La storia riconoscerà che Israele ha commesso un olocausto

video e articoli di Susan Abulhawa, Piero Bevilacqua, Francesca Albanese, Amira Hass, Eric Salerno, Norberto Albano, Chris Hedges, Jason Burke, Peter Oborne, Mohammed El Kurd, Antoine Raffoul, Norman Finkelstein, Eman Hillis

La storia riconoscerà che Israele ha commesso un olocausto – Susan Abulhawa

In questo momento a Gaza e in Palestina sono le 20:00: è la fine del mio quarto giorno a Rafah e il primo momento in cui ho potuto sedermi in un posto tranquillo per riflettere.

Ho provato a prendere appunti, foto, immagini mentali, ma questo è un momento troppo grande per un taccuino o per la mia memoria in difficoltà. Niente mi aveva preparato a ciò a cui avrei assistito.

Prima di attraversare il confine tra Rafah e l’Egitto ho letto tutte le notizie provenienti da Gaza o su Gaza. Non ho distolto lo sguardo da nessun video o immagine inviata dal territorio, per quanto fosse raccapricciante, scioccante o traumatizzante.

Sono rimasta in contatto con amici che hanno riferito della loro situazione nel nord, nel centro e nel sud di Gaza – ciascuna area soffre in modi diversi. Sono rimasta aggiornata sulle ultime statistiche, sulle ultime mosse politiche, militari ed economiche di Israele, degli Stati Uniti e del resto del mondo.

Pensavo di aver capito la situazione sul campo. Ma non è così.

Niente può veramente prepararti a questa distopia. Ciò che raggiunge il resto del mondo è una frazione di ciò che ho visto finora, che è solo una frazione della totalità di questo orrore.

Gaza è un inferno. È un inferno brulicante di innocenti che boccheggiano in cerca di aria.

Ma qui anche l’aria è bruciata. Ogni respiro irrita la gola e i polmoni e vi si attacca.

Ciò che una volta era vibrante, colorato, pieno di bellezza, possibilità e speranza contro ogni aspettativa, è avvolto da un grigiore di sofferenza e sporcizia.

Quasi nessun albero

Giornalisti e politici la chiamano guerra. Gli informati e gli onesti lo chiamano genocidio.

Quello che io vedo è un olocausto, l’incomprensibile culmine di 75 anni di impunità israeliana per i ripetuti crimini di guerra.

Rafah è la parte più meridionale di Gaza, dove Israele ha stipato 1,4 milioni di persone in uno spazio grande quanto l’aeroporto di Heathrow a Londra.

Scarseggiano acqua, cibo, elettricità, carburante e provviste. I bambini sono privati della scuola: le loro aule sono state trasformate in rifugi di fortuna per decine di migliaia di famiglie.

Quasi ogni centimetro dello spazio precedentemente vuoto è ora occupato da una fragile tenda che ospita una famiglia.

Non è rimasto quasi nessun albero poiché le persone sono state costrette ad abbatterli per produrre legna da ardere.

Non ho notato l’assenza di verde finché non mi sono imbattuta in una bouganville rossa. I suoi fiori erano polverosi e soli in un mondo deflorato, ma ancora vivi.

La discrepanza mi ha colpito e ho fermato l’auto per fotografarla.

la bouganvillea sopravissuta a Gaza (Susan Abulhawa)

Ora cerco il verde e fiori ovunque vada, finora nelle zone meridionali e centrali (anche se nel centro è diventato sempre più difficile entrare). Ma ci sono solo piccole macchie d’erba qua e là e qualche albero occasionale che aspetta di essere bruciato per cuocere il pane per una famiglia che sopravvive con le razioni ONU di fagioli in scatola, carne in scatola e formaggio in scatola.

Un popolo orgoglioso con ricche tradizioni e consuetudini culinarie a base di alimenti freschi è stato ridotto e abituato a una manciata di impasti e poltiglie rimaste sugli scaffali per così tanto tempo che può essere avvertito solo il sapore metallico e rancido delle lattine.

Al nord è peggio.

Il mio amico Ahmad (non è il suo vero nome) è una delle poche persone che hanno Internet. Il segnale è sporadico e debole, ma possiamo ancora scambiarci messaggi.

Mi ha inviato una sua foto in cui sembrava l’ombra del giovane che conoscevo. Ha perso più di 25 kg.

Inizialmente le persone si sono ridotte a nutrirsi di mangime per cavalli e asini, ma è finito. Ora stanno mangiando gli asini e i cavalli.

Alcuni mangiano cani e gatti randagi che a loro volta stanno morendo di fame e talvolta si nutrono dei resti umani che ricoprono le strade, dove i cecchini israeliani hanno preso di mira le persone che hanno osato avventurarsi nel campo visivo dei loro mirini. I vecchi e i più deboli sono già morti di fame e di sete.

La farina è scarsa e più preziosa dell’oro.

Ho sentito la storia di un uomo nel nord che di recente è riuscito a mettere le mani su un sacco di farina (che normalmente costava 7 euro) e gli sono stati offerti gioielli, dispositivi elettronici e contanti per un valore di 2.300 euro. Ha rifiutato.

Sentirsi piccoli

A Rafah le persone si sentono privilegiate nel ricevere farina e riso. Te lo diranno e ti sentirai umiliato perché si offrono di condividere quel poco che hanno.

