Le tombe dipinte dei re macedoni a Vergina in "Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco" - Treccani - Treccani

Le tombe dipinte dei re macedoni a Vergina

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Antichistica 13 Cover ebook Storia della civilta-08.jpg

Le tombe dipinte dei re macedoni a Vergina

Lo scavo delle tombe reali della necropoli di Vergina ha restituito originali pittorici di altissima qualità, realizzati nella seconda metà del IV secolo a.C., l’epoca aurea della pittura greca, per una committenza prestigiosa quale l’ambiente di corte macedone: una documentazione di straordinaria importanza, che consente di apprezzare la virtuosità tecnica e compositiva raggiunta dai pittori dell’epoca.

Nell’antica capitale macedone

Nell’area occupata dai moderni villaggi di Vergina e di Palatitza, nella Macedonia occidentale, è da localizzare l’antica Ege (Aigai), la prima capitale del regno macedone. Il centro politico e amministrativo viene trasferito a Pella verso la fine del V secolo a.C. dal re Archelao, ma la vecchia capitale continua a rivestire un ruolo di primaria importanza per la dinastia argeade. A Ege, ad esempio, si celebrano i matrimoni dei membri della famiglia reale, tra cui quello, avvenuto nel 336 a.C., di Cleopatra, figlia di Filippo II con Alessandro il Molosso d’Epiro, nel corso del quale Filippo viene assassinato da una sua guardia del corpo e il figlio Alessandro III, il futuro Alessandro Magno, nominato immediatamente suo successore: il tutto all’interno del teatro della città, verosimilmente identificabile con quello messo in luce a Vergina, nel corso del 1981, nei pressi del grande e sontuoso palazzo dinastico costruito probabilmente alla fine del IV secolo a.C. Ed è a Ege che gli Argeadi ricevono sepoltura, all’interno perlopiù di grandi tombe di tipo “macedone”, caratterizzate, cioè, da una struttura a camera voltata a botte provvista di una facciata monumentale. Questo è quanto hanno dimostrato gli scavi del Grande Tumulo diretti dall’archeologo greco Manolis Andronikos. Essi non solo hanno rivelato informazioni preziosissime sulla dinastia macedone, i suoi usi funerari, la sua ideologia autorappresentativa, ma hanno anche restituito, dal 1977, una serie di originali pittorici greci di qualità eccezionale, databili tra la metà e la fine del IV secolo a.C., un periodo che le fonti antiche concordano nel definire come l’apice dell’epoca aurea iniziata per la pittura greca in età periclea.

È in questa fase che la pittura diventa in Grecia la prima delle arti liberali, assumendo pienamente un ruolo di arte-pilota, perché più sperimentale e innovativa, e giustificando l’interesse che nei confronti delle sue qualità illusionistiche e ingannatrici per le facoltà percettive dell’uomo mostrano filosofi come Platone e Aristotele. L’importanza assunta dall’arte pittorica in Grecia nel corso del IV secolo a.C. è dimostrata dal formarsi di vere e proprie scuole, a Tebe, a Sicione, a Corinto, ognuna caratterizzata da tendenze e da scelte artistiche ben definite: ed è certo che alcuni tra i principali esponenti di queste scuole lavorino anche per la committenza reale macedone, che da quasi un secolo attrae dalla Grecia alla propria corte letterati, filosofi e artisti. I maestri del IV secolo a.C. dipingono soprattutto quadri su tavola, capolavori celebrati nelle fonti letterarie antiche, ma andati tutti perduti. Nemmeno le pitture di Vergina sono quadri di cavalletto; ma sono opere di artisti di capacità notevoli, in qualche caso identificabili con i grandi maestri ricordati dalle fonti.

Persefone, da fanciulla rapita a regina degli inferi

Le tombe si trovano all’estremità sud occidentale della grande necropoli di tumuli di Vergina, utilizzata dal VII secolo a.C. fino all’età ellenistica, e sono coperte dal tumulo più grande, che presenta un diametro di oltre 100 metri per circa 12 di altezza, forse fatto erigere da Antigono Gonata dopo i saccheggi dei mercenari galati di Pirro, re dell’Epiro nel corso dell’invasione della Macedonia nel 274/273 a.C.

