Il ritorno di Ryan Gosling

Il ruolo di Ryan Gosling nel film sulla bambola più incompresa della storia lo riporta sotto i riflettori di Hollywood. Questa volta con idee chiare e nuova consapevolezza sui personaggi che vorrebbe interpretare e la parte da impersonare nella vita
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Nel descrivere il suo mestiere d’attore, Ryan Gosling ricorre senza esitazione a una similitudine: «Escape room style». Il riferimento è al gioco in cui i partecipanti, confinati in una stanza, devono risolvere una serie di enigmi per riuscire a fuggire in un tempo prestabilito. Certo, il paragone è un po’ teorico perché Gosling non è mai stato in una escape room e non è del tutto sicuro di cosa succeda là dentro. «Forse dovrei provarne una», osserva, «almeno per vedere come funziona». Però, il concetto base di essere catapultati nel bel mezzo di una situazione imprevista o non desiderata e dover trovare una soluzione, è giusto. «Un giorno arrivi sul set e comincia a piovere quando non dovrebbe», dice, «oppure c’è chi quel dialogo non lo vuole proprio fare, o ancora il vicino fa casino con un soffia foglie a scoppio…».  Allora, come se ne esce?

Con il passare del tempo, Gosling ha scoperto che questo approccio non vale solo per la recitazione, ma aiuta anche in molti altri ambiti. Per esempio, se sei un bambino costretto a crescere in una città in cui non vuoi vivere, o magari cerchi qualcosa che non riesci a esprimere a parole e devi fare dei film per capirlo. Ancora, non avresti mai immaginato di mettere su famiglia e poi, d’emblée, incontri la persona che cambia radicalmente il punto di vista da cui vedevi te stesso e il tuo futuro. La vita ti piomba addosso in modi sempre imprevedibili e sorprendenti; ciò che fa di te un artista è come reagisci.

Aprirsi all’inaspettato, del resto, gli è stato utile. La prima vera rivelazione arriva a soli 21 anni grazie a The Believer, in cui interpreta un ragazzo ebreo di New York che diventa neonazista. Gosling non ha nulla in comune con il protagonista, ed è proprio questo che piace al regista Henry Bean: «Il fatto che non fossi adatto al film è l’elemento che lo ha convinto», racconta. Qualche anno dopo, durante il casting per Le pagine della nostra vita, il regista Nick Cassavetes gli dice chiaramente: «Che tu non abbia le qualità naturali di un protagonista fa di te il mio protagonista». Ottiene la parte e da allora è sempre un protagonista.

All’inizio, Gosling vedeva la recitazione come una sorta di terapia, un’opportunità «per imparare qualcosa su me stesso». Voleva accumulare esperienza, cercava film che potessero catturare uno stato d’animo, una sensazione. A volte ciò che faceva sembrava tutto salvo recitare. «Credo che Ryan abbia visto molti film, ma il modo in cui lavora sembra dire il contrario», afferma Emily Blunt che lo ha conosciuto sul set del prossimo lavoro di David Leitch, The Fall Guy.
Nel 2010, durante le riprese di Blue Valentine, per entrare nel ruolo di un padre, Gosling ha vissuto qualche tempo nella casa dove erano ambientate le scene accanto al personaggio della moglie, interpretata da Michelle Williams, e la piccola attrice che recitava la parte della loro figlia. Per Drive, nel 2011, ha trascorso giornate intere in auto lungo le vie di Los Angeles insieme al regista Nicolas Winding Refn, ascoltando musica e tagliando dialoghi dalla sceneggiatura fino a quando la pellicola non è diventata che l’inesprimibile sensazione condivisa da loro due in viaggio.
«Stavo cercando un posto dove mettere tutto quello che mi accadeva», spiega, «e l’ho trovato nei film, una specie di capsula del tempo». In preparazione alle riprese di Solo Dio perdona, sempre firmato da Refn nel 2013, trascorre mesi in Thailandia ad allenarsi nei campi di Muay Thai dove impara la thai boxe. «Non credo di aver mai girato una scena di lotta e comunque il film non l’avevo fatto per questo», sottolinea. Refn aveva cambiato i piani e a lui andava bene così.