E ti vergognerai perché sai che puoi lasciare Gaza e mangiare quello che vuoi. Ti sentirai piccolo qui perché non sei in grado di fare davvero nulla per placare il bisogno e la perdita catastrofici e perché capirai che loro sono migliori di te, poiché in qualche modo sono rimasti generosi e ospitali in un mondo che è stato tanto e per così tanto tempo ingeneroso e inospitale nei loro confronti.

Ho portato tutto quello che potevo, pagando il bagaglio extra e il peso di sei bagagli e aggiungendone altri 12 in Egitto. Per me ho portato quello che stava nello zaino.

Ho avuto la lungimiranza di portare cinque grandi sacchi di caffè, che si è rivelato essere il regalo più apprezzato dai miei amici qui. Preparare e servire il caffè ai colleghi di lavoro del luogo in cui mi trovo è la cosa che preferisco fare, per la gioia assoluta che ogni sorso sembra portare.

Ma anche quello presto finirà.

Difficile respirare

Ho assunto un autista per trasferire sette pesanti valigie di rifornimenti a Nuseirat [campo profughi al centro della Striscia, ndt.], e lui le ha trasportate giù per alcune rampe di scale. Mi ha detto che portare quelle borse lo faceva sentire di nuovo umano perché era la prima volta in quattro mesi che andava su e giù per le scale.

Gli ha ricordato di quando viveva in una casa invece che nella tenda dove ora abita.

È difficile respirare qui, letteralmente e metaforicamente. Una foschia immobile di polvere, degrado e disperazione intride l’aria.

La distruzione è così massiccia e persistente che le particelle sottili della vita polverizzata non hanno il tempo di depositarsi. La mancanza di benzina ha portato le persone a riempire le loro auto di stearato, olio esausto che ha una combustione sporca.

Emette un odore particolarmente sgradevole e una pellicola che si attacca all’aria, ai capelli, ai vestiti, alla gola e ai polmoni. Mi ci è voluto un po’ per capire la fonte di quell’odore pervasivo, ma è facile riconoscere gli altri.

La scarsità di acqua corrente o pulita compromette l’igiene di chiunque di noi. Tutti fanno del loro meglio nella cura di sé stessi e dei propri figli, ma a un certo punto smetti di farci caso.

Ad un certo punto l’umiliazione della sporcizia è inevitabile. Ad un certo punto aspetti semplicemente la morte, proprio come aspetti anche un cessate il fuoco.

Ma la gente non sa cosa farà dopo il cessate il fuoco.

Hanno visto le foto dei loro quartieri. Quando vengono pubblicate nuove immagini provenienti dall’area settentrionale le persone si ritrovano insieme per cercare di capire di quale quartiere si tratti, o da chi fosse la casa ridotta in quel cumulo di macerie. Spesso questi video provengono da soldati israeliani che occupano o fanno saltare in aria le loro case.

Cancellazione

Ho parlato con molti sopravvissuti estratti dalle macerie delle loro case. Raccontano quello che è successo con espressione impassibile, come se non fosse capitato a loro; come se sia stata sepolta viva la famiglia di qualcun altro; come se i loro corpi straziati appartenessero ad altri.

Gli psicologi dicono che si tratta di un meccanismo di difesa, una sorta di intorpidimento della mente finalizzato alla sopravvivenza. La resa dei conti arriverà più tardi, se sopravvivranno.

Ma come si può affrontare la perdita dell’intera famiglia, mentre si osservano i corpi disintegrarsi tra le macerie e si avverte l’odore, mentre si attende il salvataggio o la morte? Come si fa a considerare la cancellazione totale della propria esistenza nel mondo: la casa, la famiglia, gli amici, la salute, l’intero quartiere e il paese?

Nessuna foto della tua famiglia, del tuo matrimonio, dei tuoi figli, dei tuoi genitori; anche le tombe dei tuoi cari e dei tuoi antenati sono state rase al suolo. Tutto questo mentre le forze e le voci più potenti ti diffamano e ti incolpano per il tuo miserabile destino.

Il genocidio non è solo un omicidio di massa. È una cancellazione intenzionale.

Di storie. Di ricordi, libri e cultura.

Cancellazione delle risorse di una terra. Cancellazione della speranza in e per un luogo.

Cancellazione come impulso alla distruzione di case, scuole, luoghi di culto, ospedali, biblioteche, centri culturali, centri ricreativi e università.

Il genocidio è la demolizione intenzionale dell’umanità di un altro. È la riduzione di un’antica società orgogliosa, istruita e ben funzionante a oggetti di carità privi di mezzi, costretti a mangiare l’indicibile per sopravvivere; vivere nella sporcizia e nella malattia senza nulla in cui sperare se non la fine delle bombe e dei proiettili che piovono sui loro corpi, sulle loro vite, sulle loro storie e sul loro futuro.

Nessuno può pensare o sperare in ciò che potrebbe accadere dopo un cessate il fuoco. Il massimo possibile delle loro speranze in questo momento è che i bombardamenti cessino.

È il minimo che si può chiedere. Un minimo riconoscimento dell’umanità dei palestinesi.

Nonostante Israele abbia tagliato l’energia e Internet i palestinesi sono riusciti a trasmettere in streaming l’immagine del loro stesso genocidio a un mondo che permette che questo vada avanti.

Ma la storia non mentirà. Ricorderà che nel 21° secolo Israele ha perpetrato un olocausto.

