[PDF] Io e te de Niccolò Ammaniti libro electrónico | Perlego
Io e te
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Io e te

Niccolò Ammaniti

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  1. 122 páginas
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Io e te

Niccolò Ammaniti

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Índice
Citas

Información del libro

Barricato in cantina per trascorrere di nascosto da tutti la sua settimana bianca, Lorenzo, un quattordicenne introverso e un po' nevrotico, si prepara a vivere il suo sogno solipsistico di felicità: niente conflitti, niente fastidiosi compagni di scuola, niente commedie e finzioni.
Il mondo con le sue regole incomprensibili fuori della porta e lui stravaccato su un divano, circondato di Coca-Cola, scatolette di tonno e romanzi horror.
Sarà Olivia, che piomba all'improvviso nel bunker con la sua ruvida e cagionevole vitalità, a far varcare a Lorenzo la linea d'ombra, a fargli gettare la maschera di adolescente difficile e accettare il gioco caotico della vita là fuori.
Con questo racconto di formazione Ammaniti aggiunge un nuovo, lancinante scorcio a quel paesaggio dell'adolescenza di cui è impareggiabile ritrattista. E ci dà con Olivia una figura femminile di fugace e struggente bellezza.

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Información

Editorial
EINAUDI
Año
2010
ISBN
9788858404225

Roma
Dieci anni prima

1.

