Luca Guadagnino racconta il suo nuovo film Challengers - la Repubblica

Il Venerdì

Challengers è il nuovo film sul tennis di Luca Guadagnino: “I fischi ai miei film? La gente si offende troppo facilmente”

Un particolarte della locandinba con gli occhiali indossati da Zendaya.
Un particolarte della locandinba con gli occhiali indossati da Zendaya. 

Qui c’è la diva Zendaya e nel prossimo film ci sarà Daniel Craig. Ma come fa Luca Guadagnino ad avere sempre le star di Hollywood? «Sono molto sicuro di me». Intervista

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Milano. C’è un metodo, se così si può dire, nella folle vitalità di Luca Guadagnino: non fermarsi. Regista prolifico, più amato all’estero che in Italia, produttore attivissimo (di film suoi ma anche di altri), intellettuale di ottime letture ma anche di grande competenza in quegli ambiti che si dicono frivoli ma poi frivoli non sono (la moda, il design). Ha un profilo che non somiglia in nulla a quello della maggioranza dei registi italiani.

Nato a Palermo, cresciuto ad Addis Abeba dove lavorava il padre, oggi abita a Milano in un appartamento elegante che su Instagram definirebbero epitome di quiet luxury, Guadagnino è eclettico, un po’ uomo del Rinascimento, un po’ rabdomante che sa cogliere lo spirito del tempo. Per i detrattori è troppo snob, troppo ambizioso, troppo esterofilo. Ma non discende da dinastie cinematografiche né da una famiglia privilegiata. Si è fatto strada da sé, cogliendo ogni occasione e con una buona dose di faccia tosta.

Per esempio, portò di persona la sceneggiatura di uno dei suoi primi film a Tilda Swinton, bussando a casa dell’attrice a Londra. Ma questo avveniva alla fine del secolo scorso. Oggi, eccolo qui all’ottavo lungometraggio, secondo un conteggio per ampio difetto che esclude documentari, corti, video musicali, spot e la serie We Are Who We Are. Il nuovo film si intitola Challengers, sarà al cinema dal 24 aprile ed è interpretato da un cast da sogno: l’idolo generazionale Zendaya, Josh O’Connor (il giovane Carlo d’Inghilterra in The Crown) e Mike Faist (che ha debuttato con Steven Spielberg in West Side Story tre anni fa).

Il film racconta di un triangolo amoroso nel mondo del tennis. Zendaya è una ex ragazza prodigio diventata allenatrice del marito (Faist). Il terzo lato del triangolo è l’amico di entrambi, già fidanzato di lei, oggi alle prese con la partita che dovrebbe salvargli la carriera. Sport, sesso, glamour: combinazione interessante, molto seducente e fluida. Potrebbe ripetere il successo di Chiamami col tuo nome, il film di Guadagnino che ha ottenuto i migliori risultati al box office e più alti consensi, tra cui quattro candidature all’Oscar (vinse per la miglior sceneggiatura non originale) e che fece di Timothée Chalamet la star che sappiamo.

C’è stato un prima e un dopo Chiamami col tuo nome, per lei?
«Sì, è stato un film spartiacque della mia esistenza, un po’ rispetto alla professione, ma soprattutto per un cambiamento di tipo personale. Mi ero trasferito a Crema, dove era stato girato il film e dove mi ero creato una situazione idilliaca, lontana da tutti. Ma il successo del film ha cambiato Crema e addio al buen retiro e alla privacy che inseguivo».

È così importante la privacy?
«Molto, anche quella che riguarda il lavoro. Tutto quello che viene prima dell’opera finita dovrebbe essere misterioso e tenuto nascosto».

Parliamo di Challengers, allora, che è pronto da tempo: avrebbe dovuto aprire l’ultima Mostra del cinema di Venezia, ma è stato ritirato per via dello sciopero degli attori.
«Una delle delusioni più violente della mia vita. Il film è travolgente, fa venire voglia di ballare. Nell’augusta Sala Grande del Lido avrebbe creato un clima da party».

Non vorrei ricordarle che nelle sale veneziane lei ha sperimentato anche i fischi, in precedenti occasioni.
«Le proiezioni di alcuni miei film sono state dei veri disastri! Però non capita tutti i giorni di essere fischiati da seicento persone: c’è qualcosa di talmente potente che se sei convinto di quello che fai, continuerai a farlo, ma al tempo stesso rifletterai su quella reazione e questo, nel bene o nel male, ti aiuta a capire chi sei».