Poi è accaduto qualcosa, o più cose, come spesso accade nella vita, e il suo modo di lavorare ha iniziato a cambiare. Nel 2014, lui e la compagna Eva Mendes, con cui ha recitato in Come un tuono, hanno avuto una figlia e un’altra è arrivata nel 2016. Da allora, ha realizzato meno film indipendenti e un numero maggiore in studio, pellicole del calibro di La La Land e Blade Runner 2049. Film «per il pubblico», a suo stesso dire. Poi, per quattro anni, ha smesso di recitare.

La spiegazione per la sua latitanza da Hollywood è semplice: dopo la nascita della seconda figlia, spiega, «volevo passare più tempo possibile vicino a Eva e alla bambina». Gosling non è di quelli che si immaginano nelle vesti di genitore: la prima volta, racconta, è stato un attimo prima di saperlo, «quando Eva mi ha rivelato di essere incinta». E aggiunge: «Per nulla al mondo vorrei tornare indietro. Sono contento di non aver avuto il controllo sul mio destino in quel frangente, perché è stato un momento incredibile, molto meglio di quanto avessi mai sognato».

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Lo scorso anno Gosling è finalmente tornato al lavoro nel film d’azione dei fratelli Russo per Netflix, The Gray Man, e ora grazie a Barbie di Greta Gerwig. Questo periodo di assenza, sottolinea, ha consolidato il suo nuovo approccio al mestiere di attore. «Ora è un lavoro, non una terapia, e credo sia un cambiamento utile a farlo meglio, proprio perché ci sono meno interferenze».
Forse non è un caso se i progetti che più lo impegnano, tra cui un altro action movie, appena finito di girare in Australia, il kolossal The Fall Guy descritto dal regista David Leitch come «una lettera d’amore ai grandi film», sembrano avere ambizioni più vaste e apprezzate dal grande pubblico. «In realtà ho sempre voluto fare questo genere di cinema», spiega, «ma non ne ho mai avuto l’occasione, o non è mai andata in tale direzione. Diciamo che ho dovuto prendere la porta sul retro». Confessa che spesso, quando era più giovane, non si aspettava di avere tanti spettatori per i suoi film indipendenti, «in un certo senso, li fai per te stesso», riflette. Poi una volta qualcuno gli ha detto che il suo lavoro è riuscire a “sentire” il personaggio, le emozioni, il momento, il mood del film, dice Gosling. «Dopo tutti questi anni, sono arrivato alla conclusione che il mio lavoro è per gli altri. Il punto non è che io “senta”, anche se questo mi permette di stare bene, ma fare provare questa sensazione agli altri».

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Da Cornwall, nell’Ontario dove è cresciuto, a Toronto, che ha visto i suoi primi provini da bambino, «sono cinque ore di treno». Lo racconta, forse, perché adesso noi due siamo sul Pacific Surfliner, un treno che parte da Los Angeles e sfreccia lungo la costa: un viaggio da lui sempre desiderato e finora mai affrontato. Abbiamo percorso insieme la Union Station fino al binario affollato di pendolari, famiglie circondate da bagagli, persone intente ad ammazzare il tempo senza un posto migliore dove andare e bambini in abiti bizzarri come le comparse di La La Land che lo guardavano a occhi spalancati, nonostante il cappello bianco ben calcato sulla testa.
«Aspetta, voglio controllare se sono veramente cinque ore da Cornwall», dice. Posa la tazza di Starbucks con la scritta “Freddie” ed estrae il cellulare, «non voglio metterla giù dura, tipo guarda che passavo cento ore sul treno…». Ripone l’apparecchio: «Ecco, sono quattro ore e 15 minuti», precisa. Margot Robbie, producer e protagonista con Gosling/Ken del film Barbie, lo definisce «uno che pensa troppo. Ti dice una cosa e mezz’ora dopo torna e comincia: “Ti ricordi quello che ti ho detto? Ecco, volevo solo chiarire che… e bla bla bla”. Al che io gli faccio: “Ma perché ci stai ancora pensando?”».

