria,

dove, certo,

censire si potrebbe il disordine

dei pensieri, dosare

il fungo delle passioni:

se ci fosse tempo.

ARRIVI, PARTENZE

Ricordati, fanciulla. Ricordati

di sbarcare all’alba. I porti sono irti

di grandi uccelli acquattati, le pesanti ali

si allungano sui cavicchi, ombre

dissolte tra fumi. Non temere

i brusii che discendono

dai fanali. Attenta ai gridi. Non potremo,

non ci sara’ nessuna macchina. Le stanze

sono occupate dagli imbianchini.

Scartavetrano

i muri, s’allungano con le braccia, il disordine

frantuma i nostri sonni. I vicini

cosi’ esigenti. Alcuni li vediamo tra i vetri

che si abbracciano. Ricorderai come alte, rosse

sono le stanze. Tutte a tramontana.

Il morire della luna

l’eccessivo grido, non c’e’ ordine. Si stirano

i capelli.

Respira forte, spanditi nella nebbia.

E’ l’umore dei pensieri, le rivelazioni

dell’avvento; anche se chiedono passaporti,

li rivoltano (sai frugando come allungano

mani pesanti).

Non potremo esserci, le nostre albe sono avvinte.

Ci chiamano. Bisogna fare colazione.

Aprire le labbra.

Tu pero’

t’inoltri, l’alta gamba soda

sul tacco sottile. I netturbini sentono

e si voltano. Non possiamo venire.

Il sonno dorme ancora

pesante sulle palpebre nostre, uguale

a incerto stormo. Non avere

paura d’incedere nella tua alba.

LA BREVE POLVERE

Eppure, luce

ti spandi

scuoti la breve polvere

nostra, scavalchi

astri, nidi di galassie

dilaghi tra bui vortici

incontro ad altri soli.

VI RACCOMANDO

Non c’e’ tempo; fuggiamo

verso il metro’, verso la luna, verso le nevi

dei terminal, verso l’ossesso fuggire

alla morte, si’ ci attendono

a Liverpool, davvero vorremmo

scendere; ruzzolavamo sempre

nella brughiera purpurea, sempre,

l’umido, l’attendere,

l’orlatura la’ dove stanno

le luci degli indicatori: e’ vero, sappiamo

dei temporali, dall’autogrill si scoprono bellissimi tramonti

e i pensieri divampano lenti, come rauco sonno,

sai che dormiamo nelle macchine,

cantiamo nelle macchine, ci srotoliamo

come serpenti in infiniti tapis roulant, anche se

ora non c’e’ tempo, e gli orologi gentilmente

ci sorprendono ogni secondo, ci scoperchiano

acquattati, ci agguantano,

tuttavia,

vi raccomando, non appoggiatevi

tanto ai muri.

TRAVESTIRSI

Sono sospiri: appena. Ma si susseguono: valanghe

di desideri.

Cadono nella rete:

stranamente si travestono: seppure sapendo

che non v’e’ sentiero per sospiri.

Nel freddo nevoso della torre

li guardano fumando.

Sorridono. Alzano la mazza:

scilp! Sibilando

la fanno roteare.

Ma i dubbi sono mappe di reami

abbandonati alla libidine del cercare,

esantemi del viaggio.

Temete le paludi.

Non invocate la buona morte:

non sara’ data.

LIEVE SUDARE

Madre che desti luce

ne’ giammai conosciuta

ignota onnipotente

che stretto abbiamo in catene

e cieca noi disperdi fuggendo,

tu che generi ignara

e serri

inviolati linguaggi,

fragili fiati umani

come amari ti stringono:

respiri di inani, perduti

a dipanare un totale filo,

ansioso, lieve

sudare

di pianeta nel buio.

FUORI ORARIO

Allora che ad ali chiuse,

i caldi ignoti pensieri

reclinanti, alcun

grido, e nessun volgersi,

muta in cielo

dissoluzione di uccelli.

Forse leggerli dal tram

in corsa, sporgersi al cielo. Disdire

l’appuntamento. Scrutare

dove s’allunga la nebbia.

SOLO INVOCATI

Ecco i segni erti, le bandiere fuggenti

nei fangosi crocevia di binari dove

s’alza il canto della lingua:

araldi senza orifiamma, inascoltati

a noi il nostro nome,

solo invocati dalla loro legge.