Susan Abulhawa è una scrittrice e attivista. Questo pezzo è stato scritto durante la sua visita a Gaza a febbraio e all’inizio di marzo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

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Il genocidio del popolo palestinese e la complicità dell’Europa – Piero Bevilacqua

Di fronte al genocidio – sì, genocidio, perché, come è ormai evidente, Israele persegue apertamente lo sterminio della popolazione palestinese – un richiamo al lontano passato delle guerre può farci percepire l’orrore in cui siamo precipitati.

Nella pagina della Storia d’Italia in cui narra la discesa di Carlo VIII nel nostro Paese, Francesco Guicciardini ci offre uno spaccato prezioso delle regole e dell’etica della guerra nel Medioevo. Colpito dalla ferocia con cui l’esercito francese aveva distrutto, a inizio invasione, un castello e gli abitati in terra d’Abruzzo, segnalava l’episodio come una terribile novità: «un modo di guerreggiare non usato da molti secoli in Italia». E rammentava le diverse regole con cui sino ad allora si concludevano le battaglie: «Nelle vittorie, in qualunque modo conquistate, l’ultimo dove soleva procedere la crudeltà de’ vincitori, era spogliare e poi liberare i soldati vinti, saccheggiare le terre prese per forza, e fare prigione gli abitatori perché pagassino le taglie, perdonando sempre alla vita degli uomini i quali non fussino stati ammazzati nello ardore del combattere».

Questa osservazione, che registra una realtà del 1494, getta una luce sinistra su quanto accade oggi a Gaza. Mostra una regressione di civiltà clamorosa. Là è in corso una guerra che per numero di morti civili, modalità di combattimento, forme di oppressione della popolazione civile (privazione di acqua, cibo, energia, medicinali, assistenza medica) fa impallidire per ferocia le guerre che si combattevano nel Medioevo, quando non esisteva un diritto europeo che regolasse i conflitti. A ispirare il comportamento dell’esercito israeliano è una inaudita efferatezza programmatica: bombardare indiscriminatamente gli abitati, gli ospedali, le scuole, le piazze dei mercati, gli accampamenti dei fuggiaschi e uccidere migliaia di cittadini per potere eliminare qualche centinaio di guerriglieri di Hamas. Anche se il fine ultimo, in realtà, è rendere inabitabile Gaza, non si può non osservare la differenza di comportamento perfino rispetto all’esercito nazista. La pratica della decimazione, messa in atto dalle truppe tedesche alla fine della seconda guerra in Italia, appare infinitamente più moderata. Col che non si vuol definire nazista l’esercito israeliano. Allo storico non è consentito pasticciare con le parole. E tuttavia, dal momento che, a ragione, si definiscono terroristi gli uomini di Hamas, per l’uccisione di tanti civili innocenti il 7 ottobre, come dovremmo definire i soldati di Israele che ne stanno uccidendo, per ormai evidente progettazione politica, un numero infinitamente superiore?

Ma un’altra grande novità, più tragica forse per i significati generali che ne emergono, è che oggi al massacro della popolazione di Gaza assistono pressoché i cittadini di tutto il mondo. In diretta e giorno per giorno. Forse non era mai accaduto che un eccidio di tali proporzioni assumesse i caratteri di uno spettacolo universalmente disponibile. Le immagini dei bambini col viso coperto di sangue, delle madri vestite di nero accasciate sulle macerie, dei morti trasportati a spalla, arrivano ormai dovunque e a chiunque, con sullo sfondo un cimitero di edifici sventrati e fumanti. Ebbene da queste certificazioni dell’orrore alla portata di tutti, da questa possibilità di essere contemporanei consapevoli di un eccidio che inciderà nella memoria del secolo, i governanti e gran parte dei politici europei, intellettuali, giornalisti, con l’Italia in prima fila, si sono mostrati avversi a sostenere un cessate il fuoco. Hanno deciso più volte e in vario modo di opporsi a che finissero i bombardamenti, a che potessero essere portati cibo, acqua, medicine, energia agli sfollati e ai feriti. Ora gli israeliani stanno negando all’ UNVRA (l’organismo dell’ONU per il soccorso ai rifugiati) di operare, bloccando l’accesso a Gaza dei tir carichi di viveri e medicinali. Di fatto, dunque le élite europee hanno contribuito e contribuiscono a che tanti feriti muoiano, tanti sopravvissuti periscano per stenti e fame, infezioni e malattie. È sommamente difficile negare che tale comportamento si configuri come una correità dell’UE con il Governo e con l’esercito israeliano.

Da questa constatazione discendono due conseguenze che sgomentano. La prima è che le dirigenze europee hanno raggiunto un grado così spinto di subordinazione agli interessi militari degli USA, da tradire ormai apertamente la volontà dei propri popoli, restringendo tanto la sovranità che la democrazia dei rispettivi Paesi; l’interesse imperiale di uno Stato straniero prevale su quello dei popoli che essi sono chiamati a rappresentare. L’altra inevitabile conseguenza è che tali élite si configurano apertamente come dei raggruppamenti criminali, perché violano il diritto internazionale e concorrono indirettamente alla morte di migliaia di persone innocenti. Criminale, dal tardo latino crimen, «azione inumana compiuta da membri delle forze armate in contrasto con le norme di diritto internazionale» o «da individui agenti come privati o come organi di uno Stato» (Zingarelli.) L’UE sta mostrando quale soglia di barbarie è disposta a varcare per restare al traino di un impero sanguinario in declino.