Indossa stivali e giacca da lavoro e, a 42 anni, non nasconde delle piccole rughe intorno agli occhi. Nell’osservarlo, riesco a capire quel che diceva Nick Cassavetes quando lo ha arruolato per Le pagine della nostra vita. Il suo viso, aperto e smaliziato, ha quel tanto di «non convenzionale» che basta a ricordarci come la storia dell’affermazione di quest’acclamato idolo non era proprio prevedibile. Nonostante sullo schermo abbia più volte indossato i panni del violento, nella realtà è una via di mezzo tra una persona riservata e una molto timida. «È un uomo dolce», chiosa Emily Blunt. «Gli piace fare il detective ed è più riflessivo che macho». Ormai la gente lo riconosce. Sul treno, gli smartphone spuntano dalle file con angolazioni innaturali e il bigliettaio del nostro vagone continua a passare per offrirgli degli snack.

Barbie è un ambizioso kolossal estivo dedicato alle generazioni di bambine e bambini cresciuti con questa bambola, ma al contempo propone nuove e sofisticate politiche di genere, il senso dell’impermanenza e, in apertura, un ironico omaggio a 2001: Odissea nello spazio di Kubrick. Gosling interpreta Ken, l’adorante bambolotto che orbita intorno a Barbie/Margot Robbie. Non c’era molto di Ken prima che lui e i registi cominciassero a occuparsene. «Il lavoro di Ken è la spiaggia», evidenzia Gosling, «lo è stato per 60 anni. Ma che cazzo significa?».

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Greta Gerwig, co-sceneggiatrice del film insieme al partner Noah Baumbach, sottolinea come abbiano cercato di trovare una sorta di delicato equilibrio nel tratteggiare Ken e dare un senso al racconto: renderlo divertente, perché tratta di bambole, senza privarlo di una buona dose di sofferenza e pathos, perché, beh... è una storia sulle bambole. In mezzo c’è Ken, messo sempre in secondo piano, che di conseguenza è il più divertente e triste di tutti. Perché è stato scelto proprio Gosling? Perché, svela Gerwig, «c’è qualcosa di speciale nel suo modo di recitare, anche quando è buffo. Inoltre, non è il tipo che fuori dai panni del suo personaggio lo commenta oppure lo giudica. Non cerca di darti a intendere quanto sappia che sono stupidaggini. Fa proprie tutte le potenziali mortificazioni e umiliazioni del suo doppio».

Alcune persone con cui ho parlato, compreso Gosling, si sono dette non tanto sconcertate quanto curiose di sapere come sia finito in un film prodotto dalla Mattel su un giocattolo per bambini. Perfino Margot Robbie ci scherza su: «Ci siamo detti: “Beh, ha recitato in un film intitolato First Man... poi un altro The Gray Man... Forse è pronto a fare Barbie! Magari, vuole cimentarsi proprio con l’esatto contrario!”». In parte però, ammette lui stesso, ha deciso di farlo proprio perché si tratta di giocattoli per bambini e anche le sue figlie giocano con Barbie e Ken. «Un giorno l’ho trovato sbattuto a faccia in giù nel fango, accanto a un limone spremuto», racconta, «e ho pensato che la sua storia doveva essere raccontata».

Un altro motivo per cui è stato attratto dal film è legato, in un certo senso, alle 4 ore e 15 minuti di quel treno che prendeva, tutto solo, per andare alle audizioni. Gosling parla spesso di questo momento della sua vita. Ecco allora un telegrafico resoconto. La sua città, Cornwall, puzzava di uova marce a causa della cartiera in cui lavoravano suo padre e alcuni zii. I genitori si sono separati. È cresciuto tra i seguaci del mormonismo. Non aveva molti amici né amava la scuola. Uno zio faceva le imitazioni di Elvis e sono stati i suoi spettacoli a fargli venire voglia di salire sul palco. «Ho visto una porta numero tre con stampato sopra un punto interrogativo, una possibile altra via», racconta, «e sono entrato».

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Lo zio gli ha aperto uno spiraglio sull’arte, gli ha fatto capire come possa trasformare sia chi la fa sia chi la guarda. Gosling lo aiutava e ogni volta lo vedeva diventare un’altra persona, diversa, traboccante di vita. Ai talent show di contorno dei suoi spettacoli, poi, partecipavano persone della comunità locale, e «tutti avevano un talento segreto. Per darti un’idea, il ragazzo addetto a imbustare la spesa al supermarket fa una versione di Black Velvet che fa venire giù la sala… Di colpo ti rendi conto che quello è davvero lui, mentre il tizio impegnato a preparare i sacchetti al supermarket è la sua parte recitata».