Totalmente spoglia degli elementi di un corredo che doveva essere assai sontuoso è stata ritrovata da Andronikos la tomba I, nota come Tomba di Persefone per le eccezionali pitture che ne decorano l’interno, per il resto assai austero. Le pareti sono dipinte fino a metà altezza di un rosso profondo; la transizione alla metà superiore a fondo bianco, riservata alle scene figurate, è segnata da un’elegante predella blu cielo, sulla quale si snoda, dipinta in bianco con l’uso di un sapiente chiaroscuro, una teoria di fiori di varia qualità (narcisi, gigli, giacinti...) inquadrati da grifi e chimere affrontati, creature liminari che segnano il passaggio tra la vita e la morte. Sulla parete sud, la meno leggibile, tre figure femminili, caratterizzate da una dispozione spaziale che consente di interpretarle come unità concettuale: sono le Moire, Cloto la filatrice, Lachesi, che estrae la sorte delle anime, e infine Atropo, che con le sue temibili cesoie taglia il filo della vita determinando il destino degli uomini. Sulla parete est si staglia un’altra figura femminile, di età matura, tutta chiusa nel manto che le copre anche il capo, seduta su una roccia: è la direzione del suo sguardo dolente ma rassegnato a volgere l’attenzione dello spettatore verso la parete adiacente, quella settentrionale, che presenta una scena il cui violento dinamismo fa da superbo contraltare alla quieta solennità della spettatrice. La figura femminile è Demetra, che assiste al rapimento della figlia Persefone da parte di Ade: il dio degli inferi sta salendo sul carro, su cui trascina la fanciulla terrorizzata, che tenta di liberarsi dalla stretta slanciando all’indietro il torso e le braccia, in uno scatto di ripulsa che le fa fluttuare all’indietro i capelli e le apre l’abito, svelando il seno fiorente. In basso a destra, accucciata, una giovane donna, forse la ninfa Ciane che accompagnava Persefone a cogliere fiori, leva in alto il braccio destro in un gesto di orrore e di difesa. È un attimo: Ermes Psicopompo, che guida la quadriga, sta già prendendo il volo, i cavalli scalpitano, pronti a slanciarsi al galoppo, lo scorcio audace con cui sono rese le ruote del carro ne prefigura il rapido movimento. È uno straordinario disegnatore l’autore di questa scena, che con poche, essenziali pennellate esprime il muto terrore del volto di Persefone, il dolore e la pietà di quello di Ciane, l’impassibile, implacabile crudeltà di Ade, con quei suoi occhi senza sguardo. Ed è un colorista sobrio e sapiente, che utilizza una tavolozza limitata ai colori della terra come i tetracromatisti di cui parla Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXXV, 50), dando a quei colori un significato e un ruolo ben preciso nell’economia dell’immagine: il rosso sangue del carro che conduce agli inferi, lo stesso porpora per l’himation di Ade e la veste di Persefone a prefigurare la loro unione, l’ocra della terra per il mantello che avvolge Ciane, destinata a rimanere sulla terra. È anche un grande compositore, capace di utilizzare in modo audace le diagonali per esprimere il rifiuto della fanciulla di accettare il suo destino, contrapposto all’irremovibile decisione del dio degli inferi; ed è, infine, il probabile inventore di questa concezione del tutto nuova del soggetto del ratto di Persefone (comunque raro fino alla fine del IV secolo a.C.), in cui per la prima volta il tema verte sulla terrorizzata ripulsa della fanciulla e sulla violenza dell’atto compiuto su di lei da Ade. Di segno opposto è la rappresentazione di Ade accompagnato da Persefone, ormai sua sposa e regina dell’Oltretomba, che compare sullo schienale di un sontuoso trono marmoreo rinvenuto all’interno di una tomba localizzata nell’area della necropoli di Ege riservata alle sepolture delle regine-sacerdotesse. Si tratta di un vero e proprio quadro, dipinto ad encausto e delimitato su tre lati da una raffinata cornice decorata con lussureggianti motivi vegetali parzialmente a rilievo; al centro, l’epifania degli dèi infernali sulla quadriga è resa con un linguaggio di statica solennità, inquadrata dalla disposizione, scenografica ma del tutto inorganica, dei quattro cavalli, disposti simmetricamente due per lato. Qui non è il disegno, bensì il colore a prevalere: l’uso dei quattro colori fondamentali (il bianco, il nero, il giallo, il rosso), con relative mezze tinte e sfumature, assume ricchezza di toni e luminosità avvalendosi di sovrapposizioni e chiaroscuri per conferire volume alle figure, e associandosi alle abbondanti sovraddipinture in oro per dare al trono l’aspetto di un oggetto di lusso, paragonabile a quegli arredi crisoelefantini certamente in uso presso la corte macedone, come gli stessi rinvenimenti nelle più ricche tombe del Grande Tumulo consentono di affermare.