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Albanese, relatrice Onu: “Fondati motivi“ che Israele stia commettendo un genocidio a Gaza

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina, ha pubblicato un rapporto drammatico sulla guerra di Israele a Gaza, ribadendo che ci sono “fondati motivi” per ritenere che Israele stia commettendo un genocidio nell’enclave palestinese.

Albanese ha spiegato che le prove – raccolte da organizzazioni sul campo, rapporti investigativi e consultazioni con le popolazioni colpite – suggeriscono che Israele ha commesso almeno tre dei cinque atti elencati dalla Convenzione ONU che comportano l’accusa di genocidio.

Questi atti includono: “l’uccisione di membri del gruppo; il causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo; e l’infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita calcolate per portarlo alla distruzione fisica in tutto o in parte”.

Sul primo punto, Albanese ha osservato che Israele ha ucciso più di 30.000 palestinesi a Gaza dal 7 ottobre. Altri 12.000 risultano dispersi, presumibilmente morti sotto le macerie.

Più del 70% dei morti dichiarati sono donne e bambini e Israele non è riuscito a dimostrare che il restante 30% – maschi adulti – erano combattenti attivi di Hamas.

L’inasprimento del blocco di Gaza da parte di Israele sta provocando anche morti per fame, tra le quali quelle di 10 bambini al giorno.

Sul secondo punto, Albanese ha osservato che le forze israeliane hanno ferito più di 70.000 palestinesi e imprigionato migliaia di uomini e ragazzi palestinesi, sottoponendoli a torture e maltrattamenti.

Sul terzo punto, Albanese ha precisato che Israele ha distrutto o gravemente danneggiato la maggior parte delle infrastrutture vitali di Gaza, compresi ospedali e terreni agricoli.

La relatrice delle Nazioni Unite ha sottolineato che Israele ha utilizzato concetti del diritto umanitario internazionale – come scudi umani, danni collaterali e zone sicure – come copertura legale per commettere crimini di guerra a Gaza.

Per esempio, Albanese ha ricordato che Israele ha cercato di dipingere tutta la popolazione di Gaza come scudi umani, con i leader politici e militari israeliani di alto livello che hanno costantemente inquadrato i civili palestinesi come agenti di Hamas, “complici” o scudi umani, integrati con il movimento palestinese.

Israele ha “de facto trattato un intero gruppo protetto e le sue infrastrutture vitali come ‘terroristi’ o ‘sostenitori del terrorismo’, trasformando così ogni cosa e ogni persona in un bersaglio o in un danno collaterale, quindi uccidibile o distruggibile”, ha scritto.

Infine, Albanese ha avvertito che “in questo modo, nessun palestinese a Gaza è al sicuro per definizione. Questo ha avuto effetti devastanti e intenzionali, costando la vita a decine di migliaia di palestinesi, distruggendo il tessuto di vita di Gaza e causando danni irreparabili a tutta la sua popolazione”.

La reazione di Israele

La missione israeliana a Ginevra ha respinto l’accusa di genocidio avanzata dall’esperto dell’ONU, definendo le accuse come “oltraggiose” e “un’oscena inversione della realtà”, come ha riportato l’agenzia di stampa AFP. La missione diplomatica di Tel Aviv ha inoltre descritto il rapporto come “semplicemente un’estensione di una campagna che cerca di minare l’istituzione stessa dello Stato ebraico”.

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La crudeltà di Israele è nascosta dal suo decentramento – Amira Hass

Nella competizione sulla crudeltà, il premio va a chi è più bravo a nasconderla. Ciò rende Israele il grande vincitore e Hamas e i palestinesi i perdenti. La crudeltà di Israele ha diversi tratti che la nascondono a tutti tranne che alle sue vittime. Rendono facile per alleati come gli Stati Uniti e la Germania trattare Israele come una vittima del popolo che soggioga e continuare a vendergli armi.

La crudeltà nascosta di Israele funziona come la catena di montaggio di una fabbrica. Il suo prodotto finale: l’impoverimento, l’espropriazione e l’espulsione dei palestinesi come una questione ordinaria in tempi normali, e la distruzione, l’uccisione, l’espropriazione e l’impoverimento in tempo di guerra, non ha un produttore responsabile. Ci sono molti complici nella creazione del prodotto finale, tutti traendo autorità da una legge parlamentare o divina, o da sentenze della Corte Suprema. La responsabilità è dissipata e distribuita tra ciascuna parte dietro questa catena di montaggio. A causa della loro moltitudine, sono tutti esenti dall’essere definiti “crudeli”.

Ogni israeliano che sta lungo questa catena di montaggio e aggiunge un altro componente al prodotto che gli passa davanti è una persona normale, spesso qualcuno che è assolutamente gradevole, forse qualcuno che ha il senso dell’umorismo, rispetta i suoi genitori ed è appassionato di cinema. Anche gli ingegneri e gli amministratori coinvolti hanno attributi positivi.

Prendiamo l’esempio delle cisterne per l’immagazzinamento dell’acqua che le comunità palestinesi utilizzano (perché Israele si rifiuta di collegarle alla rete idrica) e che l’Amministrazione Civile, l’organo di governo israeliano in Cisgiordania, ha ordinato di distruggere, o dei serbatoi dell’acqua che ha confiscato. Una lunga catena di estranei ha creato il prodotto finale: sabbia e ghiaia versate per riempire la cisterna e assorbire la preziosa acqua. O lo spazio vuoto su cui un tempo sorgevano i serbatoi d’acqua.