In quegli anni inizia a chiedersi quale sia il proprio talento. Per trovare risposta, sale sul suo treno e comincia a sostenere provini che, a 12 anni, lo portano a un casting per il film Disney The All-New Mickey Mouse Club, accanto a Justin Timberlake, Christina Aguilera e Britney Spears. A differenza dei coetanei, però, non si fa notare. «Erano pazzeschi, e io non ero certo un bambino prodigio. Non sapevo perché mi trovassi lì e credo che questa fosse l’opinione di tutti. Così non sono stato preso; mi hanno solo vestito da criceto o mi hanno messo sullo sfondo della canzone di qualcuno di loro… Eppure, in un certo senso è stata una grande esperienza. Mi ha fatto capire in cosa non funzionassi, un dato non affatto trascurabile per chi vuole imparare».

Nel tempo la vera dote di Gosling si è rivelata la capacità di dare vita alla figura del giovane uomo tormentato e profondo che attraversa molti dei suoi film indipendenti. Dentro di lui, però, il cuore del bambino vestito da criceto a Orlando che si esibiva per chiunque lo guardasse, non ha mai smesso di battere.
Quanto segue, frutto di un nostro scambio, sono parole che condivido più o meno alla lettera, perché credo racchiudano molto di Ryan Gosling: lo scetticismo per la terapia surrogata in cui può trasformarsi un’intervista, l’istinto irrefrenabile di proteggersi, la sincera onestà che è davvero un suo tratto distintivo e un tempismo comico straordinariamente simile a quello dei personaggi portati sullo schermo.

Cominciamo, come spesso in questi casi, con una domanda un po’ scontata:

Cosa credi direbbe il giovane Ryan all’adulto che sei diventato?
«Prima di tutto, sarei io a dirgli: “Ehi, giovane Ryan, tranquillo. Questo tizio, Zach, mi ha chiesto di venire a parlare con te”».
[Risate]

«“Non chiedere come o perché, non ho tempo di risponderti. Siamo su un treno e sta per arrivare a destinazione; quindi, tempo non ce n’è… Comunque, sappi che sarai in un film su Barbie”».

A questo punto smette di recitare e continua: «Guarda, l’ironia della cosa è che non sono cresciuto guardando film indipendenti, eppure poi ne ho fatti un sacco. Non avevamo una sala d’essai nei dintorni e io non sapevo nulla di quel tipo di cinema, non avevo un vero quadro di riferimento, solo la mia formazione da Blockbuster».

Nel videonoleggio di Cornwall, «c’erano solo film commerciali, la maggior parte erano action o comedy, ed è da qui che è partita la mia voglia di recitare», racconta. «Sono fortunato ad aver girato così tanti film indipendenti, mi hanno permesso di imparare molto, ma sono felice di potere finalmente fare il cinema da cui è nata la mia ispirazione». Quindi... «cosa direbbe il ragazzo con cui vuoi che io parli? Beh, penso proprio che preferirebbe Barbie rispetto a The Believer».

Per quanto riguarda Ken, il personaggio senza pensieri e pieno di vitalità che interpreta nel film? «C’è qualcosa in questo Ken davvero vicino alla versione di me stesso da giovanissimo. Il ragazzo che si metteva i pantaloni Hammer, ballava al centro commerciale, profumava di Drakkar Noir e si faceva la frangia con l’Aqua Net. Gli sono debitore. Quando ho iniziato a fare film seri l’ho abbandonato frettolosamente anche se, in realtà, devo tutto a lui».

Gosling confessa di avere pensato spesso a quel ragazzo negli ultimi tempi: «Non sapeva cosa stesse facendo o perché, lo faceva e basta, e oggi è come se gli dovessi tutta la mia vita. Vorrei aver mostrato più gratitudine…». Mi racconta poi di aver trascorso molto tempo sul set di Barbie a stretto contatto con questa sua versione più giovane che, senza averne la minima idea, faceva tutto con estrema serietà. «Ho dovuto tornare indietro, ritrovare quel piccolo uomo, e dirgli grazie. E chiedergli aiuto».

