Addio a Michael Collins, l'astronauta "dimenticato" della missione Apollo 11 - la Repubblica

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Addio a Michael Collins, l'astronauta "dimenticato" della missione Apollo 11

(afp)
Nel 1969 pilotò il modulo in orbita mentre Armstrong e Aldrin muovevano i primi passi sulla Luna. Morto a 90 anni per un cancro
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Il primo uomo che non andò sulla Luna. Ma anche l’uomo più solo nell’universo, lassù, sorvolando la faccia nascosta del satellite degli innamorati mentre Armstrong e Aldrin saltellavano tra i crateri con miliardi di occhi addosso. Invece Michael Collins, lui no, lui era l’astronauta dimenticato. Li stava aspettando in orbita come un papà fuori dalla discoteca, e li avrebbe riportati a casa se tutto fosse andato bene. "Ma se fosse andata male non mi sarei suicidato, sarei tornato sulla Terra dopo avere tentato le diciotto manovre di emergenza che avevamo previsto".

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Il pilota più in gamba di tutti i tempi se n’è andato a novant’anni, ormai piccolo come un pulcino, rattrappito come un ET memorioso. Telefono, casa. La sua casa era la navicella Columbia che Collins governò nella missione Apollo 11, la prima sulla Luna (gli altri due, lui invece a guardare). "Era la mia minuscola cattedrale". Mentre il comandante Neil Armstrong e Buzz Aldrin scendevano su una specie di ragno, il Lem, per conquistare un’immensità di sassi e silenzio (Aldrin ne uscì a pezzi, il secondo non è il primo, si diede all’alcol, cadde in depressione, poi ne venne fuori e adesso è rimasto solo lui a raccontarla), Michael Collins si preparava alla manovra più difficile della storia di tutti i viaggi dall’Odissea a oggi: incastrare alla perfezione Columbia e Lem, riaccogliere a bordo gli eroi ed essere il loro magnifico, oscuro tassista per ritornare infine quaggiù tra mogli, figli, mutui, semafori e bollette del gas.

Era nato a Roma, in via Tevere 16 (una targa di marmo appesa al muro lo ricorda) perché il padre era militare all’ambasciata, poi si era diplomato a West Point, era diventato pilota di caccia, e con 4 mila ore di volo sulle spalle fece domanda per entrare nel secondo gruppo di astronauti americani: lo scartarono. Lo presero invece con il terzo gruppo, ma un’ernia del disco gli impedì di comandare l’Apollo 8. Una sventura apparente e una fortuna sostanziale, perché così venne selezionato per l’Apollo 11, la missione spaziale più importante nella storia non solo della Nasa, ma dell’umanità intera.

Michael Collins era un tecnico serio e preparatissimo, con il ghiaccio liquido nelle vene. Antidivo assoluto, quando gli chiedevano di quella spaventosa solitudine sorvolando la faccia nascosta della Luna, senza possibilità di comunicare con la base, in definitiva la creatura più remota del cosmo rispetto ai noi minuscoli terrestri, lui alzava le spalle e rispondeva: "E quindi?" E quando accolse i compagni nella sua capsula, pensò a quanto fossero sporchi e quanto lavoro sarebbe costato ripulire tutto, prima di ripartire.

Michael era introverso e creativo, praticamente muto ma capace di colpire al cuore la sostanza delle cose. Non scelsero lui per caso quando si trattò di parlare alle famiglie degli astronauti morti in missione, per esempio gli amici di Apollo 1. E fu ancora lui a disegnare il logo di Eagle, il modulo lunare. Antiretorico per vocazione, non si calò mai nella parte del terzo uomo, incarnazione della faccia nascosta dell’eroismo, eppure con le metafore era un fenomeno.

Disse, per spiegare la complessità di quel viaggio: "Andare sulla Luna, e soprattutto tornare indietro, è come costruire una collana di margherite, basta niente e si rompe". Sempre lontano dall’enfasi, sapeva tuttavia commuoversi ricordando l’immagine della Terra vista da lassù: "Era così bella, così azzurra e piccola, stava tutta dietro la punta del mio dito. E io, guardandola pensavo a quanto fosse preziosa e fragile". Il suo ultimo tweet, pochi giorni fa, diceva proprio questo: "Sono certo che se tutti potessero vedere la Terra fluttuare appena fuori dalle loro finestre, ogni giorno sarebbe la Giornata della Terra".

Adesso che il cancro si è portato via questo alieno timido e gentile, l’uomo con la mano fermissima sui comandi del modulo spaziale e nessuna paura, colui che sarebbe diventato direttore del museo dell’aviazione di Washington e non si sarebbe mai venduto l’autografo, come invece qualcuno dei suoi più celebri colleghi, forse si comprenderà meglio la profondità della sua solitudine, e la potenza anche metaforica del suo destino di uomo in orbita: un giro completo della Luna ogni 47 minuti, aspettando due Godot bardati da enormi orsi bianchi. Sulla polvere lunare mancherà per sempre la sua impronta, ma non era quello il compito di Michael Collins. Lui doveva aspettare, come tutti, chi forse ritorna, ma dalla sua aveva le stelle.