Sono verosimilmente la vicenda umana e le circostanze della morte delle donne a cui sono riconducibili le due tombe ad aver imposto le scelte che stanno alla base di queste due concezioni antitetiche della figura di Persefone e del suo rapporto con la morte e gli inferi: nella tomba I sono deposte le spoglie di una giovane donna poco più che ventenne con quelle di un neonato, forse Nicesipole di Fere, la quinta delle sette mogli di Filippo II, morta nel 352 a.C., verosimilmente di parto; la titolare della tomba del trono è invece Euridice, moglie di Aminta III e madre di Filippo II, morta intorno al 340 a.C. Nella Persefone in maestà accanto allo sposo infernale si fa allusione alla stessa regina madre, che raggiunge anziana e colma di onori il marito nell’Oltretomba, dopo aver svolto per intero il proprio compito in questa vita; il dolore e la ribellione al proprio destino della Persefone del ratto costituiscono invece il lamento per la morte prematura della giovane sposa, strappata crudelmente alla vita prima di averne potuto godere tutti i frutti.

Una caccia regale

La tomba di gran lunga più imponente tra quelle finora scoperte è la II del Grande Tumulo, costituita da una camera di notevoli dimensioni, preceduta da un vestibolo al quale si accede tramite una monumentale porta a due battenti, inquadrata da due colonne doriche sormontate da un epistilio a triglifi e da un fregio continuo, alto 1,16 metri e lungo 5,56 metri, dipinto con una scena figurata di straordinario interesse. La tomba, rinvenuta intatta, ha restituito un sontuoso corredo, ricco di armi da parata, di vasellame d’argento e di bronzo, di elementi decorativi d’avorio pertinenti a mobili lignei, tra cui probabilmente una kline; all’interno di un sarcofago in marmo, una raffinata cassetta in oro con il coperchio decorato dalla stella macedone a dodici raggi conteneva, avvolte in un tessuto di porpora e accompagnate da una splendida corona d’oro di foglie e bacche di quercia, le ossa del defunto, un uomo di almeno cinquant’anni, come le analisi hanno dimostrato.