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Oggi Gosling vive in una tranquilla cittadina nel Sud della California e cerca di lavorare a non più di un paio di film all’anno, visto che ogni volta si porta dietro la famiglia. La maggior parte del tempo, comunque, resta a casa. I parenti vengono a trovarlo, ma lui ed Eva Mendes non hanno una tata: qualsiasi cosa facciano, la fanno da soli. Ha una visione molto romantica della sua vita con le figlie e la moglie, un’esistenza che prima aveva un volto, ora un altro, «ma era ciò che cercavo». Consapevolmente?
«No, ma ora tutto ha senso».

Quando non sa come comportarsi come padre, e gli capita, cosa fa? «Conto su Eva», dice. «Lei sa cosa è importante, sempre. In qualche modo lo sa. Così, se sono in difficoltà, chiedo a lei».
In passato, la scintilla e l’ispirazione creativa Gosling le ha cercate anche in luoghi estremi. A partire da Detroit, dove andava regolarmente a filmare edifici in rovina e le cui atmosfere ha poi trasposto nel 2014 in un film da lui scritto e diretto, Lost River: un sogno di follia, un incubo, violento, paranoico e surreale di cui è orgoglioso. Al momento, osserva, «quel che succede a casa è molto più divertente e stimolante di tutto ciò in cui mi sono imbattuto quando ero là fuori, negli edifici abbandonati».

Dal 2018 non ha lavorato molto, è stato lontano dall’attenzione del pubblico anche se con Barbie le cose stanno per cambiare. Chiunque lo abbia visto in un talk show sa quanto sia carismatico nel ruolo di ambassador, un geniale promotore dei suoi progetti.
Tuttavia, non ama parlare di sé, lo dico perché me l’ha ripetuto di continuo mentre il treno correva lungo la costa. «Ovvio che lo fai, sai come vanno queste cose», mi risponde quando gli chiedo il perché di tale disagio. «Non mi è stato utile iniziare ad analizzarmi o a raccontare una storia sul perché o anche solo fingere di capirne tutti i meccanismi... Per lo più ho agito d’istinto. Come si fa in una escape room, vedi?».

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Alla fine, mi sommerge di domande, in parte, credo, perché è un ragazzo davvero gentile, o almeno educato e in qualche modo interessato; in gran parte, per evitare di essere lui l’interrogato. Parliamo di mio figlio di 14 mesi, chiede se il suo arrivo mi abbia cambiato: «Trovi che abbia influenzato il tuo lavoro, come lo fai o perché?». Poi, quando gli accenno che mia madre suonava la chitarra, mi bombarda di quesiti. Ha improvvisamente bisogno di sapere tutto: «Le mamme che suonano la chitarra, che figata! Stile Liona Boyd? Classica? Folk? Bello. Non si sente molto parlare di mamme chitarriste».

Secondo Emily Blunt, «osserva tutti nelle minime sfumature, in modo così acuto da darmi a un certo punto l’impressione che saranno risucchiati e inseriti in un film, diventeranno un personaggio». Anche lei ha avuto il mio stesso sospetto: «Sono convinta che sia una tecnica di depistaggio», dice ridendo, «e sono sicura di avergli raccontato molti più segreti di quanti lui me ne abbia confessati. In questo è piuttosto abile».

È affascinante, ma anche limpido. Se avete una certa età, ricorderete il delirio che si è scatenato una decina di anni fa, in particolare sul suo aspetto fisico, oggetto di infiniti post su Tumblr e di assetate conversazioni al bar. «Penso che la cosa lo imbarazzi», dice ancora Blunt a proposito di come il pubblico percepisce Gosling, un incrocio tra il fidanzato perfetto e l’uomo più cool in circolazione. «Perché non è quanto prova, la mia sensazione è che proprio non si percepisca così».

All’inizio della sua carriera, Gosling raccontava di essere cresciuto con una madre sola e attraente, di quanto lo mettesse a disagio il modo in cui le persone si rapportavano con lei e lo spaventasse l’energia predatoria degli uomini che incontravano. Per sua stessa ammissione, Lost River, con il ritratto di un ragazzo in cerca di sé e di una madre in difficoltà, interpretata da Christina Hendricks, esprimeva senza mezzi termini queste sue sensazioni. Ora, in maniera altrettanto diretta, dice di non avere mai fatto il collegamento tra la madre, sé stesso e l’attenzione che il suo aspetto ha cominciato a suscitare quando è diventato famoso. In qualche modo ha cercato di sviare questa attenzione, ma, non fatica ad ammetterlo, è stata un’esperienza alquanto «disorientante».