Dopotutto, l’operatore del bulldozer che ha demolito o spostato il serbatoio dell’acqua incriminato deve sfamare i suoi figli. I membri della Polizia di Frontiera che si sono assicurati che nessuno interferisse con il bulldozer hanno obbedito agli ordini. Non hanno fabbricato il gas lacrimogeno o la granata stordente che hanno lanciato contro bambini e donne che hanno interferito con l’ordine pubblico. Coloro che li hanno realizzati erano lavoratori latinoamericani o afroamericani che dovevano anche loro sfamare i propri figli.

Il soldato/impiegato si limitava a coordinare lo schieramento delle varie unità all’alba. Il supervisore ha firmato il modulo di un ordine di demolizione di strutture costruite senza permesso o all’interno di aree dichiarate zone di fuoco militari, come se la cosa fosse comandata da Dio. Il giurista che ha approvato o addirittura scritto il testo dell’ordine di demolizione o di confisca è morto molto tempo fa, e i suoi nipoti se la passano bene negli Stati Uniti o nell’Unità di Intelligence d’élite dell’IDF.

Il capo dell’Amministrazione Civile in Cisgiordania è sia un soldato che un cittadino rispettoso della legge. Come i suoi predecessori, non chiuderà un occhio davanti al crimine di essere assetato commesso da un palestinese e dal suo gregge di pecore mentre vagano insolenti nella sacra Area C, che gli Accordi di Oslo hanno posto sotto pieno controllo israeliano e che avrebbero dovuto scadere nel 1999. Dopotutto, lui e i suoi predecessori non sono responsabili del caldo intenso nella Valle del Giordano…

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La morte solitaria di una donna sfollata – Eman Hillis

Suhaila era sola nel suo appartamento quando Israele ha iniziato la sua guerra genocida il 7 ottobre.

Tutto quello che poteva sentire erano i suoni delle esplosioni. Tutto quello che poteva fare era pregare per le persone che venivano martirizzate.

Prima di tornare a Gaza qualche anno fa, Suhaila aveva vissuto dieci anni in Egitto.

Era tornata perché voleva vedere i suoi nipoti e le sue nipoti. Non poteva immaginare quali orrori le sarebbero stati riservati

Suhaila, una donna di 63 anni costretta su sedia a rotelle, viveva nella zona di Sheikh Radwan a Gaza City. Era rimasta lì dopo che Israele aveva ordinato a tutti nel nord di Gaza – compresa Gaza City – di lasciare le proprie case durante i primi giorni della guerra.

La situazione a Sheikh Radwan era diventata sempre più grave, soprattutto dopo che Israele aveva inviato carri armati nella zona. Israele non ha mostrato pietà verso i bambini e gli anziani.

La violenza si era avvicinata sempre di più all’appartamento di Suhaila.

Tutto quello che poteva sentire erano le esplosioni, il suono delle sirene delle ambulanze, le urla della gente. I rumori erano così forti e intensi che pensava che sarebbe diventata sorda.

Quando ci fu una pausa, Suhaila sentì bussare alla sua porta.

“C’è qualcuno lì?” aveva chiamato una voce.

“Sì”, aveva risposto lei. “Io sono qui.”

La sua voce era debole e non riusciva ad alzarla.

I colpi alla sua porta continuavano e Suhaila continuava a dire “Sono qui”. Era riuscita a sedersi sulla sedia a rotelle.

Poco dopo la porta si era spalancata. Era apparso un uomo.

“Sei l’unica in questo appartamento?” aveva chiesto.

Suhaila aveva annuito. “Chi sei?” lei aveva chiesto.

L’uomo aveva spiegato di essere un impiegato della Protezione civile. Le disse che  doveva uscire velocemente dall’appartamento.

L’intero blocco, ha aggiunto, stava per essere preso di mira da Israele.

Suhaila era scioccata e arrabbiata per la notizia, ma aveva represso le sue emozioni. Chiese all’operatore della protezione civile di aiutarla a prendere due thobe dal suo armadio.

Poi aveva lasciato frettolosamente il suo appartamento.

Suhaila fu portata a Khan Younis, nel sud di Gaza. Andò a stare lì con i parenti.

La casa dei suoi parenti non era adatta a chi usa una sedia a rotelle.

Suhaila aveva bisogno di aiuto per andare in bagno. Dipendeva dai suoi parenti per cibo e acqua.

Non era rimasta a lungo a Khan Younis.

Non molto tempo dopo il suo arrivo, Israele aveva iniziato a bombardare la città, causando un’evacuazione su larga scala.

Suhaila si era diretta con i suoi parenti a Rafah, più a sud. Sfortunatamente, in mezzo al trambusto generale, era stata separata da loro

Sola per le strade di Rafah, Suhaila non aveva idea di cosa fare o dove andare. Un giovane era venuto in suo aiuto e l’aveva portata in una moschea.

Anch’io mi ero rifugiata nella stessa moschea. È stato lì che Suhaila mi ha raccontato cosa le era successo.

Alla moschea Suhaila si agitava parecchio.