La sera del diciotto febbraio duemila sono andato a letto presto e mi sono addormentato subito, ma durante la notte mi sono svegliato e non sono piú riuscito a riprendere sonno.
Alle sei e dieci, con il piumone tirato fino al mento, respiravo a bocca aperta.
La casa era silenziosa. Gli unici rumori che si sentivano erano la pioggia che batteva contro la finestra, mia madre che camminava al piano di sopra tra la stanza da letto e il bagno e l’aria che entrava e usciva dalla mia trachea.
Tra poco sarebbe venuta a svegliarmi per portarmi all’appuntamento con gli altri.
Ho acceso la lampada a forma di grillo poggiata sul comodino. La luce verde ha dipinto uno spicchio di stanza dov’erano poggiati lo zaino gonfio di vestiti, il giaccone, la sacca con gli scarponi e gli sci.
Tra i tredici e i quattordici anni ero cresciuto di botto, come se mi avessero dato il concime, ed ero diventato piú alto dei miei coetanei. Mia madre diceva che due cavalli da tiro mi avevano stirato. Passavo un sacco di tempo allo specchio a osservarmi la pelle bianca macchiata di lentiggini, i peli sulle gambe. Sulla testa mi cresceva un cespuglio castano da cui spuntavano le orecchie. I lineamenti del viso erano stati rimodellati dalla pubertà e un naso imponente mi divideva gli occhi verdi.
Mi sono alzato e ho infilato la mano nella tasca dello zaino poggiato accanto alla porta.
– Il coltellino c’è. La lampada pure. C’è tutto, – ho detto a bassa voce.
I passi di mia madre in corridoio. Doveva avere le scarpe blu con i tacchi alti.
Mi sono tuffato nel letto, ho spento la luce e ho fatto finta di dormire.
– Lorenzo svegliati. È tardi.
Ho sollevato la testa dal cuscino e mi sono stropicciato gli occhi.
Mia madre ha tirato su la serranda. – Che giornata schifosa… Speriamo che a Cortina sia meglio.
La luce tetra dell’alba le disegnava la sagoma sottile. Si era messa la gonna e la giacca grigia che usava quando faceva le cose importanti. Il golf girocollo. Le perle. E le scarpe blu con i tacchi alti.
– Buongiorno, – ho sbadigliato, come se mi fossi appena svegliato.
Si è seduta sul bordo del letto. – Amore, hai dormito bene?
– Sí.
– Vado a prepararti la colazione… Tu intanto lavati.
– Nihal?
Mi ha pettinato i capelli con le dita. – Dorme, a quest’ora. Ti ha dato le magliette stirate?
Ho fatto di sí con la testa.
– Alzati, su.
Avrei voluto farlo, ma un peso sul petto mi soffocava.
– Che c’è?
Le ho preso la mano. – Mi vuoi bene?
Lei ha sorriso. – Certo che te ne voglio –. Si è messa in piedi, si è guardata nello specchio accanto alla porta e si è lisciata la gonna. – Alzati, dài. Pure oggi ti devi far pregare per uscire dal letto?
– Un bacio.
Si è piegata su di me. – Guarda che non parti militare, vai in settimana bianca.
L’ho abbracciata e ho infilato la faccia tra i capelli biondi che le cadevano sul viso e ho poggiato il naso sul collo.
Aveva un buon odore. Mi faceva pensare al Marocco. A certi vicoli stretti stretti pieni di bancarelle con sopra polveri colorate. Ma io non ero mai stato in Marocco.
– Che profumo è questo?
– Il sapone al sandalo. Il solito.
– Me lo puoi prestare?
Lei ha sollevato un sopracciglio. – Perché?
– Cosí mi ci lavo e ti ho addosso.
Lei mi ha tirato via le coperte. – Ma che è questa novità che ti lavi? Su, non fare lo scemo, non avrai nemmeno il tempo di pensarmi.
Osservavo dal finestrino della Bmw il muro dello zoo ricoperto di manifesti elettorali bagnati. Piú in alto, dentro la voliera dei rapaci, un avvoltoio se ne stava su un ramo secco. Sembrava una vecchia vestita a lutto che dormiva sotto la pioggia.
Il riscaldamento della macchina mi toglieva l’aria e i biscotti si erano fermati in fondo alla gola.
La pioggia stava finendo. Una coppia, lui grasso e lei magra, faceva ginnastica sulle scale coperte di foglie fradicie del museo d’arte moderna.
Ho guardato mia madre.
– Che c’è? – ha detto senza togliere gli occhi dalla strada.
Ho gonfiato il torace cercando di imitare la voce bassa di mio padre: – Arianna dovresti lavarla questa macchina. È un porcile a quattro ruote.
Lei non ha riso. – Hai salutato tuo padre?
– Sí.
– Che ti ha detto?
– Di non fare stronzate e di non sciare come un pazzo –. Ho fatto una pausa. – E che non ti devo chiamare ogni cinque minuti.
– Ha detto cosí?
– Sí.
Ha cambiato marcia e ha svoltato sulla Flaminia. La città cominciava a popolarsi di macchine. – Chiamami quando vuoi. Hai preso tutto? La musica? Il cellulare?
– Sí.
Il cielo grigio pesava sopra i tetti e tra le antenne.