Ora, sembra ripetersi.
Dopo l’uscita di un trailer di Barbie, sui social media si è cominciato accanitamente a discutere se Gosling fosse o meno troppo stagionato, esageratamente cresciuto per interpretare Ken, e il dibattito, col tempo, è finito sulle pagine del New York Post (Gen Z “Barbie” Fans Slammed for Calling Ryan Gosling Too “Old” to Play Ken) e di molti altri tabloid. La sua risposta, all’inizio almeno, è diplomatica e un po’ divertita: «Direi che se la gente non vuole giocare con il mio Ken, beh, ne può trovare molti altri».

Più tardi, però, torna sull’argomento. «Che strana questa idea di dichiararsi scandalizzati, quasi moralmente offesi fino a creare hashtag tipo #notmyken», ironizza. «Qualcuno aveva mai pensato a Ken in questi termini?», chiede. Come ha detto prima, è un uomo il cui lavoro è la spiaggia… «No, certo, perché stava bene a tutti che lui avesse un lavoro da niente. Ma all’improvviso la musica cambia, diventa: “Oh no, ma noi ci siamo sempre preoccupati di Ken”. Non è vero. Non è mai importato a nessuno. Barbie non ha mai scopato con Ken, è questo il punto. Se a qualcuno importasse davvero di Ken, sarebbe il primo a rendersi conto come a nessuno importi di Ken. L’ipocrisia è stata smascherata e dunque la sua storia deve essere raccontata».

Si interrompe e ride. «Ora a me importa di questo tizio. Sono il suo rappresentante. “Ken non è potuto venire a ricevere questo premio, di conseguenza sono qui per accettarlo al posto suo”».

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Un giorno, al telefono, Greta Gerwig mi ha raccontato una storia. Prima dell’inizio delle riprese, lei e Robbie organizzano un pigiama party per le attrici che interpretano le varie Barbie. Anche i Ken sono invitati, ma Gosling non può venire. A metà serata qualcuno bussa alla porta. «Era uno scozzese in kilt», racconta Gerwig, «diceva di essere stato mandato da Gosling. Suona la cornamusa, legge un discorso da Braveheart e poi se ne va».

Quando chiedo a Gosling perché Braveheart, e perché proprio il momento in cui Mel Gibson dice a un gruppo di figli della Scozia che gli inglesi possono prendere le loro vite ma non prenderanno mai la loro libertà, mi risponde: «Beh, sai, a volte hai solo bisogno di sentirtelo dire». A detta di Gerwig, «lui riesce sempre a intuire al volo quale potrebbe essere la cosa più divertente da fare. E poi la fa».

Questo è il genere di cose che una regista dice del proprio attore quando è protagonista della sua commedia; ma, per quanto possa valere, ecco un riassunto più o meno completo di ciò che accade dopo. Scendiamo dal treno, parlando di tutto e di nulla: l’infanzia, le giacche Starter, il modo in cui giocare a fare i fighi può degenerare nella paura di mettersi in gioco. «Pensavi di vincere senza nemmeno provarci, o almeno facendo finta di non provarci», dice, «ma la cosa ti si ritorce contro, perché non ti impegni più per vincere... Alla fine ti rendi conto che perdere vuol dire semplicemente non provarci».

Annuisco, colpito dalla sua profondità, e lui, che sa di avermi in pugno, aggiunge: «E ti è bastato guardare Rocky per capire che provarci è vincere». Mi metto a ridere: è vero, quello che mi ha sempre ispirato è una piccola parafrasi del discorso che Rocky fa più o meno in ogni film della serie.

Entriamo in un ristorante non lontano dalla stazione, dove ci sono comodi séparé e poca gente. Mangiamo qualcosa e fuori il sole comincia a tramontare. È un posto tranquillo, più calmo del treno. Mentre arrivano i nostri piatti e il cameriere ci gironzola intorno, Gosling torna sul perché diffida di queste conversazioni che, sostiene, «possono sconfinare nella terapia. Una cosa che per ovvie ragioni non è un bene». O anche, sempre a proposito delle conversazioni, perché «danno l’impressione di entrare in jeans e uscirne in hot shorts da cui spunta la tasca ma non è l’unica cosa che si vede, capisci cosa voglio dire?».