Diplomatico.
«Ma no. È che la gente, in generale, si offende troppo facilmente. Io non do mai niente per scontato, ogni film è un nuovo inizio, non è che perché mi hai applaudito ieri dovrai farlo anche domani o viceversa».

I suoi ottimi rapporti con il mondo della moda fanno arricciare il naso ai suoi detrattori. Che cosa risponde?
«Premesso che non conosco nessun regista contemporaneo, escluso Ken Loach, che non faccia estesa pratica di film pubblicitari, non è certo una novità che il cinema e la moda siano legati. Balenciaga, Givenchy, Saint Laurent hanno collaborato con grandi cineasti della loro epoca. La moda non è un concetto che si può riassumere in una posizione negativa o positiva: è un’industria gigantesca che muove capitali immensi in tutto il mondo e lo fa in una congiuntura che mette insieme creatività totalmente sbrigliata e irreggimentazione nei confronti del prodotto. Persone come Silvia Fendi o Jonathan Anderson hanno un’apertura mentale e una curiosità che non riscontro in altri ambienti».

Anderson, il designer di Loewe, ha ideato il guardaroba dei personaggi di Challengers.
«Per il personaggio di Zendaya, che vediamo da quando è una ragazzina di periferia a quando diventa una donna super raffinata che gestisce e domina l’immagine del marito, ha identificato un vero percorso estetico, attraverso tocchi pieni di significato. Questo, per me, è cinema. Aggiungo che nessuno degli oggetti di lusso che si vedono nel film è stato sponsorizzato. Abbiamo comprato accessori e gioielli in boutique, a prezzo pieno. Al cinema, l’abito fa il monaco».

Lei non si scoraggia mai?
«Mai! Quando parlo con amici e colleghi che sono turbati, sconvolti da insuccesso, da una critica o da una reazione negativa, io dico sempre: “Fai subito un altro film”. Non bisogna piangersi addosso. Fai una cosa, la lanci nel mondo, ma devi essere già pronto a farne un’altra».

Che cosa “lancia” con Challengers?
«Mi interessava raccontare soprattutto il senso di oppressione e repressione di questi personaggi, compressi in una gabbia di controllo di sé o di controllo sugli altri. Un’atmosfera schiacciante tipica del mondo dello sport, che costringe il tuo corpo in quelle posizioni e in quella disciplina. Molto affascinante per uno come me, pigrissimo, mai stato sportivo».

Non ha imparato a giocare a tennis?
«Un pochino, sul set. Avevamo come consulente Brad Gilbert, ex campione e mitico coach di Andre Agassi e di Andy Roddick. Gli attori invece hanno dovuto imparare seriamente: allenamenti devastanti diverse ore al giorno per tre mesi. Si sono impegnati moltissimo. Il più scatenato era Mike, una vera macchina da guerra. Io mi divertivo a corromperli».

Cioè?
«Cucino bene. Li invitavo a cena. Josh mangiava, Zendaya faceva più attenzione, Mike era incorruttibile. Era diventato un atleta!».

Oggi il tennis è in un momento di grande popolarità in Italia, grazie ai successi di Jannik Sinner. È comunque uno sport abbastanza cinematografico: Il giardino dei Finzi Contini, Delitto per delitto, Blow up… Aveva in mente una sua idea visiva del tennis? A un certo punto c’è la soggettiva della pallina, le partite sono indiavolate.
«Sapevo da spettatore televisivo che per poterlo apprezzare lo puoi vedere solo da pochissimi punti di macchina, di solito dietro il giocatore che riceve. È una spartana austerità, necessaria a capire il gioco per chi lo guarda da casa. Allora mi sono detto: utilizziamo un linguaggio che non riporti pigramente gli stilemi della televisione. La pallina in soggettiva rappresenta i tre personaggi, la tensione erotica, amorosa, competitiva che c’è tra loro».

Lei è anche uno dei produttori del film. Da regista o produttore o entrambe le cose, ha comunque sempre dei progetti in corso.
«Amo fare il produttore. È una carriera separata, parallela a quella del regista. Nell’ultimo anno ho prodotto otto film, tra cui Enea di Sergio Castellitto che era in concorso a Venezia e quello di Edoardo Gabriellini, che era al festival di Roma. Sto preparando adesso quello di Margherita Giusti».