– La borsa con le medicine l’hai presa? Ci hai messo dentro il termometro?
– Sí.
Un ragazzo su un vespone rideva con il telefonino infilato sotto il casco.
– I soldi?
– Sí.
Abbiamo attraversato il ponte sul Tevere.
– Il resto mi pare che lo abbiamo controllato insieme ieri sera. Hai tutto.
– Sí, ho tutto.
Eravamo fermi al semaforo. Una donna in Cinquecento guardava dritta davanti a sé. Sul marciapiede un vecchio si trascinava dietro due labrador. Un gabbiano era appollaiato sullo scheletro di un albero ricoperto di buste di plastica che spuntava dall’acqua color fango.
Se fosse venuto Dio e mi avesse chiesto se volevo essere quel gabbiano, avrei risposto di sí.
Mi sono tolto la cintura di sicurezza. – Lasciami qua.
Mi ha guardato come se non avesse capito. – Come qua?
– Sí. Qua.
Il semaforo è diventato verde.
– Ti fermi, per favore.
Ma ha continuato a guidare. Fortuna c’era un camion della spazzatura che ci rallentava.
– Mamma! Ti fermi.
– Rimettiti la cintura.
– Ti prego fermati.
– Ma perché?
– Voglio arrivarci da solo all’appuntamento.
– Non capisco…
Ho alzato la voce. – Fermati, per favore.
Mia madre ha accostato, ha spento la macchina e si è tirata indietro i capelli con la mano. – Adesso che succede? Lorenzo, ti prego, non cominciamo… Lo sai che a quest’ora non connetto.
– È che… – Ho stretto i pugni. – Tutti gli altri vanno da soli. Io non posso presentarmi con te. Faccio una figuraccia.
– Fammi capire… – Si è stropicciata gli occhi. – Quindi ti dovrei lasciare qui?
– Sí.
– E non ringrazio neanche i genitori di Alessia?
Ho sollevato le spalle. – Non c’è bisogno. Glielo dico io.
– Non se ne parla proprio –. E ha girato la chiave.
Mi sono gettato su di lei. – No… No… Per favore.
Lei mi ha spinto indietro. – Per favore, cosa?
– Fammi andare da solo. Non posso arrivare là con la mamma. Mi prenderanno in giro.
– Ma che stupidaggine… Voglio sapere se va tutto bene, se devo fare qualcosa. Mi sembra il minimo. Non sono una cafona come te.
– Io non sono cafone. Io sono come tutti gli altri.
Ha messo la freccia. – No. Non esiste.
Non avevo calcolato che mia madre ci tenesse tanto ad accompagnarmi.
La rabbia cominciava a salire. Ho preso a battere i pugni sulle gambe.
– Ora che fai?
– Niente –. Ho stretto la maniglia della portiera fino a farmi diventare le nocche bianche. Avrei potuto strappare lo specchietto retrovisore e romperci il vetro del finestrino.
– Perché devi fare il ragazzino?
– Sei tu che mi tratti come un… coglione.
Mi ha fulminato. – Non dire parolacce. Lo sai che non lo sopporto. E non c’è bisogno di fare queste scene.
Ho dato un pugno al cruscotto. – Mamma, voglio andare da solo, porca miseria –. La rabbia mi premeva contro la gola. – Va bene. Non ci vado. Cosí sei contenta.
– Guarda che mi sto arrabbiando sul serio, Lorenzo.
Avevo un’ultima carta. – Tutti hanno detto che andavano da soli all’appuntamento. Io invece sono sempre quello che arriva con la mammina. È per questo che ho i problemi…
– Adesso non mi far passare per quella che ti fa venire i problemi.
– Papà ha detto che devo essere indipendente. Che devo avere la vita mia. Che mi devo staccare da te.
Mia madre ha socchiuso gli occhi e ha stretto le labbra sottili come per impedirsi di parlare. Si è girata e ha fissato le macchine che passavano.
– È la prima volta che mi invitano… che penseranno di me? – ho continuato io.
Si è guardata intorno come se sperasse che qualcuno le dicesse cosa fare.
Le ho stretto la mano. – Mamma stai tranquilla…
Ha scosso la testa. – No. Non sto tranquilla per niente.
Con il braccio intorno agli sci, la sacca degli scarponi nella mano e lo zaino sulle spalle ho visto mia madre che faceva inversione. L’ho salutata e ho aspettato fino a quando la Bmw è scomparsa sul ponte.
Mi sono avviato per viale Mazzini. Ho superato il palazzo della Rai. A un centinaio di metri da via Col di Lana ho rallentato, mentre il cuore accelerava. Avevo la bocca amara come se avessi leccato un filo di rame. Tutta quella roba addosso mi impacciava. E nel piumino stavo facendo la sauna.
Quando sono arrivato all’incrocio, ho sporto la testa oltre l’angolo.
In fondo, davanti a una chiesa moderna, c’era un grosso Suv Mercedes. Ho visto Alessia Roncato, sua madre, il Sumero, Oscar Tommasi che stavano infilando le valigie nel bagagliaio. Una Volvo con un paio di sci sul tetto si è affiancata al Suv e ne è uscito Riccardo Dobosz, ch...

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