L’associazione della tomba al nome di Filippo II, immediatamente proposta da Andronikos sulla base degli elementi di corredo, ha ricevuto conferma dal confronto antropometrico delle ossa del cranio con i ritratti noti del sovrano; e risulta del tutto coerente con il significato dinastico attribuibile alla scena raffigurata nel fregio dipinto sulla facciata. In un paesaggio invernale, tra alberi spogli, rocce ed una cupa foresta sullo sfondo, caratterizzato da una connotazione sacra (un albero è cinto di bende e su un pilastro si ergono delle statuette) dieci figure maschili, di cui tre equestri, e nove cani di varie razze sono impegnati in episodi di caccia, al cervo, al cinghiale, al leone e all’orso. Il fulcro della dinamica rappresentazione è spostato verso destra, sul cavaliere barbato in groppa al cavallo cabrato che sta per trafiggere il leone, preda della caccia reale per eccellenza: nella sua figura è da riconoscere il defunto sovrano, Filippo, mentre il giovane cavaliere con la testa cinta da una corona di foglie che si trova al centro della composizione, raffigurato nell’atto di intervenire nell’uccisione del leone, è certamente Alessandro. La caccia è una delle attività predilette dalla corte macedone, in quanto considerata manifestazione di virtù guerriere e di coraggio, e costituisce altresì un importante rito di passaggio e di introduzione dei giovani nella società degli adulti; gli episodi venatori in cui il giovane Alessandro si era coperto di onore diventano soggetti per gli artisti di corte, riprodotti in scultura, come nel donario di Delfi realizzato da Lisippo e Leocare, e probabilmente anche in pittura, come sostiene Paolo Moreno che riconosce nel celebre mosaico di Pella con caccia al cervo la copia di un dipinto (dallo studioso attribuito ad Apelle) che aveva come protagonisti il giovane principe e l’amico Efestione.

Il programma iconografico della caccia di Vergina viene verosimilmente concepito dallo stesso Alessandro e dai suoi più fidati collaboratori, nel difficile momento immediatamente successivo all’assassinio del padre: pur se nominato suo successore, il giovane sa di avere dei nemici, e avverte probabilmente la necessità di ribadire sul primo monumento che commissiona, la tomba di Filippo, il concetto della continuità dinastica e della legittimità della propria successione. Il protagonista della scena è il sovrano defunto, rappresentato in una posa enfatica ed eroica: ma Alessandro si avvicina impetuoso al leone, a dimostrare di avere le stesse virtù del padre e ad illustrare con una trasparente metafora l’unità di intenti e l’armonia che avevano regolato i rapporti tra Filippo e il nuovo re.

Una facciata simile a quella della tomba di Filippo II, anche se più semplice e meno monumentale, caratterizza infine la Tomba del Principe, così definita in virtù del rinvenimento, all’interno di una hydria d’argento adornata da una corona simile a quella di Filippo, delle ossa di un fanciullo tra i 12 e i 14 anni; sopra l’epistilio dorico si trova un fregio sul quale sono state riconosciute tracce di colore e resti di sostanze organiche, in cui è da riconoscere quanto resta di un dipinto perduto, eseguito sopra un supporto di cuoio o di legno. Un fregio dipinto, alto poco meno di 25 centimetri, con corse di carri su fondo blu si dipana sulle pareti del vestibolo della tomba, ad un’altezza di oltre due metri dal pavimento: il pittore rende con freschezza il movimento dei cavalli in corsa e alterna gli scorci dei carri, conferendo vivacità ad un tema tradizionale, presente nell’arte greca fin dall’età arcaica, e che in questo contesto allude probabilmente a giochi funebri celebrati in onore del defunto. Anche la Tomba del Principe ha restituito un corredo davvero notevole, all’interno del quale si segnala per la straordinaria finezza esecutiva il gruppo ad intaglio in avorio, probabilmente pertinente alla decorazione di una kline in legno, raffigurante Filippo II e Olimpiade come Dioniso e Arianna accompagnati da Pan. Il giovanissimo titolare della tomba è certo un personaggio di spicco della dinastia degli Argeadi: è probabile che si tratti di Alessandro IV, lo sventurato figlio di Alessandro Magno, ucciso nel 310 a.C. assieme alla madre, la principessa persiana Rossane, dal tutore Cassandro, futuro re dei Macedoni.