Di nuovo mi metto a ridere e accetto, anche se non lo penso veramente, poi mi scuso e vado in bagno; al ritorno, lui ha già preso accordi per filarsela e quando mi siedo nel séparé ormai vuoto, il nostro cameriere arriva, con un’aria di scusa, portando tutti i dessert, più, per gentile concessione di Gosling, altri fuori menu, e uno dopo l’altro piazza sul tavolo porzioni e porzioni di gelato, mentre guardo il mio protagonista fuggire dalla porta principale.

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«Ho un po’ di rimorso per il nostro treno», mi dice qualche settimana dopo. «Credo che la sua natura nostalgica e il movimento ipnotico mi abbiano portato a rimuginare e a mitizzarmi più di quanto volessi».

Sullo schermo del mio computer, i capelli biondi alla Ken sono nascosti da un cappello con la pubblicità della Caterpillar. Dietro di lui, pannelli di legno, davanti la luce del sole arriva da un punto che non riesco a vedere. È domenica e Gosling si sta riprendendo dalle fatiche del giorno prima, compleanno di una delle figlie festeggiato con un gruppo di familiari. «Credo di aver preparato più di 30 pizze e 40 caffè espresso», racconta. «Visto che il mio patrigno è romano, forse tutte queste cose potrebbero aiutarmi a chiedere la cittadinanza italiana».

È pronto a sgattaiolare nel buio di una sala dove si tiene un'anteprima\ di Barbie e vedere il film per la prima volta con il pubblico. Prima, ha pronte per me alcune riflessioni sui suoi pensieri precedenti.
«Credo di aver parlato di edifici abbandonati, di capsule del tempo e di altre stronzate del genere. Queste cose vanno bene, credo, tra due che stanno facendo i papà su un treno, ma se le metti tra virgolette sopra la foto di un tizio in spolverino rosa e camicia strappata, beh allora il misuratore di stronzate rischia di saltare...». Vuole anche scusarsi. «Mi dispiace per tutto quel gelato, pensavo che lo potessi portare a casa…». Una pausa. «A cos’altro stavo pensando?». E poi si ricorda.

«Quando mi hai chiesto di Eva e dei bambini, credo di averti risposto di non avere pensato ai bambini finché non mi ha detto che era incinta. In realtà non è vero. Non volevo dire troppo, ma non voglio nemmeno travisare. È vero che prima di lei ai bambini non ci pensavo proprio, però dopo ho capito che non volevo avere figli senza Eva. Quando giravamo Come un tuono a volte facevamo finta di essere una famiglia, e io non volevo più che rimanesse una finzione. Ho capito che quella vita sarebbe stata la mia». Si tratta di un sentimento bello e genuino, perché non me l’ha esternato subito? «Non me la sentivo di entrare nel merito. Poi mi sono reso conto che stavo travisando la realtà».

Dall’ultima volta che ci siamo parlati, ho sentito al telefono alcune persone che lo conoscono, tra cui Harrison Ford, insieme al quale Gosling ha girato Blade Runner 2049, e che come lui è conosciuto a Hollywood per un approccio estremamente asciutto al lavoro. Ford mi ha parlato con piacere di un uomo che ammira ma non ha mai conosciuto veramente. «Forse una volta siamo andati a cena insieme», racconta, «ma al di là di questo è una gioia lavorare con lui. Entrambi non amiamo parlare di recitazione, ci piace semplicemente farlo. E lui è uno di quelli che arriva sul set e fa».

Insieme hanno lavorato per il film, lo hanno promosso e poi, a sentire Ford, non si sono più parlati. Gosling conferma. «L’ultima volta che l’ho visto, stavamo mangiando hamburger nel parcheggio dell’Apple Pan a LA dopo una proiezione di Blade Runner». L’idea, allora come oggi, dice Gosling, è di farlo, andarsene e non lasciare altre tracce. Parlare del nuovo film, entrare e uscire. Ora mi guarda e sospira come se non volesse che tutto il resto accadesse. «Insomma, volevo solo fare un giro sul Surfliner e parlare di Barbie, capisci?».



Foto di Gregory Harris
Styling di George Cortina

Grooming a cura di Shane Thomas @ the Milton Agency
Set design a cura di Heath Mattioli for Frank Reps
Produzione Alicia Zumback e Patrick Mapel @ Camp Productions