Un’infermiera volontaria di nome Samah aveva notato che la salute di Suhaila stava peggiorando.

Quando a Suhaila era stato offerto del cibo, lei lo aveva rifiutato.

Nel suo stato di angoscia, aveva accusato altri nella moschea di aver tentato di ucciderla.

In un’occasione aveva accettato di mangiare un po’, dopo ore di persuasione. Aveva chiesto una mela e del cioccolato.

Ma nessuno dei due era disponibile nel mercato, e anche se lo fossero stati, sarebbero stati troppo costosi perché i rifugiati potessero permetterseli.

Una mattina presto, Suhaila aveva avuto una sferzata di energia. Aveva chiesto di andare in bagno e di cambiarsi i vestiti.

All’improvviso, aveva iniziato a vomitare.

È arrivata un’ambulanza e aveva portato via Suhaila.

Sulla strada per l’ospedale, Suhaila è morta. Non è stato celebrato alcun funerale.

Alcune persone potrebbero attribuire la morte di Suhaila a “cause naturali”.

O alla sua età.

O alla malattia.

Ma io sono convinta che sia morta di dolore.

È morta in un posto estraneo.

Aveva fame e sete e non aveva nessuno della sua famiglia accanto a lei.

(Eman Hillis è una scrittrice di Gaza)

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org

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Per Marwan Barghouti, eroe palestinese, carcere di massima sicurezza – Eric Salerno

«C’è un uomo che, forse, potrebbe unire le varie fazioni palestinesi in lotta contro l’occupazione israeliana e guidare quel popolo arabo verso la creazione di uno Stato indipendente accanto a Israele. Il nome di Marwan Barghouti è sulla lingua di amici e nemici da molti anni», introduce Eric Salerno, che lo ha conosciuto personalmente.
Il suo nome molte volte citato come possibile leader. L’ANP accusa Israele di mettere in pericolo la sua vita

Crudele accanimento

Quando incontrai Marwan Barghouti, anni fa, era un giovane attivista che sembrava capace di generare una nuova visione della lotta palestinese dominata, allora, dalla vecchia guardia capeggiata da Yasser Arafat, il leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Oggi langue in un carcere israeliano. E la settimana scorsa l’Autorità palestinese ha accusato Israele di aver messo in pericolo la sua vita. È stato trasferito in una struttura di massima sicurezza, non può ricevere visite e sarebbe stato torturato dalle sue guardie.

Violenza vendicativa da Non Stato

Sua moglie, l’avvocata Fadwa Ibrahim Barghouti, sostiene che «sarebbe stato picchiato con delle spranghe e ferito sul volto, vicino agli occhi». Le autorità penitenziarie israeliane negano ma di sicuro non gli consentono di ricevere visite o comunicare con l’esterno. Molte volte durante i suoi 22 anni di carcere aveva delineato una formula per unire le varie organizzazioni palestinesi perché si presentavano unire un’eventuale negoziato con Israele.

Divide et impera

«Fino a quando i palestinesi sono divisi tra Hamas, fondamentalisti islamici contrari all’idea stessa di uno stato ebraico e l’Autorità nazionale Palestinese, è inutile, impossibile, parlare di un futuro di pace», è stata la linea di Netanyahu e di altri governanti israeliani. Divide et impera, l’antica formula latina, è sempre valida. Netanyahu ei suoi seguaci avevano favorito la crescita strategica di Hamas nella striscia di Gaza e, in maniera meno riuscita, anche nella Cisgiordania occupata.

Il mostro cresciuto in seno

Oggi Netanyahu parla di un mondo palestinese senza Hamas ma la maggioranza degli osservatori internazionali concordano sul fatto che il movimento islamico, nonostante l’uccisione di migliaia dei suoi militanti e della distruzione della maggior parte del suo arsenale, è ormai parte integrante della società palestinese e lo sarà ancora per decenni.

Netanyahu si ripete

L’altro giorno la delegazione israeliana a Doha per i negoziati indiretti con Hamas è tornata a Tel Aviv mentre a Gaza le forze armate israeliane continuano le operazioni militari soprattutto nelle zone settentrionali della striscia. Netanyahu continua a ripetere che prima o poi ci sarà l’assalto a Rafah e a «quello che resta di Hamas». Parla soltanto di una breve pausa nei combattimenti per motivi umanitari e per la liberazione degli ostaggi israeliani.

Hamas, accordo lontano

«Siamo ancora lontani da un accordo. Israele – sostiene Hamas – non accetta la fine delle operazioni militari; limita a duemila al giorno il ritorno dei gazawi alle loro case o ai ruderi; per ogni ostaggio rilasciato è disposto a liberare soltanto cinque detenuti palestinesi e vuole deportare i detenuti con condanne lunghe fuori dal territorio palestinese». [Ripetiamo, questa prese di posizione precedono la svolta al Consiglio di sicurezza Onu Ndr].

Barghouti dopo 22 anni di carcere

Finora, per quanto emerso dal segreto delle trattative, il nome di Barghouti è stato fatto più volte e, più volte, Israele avrebbe risposto con un secco no a una sua eventuale liberazione. Il timore della moglie e dei dirigenti palestinesi è che dopo 22 anni di detenzione possa morire in carcere come avvenuto in questi ultimi mesi ad altri tredici detenuti per i quali le autorità israeliane hanno dichiarato il decesso ‘per cause mediche’.