Nomi di artisti celebri per le pitture di Vergina

È ampiamente accettata l’attribuzione delle pitture della Tomba di Persefone a Nicomaco di Tebe, pittore tetracromatista celebre per la rapidità nel dipingere (Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXV, 109), che aveva dimostrato nella realizzazione di un ritratto di Antipatro, reggente di Macedonia tra il 334 e il 323 a.C.: notizia quest’ultima che dimostra il rapporto esistente tra l’artista e l’ambiente di corte macedone. Plinio lo ricorda anche per un quadro raffigurante il ratto di Proserpina (così il naturalista chiama, all’uso romano, Persefone), esposto nel tempio di Giove Capitolino a Roma: al pittore sarebbe dunque stato chiesto di riprodurre sulle pareti della tomba una sua composizione già famosa. Attribuire la linea nervosa, essenziale ma efficace, con cui è resa la scena del ratto alla mano di Nicomaco aiuta a comprendere in cosa consiste la sua rapidità, e a coglierne l’eccezionalità; mentre il confronto tra il gruppo di Ade e Persefone nella pittura del ratto e quello di Dario con il suo auriga nel mosaico della battaglia di Alessandro (rinvenuto nel 1831 nella Casa del Fauno a Pompei, ed oggi conservato nel Museo Archeologico di Napoli), copia di un originale pittorico, fornisce un illuminante esempio della ripresa di schemi rappresentativi di particolare efficacia (anche per soggetti, come in questo caso, radicalmente differenti) da un’opera a un’altra di pittori diversi ma attivi nello stesso ambiente artistico e culturale.

Un’osservazione che mantiene la propria validità anche se si accetta la proposta, assai suggestiva, di Moreno di riconoscere nel mosaico pompeiano la copia di un originale di Apelle rappresentante la battaglia di Gaugamela (331 a.C.); ma che diventa ancora più interessante in relazione all’ipotesi tradizionale, secondo la quale il mosaico deriverebbe da un quadro raffigurante forse la battaglia di Isso (333 a.C.), eseguito per Cassandro da Filosseno di Eretria. Filosseno è infatti un allievo di Nicomaco, ed è celebre per la sua arte compendiaria: un termine che ha dato un bel po’ di filo da torcere agli studiosi, e che potrebbe essere appunto spiegato come la teorizzazione dell’utilizzo di questi schemi per costruire in tempi rapidi una composizione anche di notevole complessità.

Maggiori incertezze restano per quanto riguarda l’identità dell’artista che ha realizzato la caccia di Vergina: al nome di Nicia ateniese, celebre per le sue capacità di resa naturalistica, si è affiancato quello di Apelle (a lungo attivo alla corte macedone, e ritrattista ufficiale di Alessandro Magno) proprio sulla base della notevole somiglianza tra le figure di alcuni cacciatori e quelle di soldati macedoni nel mosaico della battaglia. Sicuramente si tratta di un artista assai diverso da Nicomaco, come basta a dimostrare la forza plastica delle sue figure, definite più dalla loro potenza cromatica rispetto allo sfondo che dalle linee di contorno. La sua opera costituisce una testimonianza di grande valore documentario per quel che riguarda, ad esempio, l’importanza del paesaggio (un paesaggio che non è solo uno sfondo, ma diventa protagonista degli eventi rappresentati) nell’arte greca precedente all’età ellenistica; e ancora per ciò che riguarda la conoscenza nella pittura dell’epoca della prospettiva aerea, nella caccia di Vergina abilmente resa attraverso la progressiva diminuzione dell’intensità delle tinte in modo da dare un’impressione di profondità. Del resto, l’artista lavora con una tecnica sapiente ed elaborata che si avvicina a quella della pittura di cavalletto, e che prevede aggiunte al secco all’elaborazione a fresco, in modo da definire meglio i dettagli. Queste e molte altre osservazioni di carattere tecnico costituiscono una parte importante del bagaglio di informazioni acquisito grazie alle scoperte di Vergina: scoperte che hanno svelato qualcosa della qualità esecutiva, della varietà stilistica e compositiva, della complessità tecnica della pittura greca classica, aprendo nuove, stimolanti prospettive di ricerca.

© Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani - Riproduzione riservata

TAG

Battaglia di gaugamela

Alessandro il molosso

Ratto di proserpina

Manolis andronikos

Battaglia di isso