Si sente il padre di questi registi?
«Il produttore non è un padre, ma una via di mezzo tra educatore e maggiordomo, al servizio dell’artista».

Lei, come regista, ha un tocco felice nel lavorare con attori giovani. Penso al caso Chalamet, al cast di We Are Who We Are e naturalmente al trio di Challengers. Le interessa raccontare queste nuove generazioni?
«Non necessariamente. Però dai giovani ricevo un tipo di energia che mi parla del contemporaneo, e questo mi piace. Bernardo Bertolucci, quando girò The Dreamers (2003) disse: “Voglio parlare della mia generazione nei corpi e negli sguardi dei ragazzi di oggi”. È una frase molto saggia, come lo è sempre il pensiero di Bertolucci».

In effetti, Challengers ha qualcosa di The Dreamers.
«Bernardo, come ispirazione, per me, c’è sempre. Il suo cinema è una risorsa infinita. Ho appena iniziato a girare un documentario su di lui. Si intitolerà Joie de vivre. Ci sarò io che parlerò di Bernardo in prima persona e in maniera impudica. Abbiamo già fatto delle riprese a casa sua a Roma, prima che venisse chiusa».

Parlando di mentori e maestri, se pensa al giovane Luca universitario che andava a cena da Laura Betti e lì incontrava intellettuali e artisti, che cosa gli vorrebbe dire?
«Vai in palestra! Avevo 23 anni, non facevo sport e infatti mi è venuta la pancia».

Si sente più sicuro di sé oggi o lo era di più da ragazzo?
«Sono stato sempre molto sicuro di me, fin da bambino. Ma non ho mai amato essere giovane. La gioventù è sopravvalutata, sono felice di avere 52 anni».

Cosa, in particolare, la rende felice?
«Il fatto che sto realizzando i miei piani. Io ho dei piani quinquennali, faccio delle liste, sono molto determinato, quasi in modo noioso. Al di là delle amicizie e degli amori, non c’è niente di più bello per me di vedere una cosa fatta, finita, realizzata, magari in collaborazione con altri, possibilmente bene. È uno dei piaceri più forti della vita».

Uno dei progetti a cui teneva lo ha appena concluso: Queer, tratto dal libro di William Burroughs.
«Un film che ho desiderato fare da quando ho letto il libro a 17 anni. È pronto, e Daniel Craig ha dato l’interpretazione più bella della sua carriera».

Quando ha capito che si sarebbe realizzato?
«Boston, aprile 2022, stavo girando Challengers. C’era Justin Kuritzkes, lo sceneggiatore di Challengers, sul set. Gli parlai di Queer e gliene procurai una copia. Gli è piaciuto moltissimo e da quel momento è partito tutto. Il produttore Lorenzo Mieli ha trovato i diritti. Una telefonata con James Grauerholz, l’ultimo compagno di Burroughs che oggi gestisce la fondazione a suo nome, ha sigillato il progetto. Justin ha cominciato a scrivere la sceneggiatura mentre eravamo ancora al lavoro su Challengers. Presto realizzerò un altro di questi miei sogni di vecchia data: un film tratto da Camere separate di Pier Vittorio Tondelli. Lo ha scritto Francesca Manieri».

Nel tempo libero, ammesso ne abbia, insieme all’amico e socio Carlo Antonelli, scrivete lunghi e articolati necrologi in onore di defunti celebri. Perché?
«Detesto i social media, odio l’idea che chiunque possa dire la sua. Per me tutte quelle parole buttate su Instagram o Twitter sono diarrea. Chi scrive sui social non spende un soldo e non si prende la responsabilità di quel che dice, spesso è anche anonimo. Per i necrologi, invece, devi pagare e pensare ogni lettera che scrivi. Sono un genere desueto eppure legato alla bruciante attualità della scomparsa di una persona».

Il fatto che lei ritualizzi in modo così impegnativo il lutto mi spinge a chiederle che tipo di rapporto abbia con la morte.
«Mi piace l’inesorabilità del tempo e non ho paura di morire. Come posso avere paura di una cosa che non mi vede protagonista?».

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