In un’istanza inviata al procuratore Avigdor Feldman, Barghouti ha dichiarato di non ricevere cibo in quantità adeguata, di esser costretto a dormire sul pavimento e di esser stato ripetutamente picchiato mentre era bendato, umiliato, trascinato nudo per terra in presenza di altri detenuti.

Più che pena, un martirio crudele

Marwan Barghouti fu arrestato la prima volta a 18 anni, nel 1978, e condannato a sei anni di detenzione. Imparò l’ebraico in carcere, studiò storia e scienze politiche all’università di Bir Zeit, nella Cisgiordania occupata, e fu tra i fondatori di Shabiba, l’organizzazione giovanile di Fatah nei Territori, particolarmente attiva in quell’ateneo negli anni Ottanta.

Emerse come figura carismatica nella Prima intifada (1987-1993) e venne deportato in Giordania nel 1987 con la moglie ei due figli: la famiglia restò in esilio per sette anni e rientrò in Cisgiordania nel 1994, dopo la firma degli Accordi di Oslo.

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Israele e la pacificazione globale – Norberto Albano

Quali sono le circostanze politiche globali che hanno permesso a Israele di mantenere cinque decenni di occupazione di fronte a una comunità globale che formalmente sostiene il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale e di poter proporre a più riprese un modello sofisticato di apartheid come esempio di pacificazione interna ed esterna dei confini nazionali?

Molti hanno provato a rispondere a questa domande, ma una risposta particolarmente convincente ha a che fare con il ruolo di Israele nell’”industria della pacificazione globale”, un termine coniato dall’antropologo e attivista Jeff Halper nel suo libro del 2015 War Against the People: Israel, the Palestinians and Global Pacification[1]La tesi sostenuta da Halper, grazie anche ad uno studio analitico della tecnologia militare israeliana, è che uno stato così piccolo (attualmente con meno di 10 milioni abitanti) è riuscito ad essere una potenza economica (e politica) globale grazie alla capacità di ritagliarsi un ruolo di primo piano in particolari “nicchie” economiche fondamentali per la tenuta complessiva del capitalismo odierno e futuro, come quella delle guerre ibride e securocratiche.

In particolare, spiega Halper che l’occupazione non rappresenta un peso finanziario per lo Stato, ma esattamente il contrario, dato che la Palestina è un inestimabile campo di prova per nuove attrezzature militari al servizio dello stato di Israele e di altre forze armate in tutto il mondo.

Un testo più recente del giornalista Antony Loewenstein – The Palestine Laboratory: how Israel exports the technology of occupation around the world – è una raccolta aggiornata ricca di fonti in linea con le tesi di Halper, che illustra bene come Israele sia potuto diventare uno dei primi dieci esportatori di armi a livello mondiale con circa il 10% della forza lavoro coinvolta nel commercio di armi, con esportazioni relative alla “difesa” che hanno raggiunto un record storico nel 2022 di 12,546 miliardi ed imprese nel settore della cibersicurezza che hanno raccolto 8,8 miliardi di dollari nel 2021, rappresentando il 40% del finanziamento mondiale nel settore.

Questi primati economici sono il frutto di un lungo percorso in cui Israele ha tessuto relazioni economiche e politiche internazionali senza “guardare in faccia nessuno”, ovvero esportando armi, tecnologie ed addestramenti militari a paesi che le categorie politiche occidentali non esiterebbero a definire dittature, tra cui: il regime di Pinochet in Cile, dove Israele addestrò il personale e divenne un importante fornitore di armi dopo l’embargo degli Stati Uniti nel 1976; la Colombia, dove sia Israele che gli Stati Uniti addestrarono e armarono squadre della morte; il Guatemala negli anni ’70 e ’80 durante la guerra civile, dove Israele fornì copertura militare e installò un sofisticato centro di ascolto informatico per monitorare l’attività antigovernativa; il Nicaragua, dove armò il regime Somoza fino al suo collasso nel 1979 e si unì agli Stati Uniti contro i sandinisti; l‘Argentina durante la dittatura militare (1976-1983), dove Israele fornì armi al regime; Haiti dove fornì armamenti alla dinastia Duvalier (1957-1986); l‘Indonesia, dove dopo l’epurazione dei comunisti nel 1965-1966 Israele cercò di approfondire i legami con il regime di Suharto. Israele ha tessuto una rete globale di relazioni economico-militari davvero immensa di circa 130 paesi.

Questo spiega parzialmente come mai, nonostante “denunce e rimproveri” da mezzo mondo, Israele può continuare impunemente un genocidio ed un’occupazione militare che durano ormai da più di mezzo secolo: la “comunità internazionale” per alcuni aspetti dipende dallo stato d’Israele. Questa dipendenza lungi dall’essere una semplice compravendita di armi sofisticate, è piuttosto la capacità di vendere un modello di “pacificazione” testato e perfezionato sul campo. Ma cosa si intende per “pacificazione”?…

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«In solidarietà con il popolo e gli scrittori palestinesi non parteciperemo al PEN World Voices Festival»

