Sono passati solo alcuni giorni dall’uscita italiana di Civil War e già in molti gridano al capolavoro. E come non essere d’accordo? L’ultima fatica di Alex Garland – abilissimo sceneggiatore e regista di tre perle meravigliose come Ex Machina, Annientamento e Men – è effettivamente un qualcosa di monumentale. Un film epocale. Una di quelle produzioni (la più costosa di A24) che sono già storia del cinema, ancor prima che il tempo faccia la sua parte. Civil War è un film che va oltre la previsione di un futuro distopico fatto di morte e conflitti, contraddizioni e distruzioni. Perché il mondo terribile che questo superbo lungometraggio racconta altro non è che la realtà dei nostri giorni, plasmata dai meandri più nascosti della brutalità umana.
Alex Garland è un autore accorto oltremodo, e così come per i suoi precedenti lavori ha saputo calarsi profondamente nel periodo storico in cui vive, mostrando non solo il volto malato degli Stati Uniti, ma anche quello di tutto l’Occidente. Un mondo pieno di squilibri, di instabilità e incertezze, nascosti da una finta maschera di pace e libertà. E lo ha fatto con un’operazione intrigantissima, coinvolgente e commercialmente azzeccata. Perché un film come Civil War deve poter anzitutto inviare segnali di allarme al pubblico, scuotendo un sentimento di coscienza collettiva. Come il grande cinema politico deve fare, quello che serve e servirà sempre come il pane. Quello di cui, oggi, abbiamo fortemente bisogno.
Apolitico ma politico
È in corso una guerra civile tra le forze secessioniste di Texas e California e il governo centrale. Washington è ormai sull’orlo della caduta, il presidente (al suo terzo mandato) è barricato nelle sedi istituzionali e la sua fine è imminente. Non possiamo sapere come e perché è nato questo conflitto. I giornalisti sono chiamati solamente a documentare gli eventi con uno sguardo neutro, per offrire una testimonianza che rimanga impressa nelle pagine dei libri di storia, in un Paese dove l’informazione libera è stata definitivamente depravata. Garland non ci dice nulla circa l’origine di questa guerra. Non ci imbocca di dati, fonti e didascalismi.
Perché siamo noi spettatori a dover riempire e completare il film con le nostre domande (“si registra e basta, affinché gli altri chiedano”), osservando gli incendi e il degrado di una Patria costruita sul mito del sogno diventato poi incubo. Civil War è grande classe cinematografica, che fa sua la lezione dei grandi maestri del cinema politico (come non si possono richiamare alla mente alcune immagini del capolavoro di Carpenter 1997: Fuga da New York), strutturato secondo i canoni dei generi cinematografici.
Il paradosso che rende Civil War assai stimolante è insito nel modo con cui Alex Garland sia riuscito a confezionare un’opera così brillantemente politica, e allo stesso tempo scevra da una qualsiasi presa di posizione estrema. Il regista britannico non sale sulle barricate, non scende nelle piazze. Non punta il dito contro destra o sinistra, riducendo tutto ad un conflitto ideologico tra repubblicani e democratici (anche perché sono alleati California e Texas, il primo democratico e il secondo da sempre repubblicanissimo). Motivo per cui il film sta facendo molto discutere in America ad una manciata di mesi dalle prossime elezioni, che vede rinnovarsi lo scontro tra Trump e Biden (poveri noi).
Reflusso autoritario?
Civil War fa paura, perché durante la visione qualcosa ci conduce a pensare che il vero nemico non sia tanto un presidente distopico vagamente associabile ad una figura che ha fomentato l’assedio a Capitol Hill nel gennaio 2021. Quanto più quella stessa democrazia che il paese a stelle e strisce ha cercato da sempre di esportare al di fuori dei suoi confini, finendo per generare ancora più scompigli e squilibri geopolitici. Il quadro del film è chiaro e raggelante: un’America fragile, divisa e demitizzata. Siamo alle porte di un nuovo reflusso autoritario?
Garland dipinge le disillusioni degli States con uno sguardo volutamente distaccato, esattamente come quello dei protagonisti che rischiano la vita solamente perché fanno il loro mestiere: informare. Ed è proprio la scelta di osservare il tutto con un’occhio giornalistico a rendere Civil War un’operazione vincente, come abbiamo sottolineato nella nostra recensione. Quanto è democratico un Paese che massacra l’informazione libera? Quanto è democratico un Paese in cui l’informazione è il cane da guardia del potere? E allo stesso tempo quanto sono democratici i Paesi “satelliti” degli Usa? Perché l’atto di sparare a chi indossa il giubbotto antiproiettile con la scritta “press” non è poi così intrinsecamente scollegato da quello di chi annulla la par condicio nelle trasmissioni televisive, e di chi censura monologhi antifascisti, pensando che il 25 aprile sia una festa divisiva.
La sfida del nostro presente
Siamo davanti ad un film epocale, urgente e perfettamente figlio del suo tempo. Civil War sta già creando un forte dibattito nel paese, facendo infuriare gli americani, repubblicani o democratici che siano. Questo deve fare il grande cinema politico. Quello capace di risvegliare gli animi e di smuovere le coscienze. Quello che racconta l’umanità di fronte al potere, inviando continuamente segnali d’allarme. Un film in grado di dissezionare le contraddizioni di un territorio dominato dal caos, inquadrando cinicamente la realtà e i fenomeni sociali che la modellano. Era da tempo che non si vedeva un film pregno di così tanta lucidità politica e contemporaneità audiovisiva, e soprattutto un prodotto così consapevole di una delle grandi sfide del nostro presente, di cui un’opera del genere deve saper reggere il peso: raccontare la verità, opponendosi a quella imposta dal potere.