Recensione Leon, film del 1994 diretto da Luc Besson

Recensione Leon, film del 1994 diretto da Luc Besson

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Per la nostra rubrica Cult Classics abbiamo rivisto quest’oggi Leon, film del 1994 diretto da Luc Besson. Questa è la nostra recensione.

Sullo sfondo della Little Italy di New York degli anni ’90, Luc Besson dà vita alla storia di Leon (Jean Reno), o meglio di Leon e Matilda (Natalie Portman).

Le prime sequenze sono un espediente narrativo per mostrarci i personaggi chiave della vicenda – tra cui Stansfield (Gary Oldman) e Mr.Tony (Danny Aiello) – i luoghi e le dinamiche che danno avvio ad un dramma di eccezionale profondità.

Le tinte di tutti gli elementi sono assai fosche, quasi Dostoevskijane, e lo si percepisce dagli ambienti delle abitazioni spoglie o completamente disordinate, dai colori sempre spenti, dagli atteggiamenti di Leon. Per quest’ultimo elemento bisogna dare atto di una magistrale interpretazione di Jean Reno, il quale riesce a restituire in modo preciso e mai troppo accentuato l’universo mentale di un personaggio tanto affascinante quanto controverso. Leon infatti è da un lato un killer freddo e spietato, dall’altro un uomo fedele a valori inamovibili e soprattutto capace di una dolcezza e di una sensibilità tanto nobili da renderlo magnetico sia per Matilda che per lo stesso spettatore. L’espressione fisica del conflitto tra queste due forze viene espressa da movenze macchinose, quasi sforzate.

I due protagonisti, in origine semisconosciuti, si ritrovano a condividere un’esistenza segnata dalla solitudine indotta da una vita che è stata oltremodo violenta con loro. L’inadeguatezza è la condizione dominante che traspare dagli atteggiamenti di entrambi. Leon quando si sveste dei panni da killer diventa un uomo qualunque, quasi bizzarro con i suoi pantaloni larghi e un po’ troppo corti, le bretelle per tenerli su e la sua camminata un po’ ridicola. Matilda è una ragazzina che vuole mostrarsi già grande. Con le sigarette, il collare e il caschetto nero prova a nascondere una puerilità che la porterà a creare enormi problemi ed a complicare il piano di convivenza amorosa progettato con il suo “amante”. Tale inadeguatezza viene espressa oscillando tra il comico ed il malinconico. Sono questi i caratteri che, alternativamente, attraversano tutta la vicenda la quale oscilla tra i due poli senza posa e senza mai trovare un vero centro. Tutti gli elementi del “racconto” sono dilatati nei due sensi. Le ragioni della solitudine di Matilda ci vengono spiegate dall’eloquenza della trama. L’esistenza pregressa di Leon rimane invece celata per molto tempo, ma spinge per emergere.

Le sequenze d’azione, alternate a quelle narrative, servono a far progredire la storia, a creare intrecci ed accelerazioni, ma non sono il fulcro della pellicola. Ogni volta che accade qualcosa di importante il tempo si dilata per permettere lo svolgimento drammatico. Tuttavia nelle scende d’azione ritroviamo un altro elemento cardine: la violenza. Per lo più quest’ultima è incarnata da Stansfield, poliziotto corrotto invischiato nel giro del traffico di stupefacenti. La sua efferatezza ha bisogno però, per concretizzarsi, di una spinta fornitagli dall’assunzione di una pasticca che lo porta fuori di sé in una trance che crea un mix di follia omicida e passione musicale. Solo così la violenza può prendere atto, e non è un aspetto marginale. Per tutto il film la violenza non è mai gratuita ma veicolata da agenti esterni, che siano essi di carattere biografico o strumentale. La nota a margine in questo caso va dedicata al lavoro di immedesimazione di Gary Oldman che fa centro come suo solito.

Tuttavia oltre gli aspetti narrativi c’è un messaggio che Besson sta lanciando disperatamente allo spettatore: l’amore, quello vero, può dare senso ad ogni esistenza, persino ad una ragazzina priva di famiglia e futuro e ad un sicario solo e sfregiato dalla vita. Non c’è nulla di morale, ci si mette dalla parte di un killer guidato dalla sola legge “niente bambini e niente donne” e di una ragazzina che lo prende a modello. Eppure non si riesce a fare altrimenti perché le motivazioni che hanno portato i due alle estreme conseguenze ci sono offerte in modo tanto tagliente da sentire le loro sofferenze, da innamorarsi del loro amore esagerato. Per veicolare tutto questo pathos c’è bisogno di un simbolo. Nulla di meglio che la pianta di Leon che per analogia riporta alla cura che naturalmente si è disposti a dare alle persone o cose che amiamo, all’energia che ogni giorno adoperiamo per coltivare i legami più profondi, senza nulla in cambio.

Amore e morte. Questo è tutto quello che conta nel capolavoro di Besson.


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