Uscite quieti

lungo la strada, nel tenero preludio

serale. Non si sa dire

perche’ febbrili

si scatenano campane a stormo.

FUOCHI

I

La sera della sconfitta s’ode

una tromba lontana: pone allori

sulla fronte, lentamente

divarica le labbra nello squarcio.

Sottile un urlo

s’allunga nelle dune

dei visceri. Giuri. T’ammanti.

Alzi il ponte levatoio. Scruti

il sangue. Vivi

perche’ perdesti il tuo sangue. Ti perdi

perche’ non chiedi a te

se chi ti sconfisse e’ nemico

o fratello, e chi ti abbandono’

diserta o chiama.

II

Come s’incrina

la fronte della passione.

questi curiosi corvi senza lacrime.

Come le pianure s’assopiscono

nell’accendersi pallido. Tutti

lo sanno prima di scomparire,

fiumi della vita, stanchi

che bussano.

Non ci sono ritorni a casa. Ne’ vuoti senza silenzio.

OH, RAGIONE…

Le chiavi affidale

a un’ombra un’inclinazione

dell’aria: sepolta sentinella

che frusti dove

ti ubriachi

scendi nell’orda del desiderio;

e ti richiami

all’utile, attizzi

la tua fame, ti obblighi

al dio della misura…

GIUDIZIO UNIVERSALE

E anche in cielo,

nel silenzio senza tempo,

anche Tu

esistente inesistente,

i climi, i pallori,

i desideri nemmeno

nati, le dubbie

mutazioni, le non dubbie

la spada Tua di giustizia

affilata tagliera’, affinche’ in luogo stesso

che non e’ luogo

trionfi

l’ordine della comparazione, come l’oste

la bolletta, il medico la ciotola di sangue,

anche tu Padre

senza il dono del gratuito,

condannato alla giustizia.

PREGHIERA D’ASTRONAUTI

Che non si stanchi la luce

che non si divincoli

che non si stanchi di gemere il sole

non frani

non si laceri il velo

sottile

non si riposi l’ansia,

e il disordine dentro l’ordine

che non s’allontani.

CANZONE DI YOKOHAMA

Venite perche’ bussano. Irrompono dal

grande balcone spalancato. Si sentono

vociare, ridere, indefessi

gendarmi lucenti. S’accapigliano. E siamo circondati.

Imbandiscono

un desco sfavillante che fa orrore.

PACE

Pace ai frantumi agli impazziti;

ai muti muri

mai sorti;

agli uccelli insensati;

alle immobili foreste all’impossibile liberazione del sonno

ai templi dell’irriso desiderio.

DISTANZE

Eppure siamo lontani, dispersi,

non ci saldano

le folli corse nostre

nell’agire,

il sussurro del video, la sete

di comando, il desolato desiderio

di stringerci nella parola.

CRONACHE

Non sapevamo dov’era la sponda,

non trovammo i segni, ma torri, orme

talune sommerse, pensieri

testimoni lasciati dagli inermi, dove

solchi sembravano slargarsi

in vento di passione comunitaria:

sporgetevi sui volti, i libri

contestati, le deflagrazioni della sconfitta:

la’ trascorse, avvampo’

la nostra vita.

SCOMPARSE

C’e’ lento un sapore della morte,

sottile sporgersi all’ultimo lucore:

non c’e’ soffi, ne’ stridere

dell’uscio, non si vede

l’angelo: eppure

l’istante dove fu fissato

in volto, quello sguardo

quanto pagheremmo

durasse.

COME CORSA

Questa luce della parola,

suoni che s’abbracciano stretti

e spandersi nel segno

come corsa su lembo dove mare

non giunge eppure incombe.

EXIT

E un tratto mi perdo, mi sporgo:

da un ciglio stupefatto

i gridi, e duelli, le catene

del conflitto,

l’impallidire degli eventi

l’ondularsi inconoscibile della distanza.

Rari suoni ormai dal labbro, prima del silenzio.

MAI

Una neve cosi’ grande, e lene. Mai

vista spandersi

con tanta ricchezza d’ali,

senza voci, ne’ crolli,

cosi’ nuda.

Si puo’ mirare questo termine

del conflitto, l’inabissarsi

delle coscienze:

apprendere questo lungo canto immobile.

(*) Ripreso da www.pietroingrao.it. La vignetta è di Apicella.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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