Il Poet Essayist Novelist o PEN, fondato nel 1922 e con sede a New York, è un’organizzazione storica che ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla tutela della libertà di espressione negli Stati Uniti e nel mondo attraverso la promozione della letteratura e dei diritti umani. PEN America è il più grande degli oltre 100 centri PEN in tutto il mondo che insieme compongono PEN International. L’attività di advocacy di PEN America si estende alla censura in ambito educativo, alla libertà di stampa e alla sicurezza degli scrittori, alla libertà di parola nei campus, alle molestie online, alla libertà artistica e al sostegno alle regioni del mondo in cui la libertà di espressione è messa a dura prova. PEN America si batte anche per singoli scrittori e giornalisti imprigionati o minacciati per il loro lavoro e presenta ogni anno il PEN/Barbey Freedom to Write Award.
Fulcro della programmazione annuale di PEN America è il PEN World Voices Festival, uno degli eventi letterari di più alto profilo al mondo che celebra per
 un’intera settimana la letteratura internazionale e si svolge a New York e Los Angeles ogni aprile-maggio dal 2005. La sua ventesima edizione, tuttavia, rischia di essere la più difficile mai registrata, dal momento che negli ultimi tre mesi l’organizzazione è rimasta impantanata nelle polemiche. A gennaio, due importanti scrittori hanno tagliato i ponti con il PEN America per la sua decisione di schierare la controversa attrice e dichiarata oppositrice del cessate il fuoco in Palestina Mayim Bialik a un evento PEN Out Loud a Los Angeles. La scrittrice palestinese-americana Randa Jarrar è stata poi allontanata con la forza da tale evento il 31 gennaio. Una settimana dopo, un gruppo di 600 scrittori e poeti ha firmato una lettera aperta per condannare il relativo silenzio del PEN su Gaza. La lettera ad oggi è stata firmata da oltre 1300 scrittori, tra cui Roxane Gay, Lauren Groff, Marie-Helene Bertino, Kiese Laymon, Saeed Jones, Carmen Maria Machado, Solmaz Sharif, Tommy Pico, Laura van den Berg e Nana Kwame Adjei-Brenyah. A queste iniziative segue la lettera aperta qui pubblicata, sottoscritta, tra gli altri da Naomi Klein, Hisham Matar e Maaza Mengiste che invita altri scrittori e scrittrici a riconsiderare la loro partecipazione al PEN World Voices Festival del 2024(la redazione)

Ognuno di noi è stato invitato a partecipare al festival PEN World Voices di quest’anno a New York, come relatore, moderatore e come co-presidente onorario. Abbiamo deciso di non partecipare. Questa lettera spiega perché la nostra coscienza non ci lascia altra scelta.

Avremmo accolto con piacere la prospettiva di riunirci con i nostri colleghi di tutto il mondo per condividere intuizioni e unire le nostre forze, che è il motivo per cui la maggior parte di noi ha accettato l’invito a partecipare al PEN World Voices Festival quando è stato inizialmente esteso. Pur sapendo che il PEN America è stato spesso assente quando il discorso palestinese era sotto attacco, speravamo che la situazione stesse cambiando. Tuttavia, nei mesi successivi a quell’invito iniziale, abbiamo concluso che la partecipazione al festival di quest’anno sarebbe servita solo a contribuire all’illusione che il PEN America sia veramente dedito alla «difesa della libertà di parola al centro della lotta dell’umanità contro la repressione», come ha affermato. Nel contesto della guerra in corso a Gaza da parte di Israele, riteniamo che il PEN America abbia tradito l’impegno per la pace e l’uguaglianza per tutti e per la libertà e la sicurezza degli scrittori ovunque professato dall’organizzazione.

Lo statuto del PEN, adottato nel 1948, afferma che è dovere dei membri del PEN «fare del proprio meglio per dissipare tutti gli odi e sostenere l’ideale di un’unica umanità che viva in pace e uguaglianza in un unico mondo». Purtroppo, è diventato dolorosamente chiaro che, per il PEN America, la Palestina continua a rappresentare un’eccezione a questo ideale. I poeti, gli studiosi, i romanzieri, i giornalisti e i saggisti palestinesi hanno rischiato tutto, comprese le loro vite e quelle delle loro famiglie, per condividere le loro parole con il mondo. Eppure il PEN America sembra non essere disposta a schierarsi con loro con fermezza contro le potenze che li hanno oppressi ed espropriati negli ultimi 75 anni.

Come sapete, attualmente è in corso un’implacabile campagna genocida contro i palestinesi di Gaza, un orrore che è stato filmato quotidianamente e trasmesso in diretta in tutto il mondo. Più di 100.000 persone sono state ferite e più di 30.000 uccise, tra cui oltre 12.000 bambini. Più del 70% delle case di Gaza sono state danneggiate o distrutte, lasciando più di un milione di persone senza casa in una terra dove nessun luogo è al sicuro dai droni, dai missili, dalle bombe e dai proiettili di Israele, in parte pagati e forniti dal Governo degli Stati Uniti. A gennaio, la Corte internazionale di giustizia ha ritenuto plausibile che l’assedio di Israele a Gaza possa equivalere a un genocidio e ha ordinato «misure immediate ed efficaci» per proteggere i palestinesi nei territori occupati, garantendo un’assistenza umanitaria sufficiente e consentendo i servizi di base. Dopo la sentenza della Corte internazionale di giustizia, altre migliaia di adulti e bambini palestinesi sono stati uccisi; Israele non solo si è rifiutato di facilitare aiuti adeguati, ma li ha addirittura ostacolati. Centinaia di migliaia di persone sono a rischio di carestia e un numero crescente di bambini e anziani muore per malnutrizione e disidratazione anche dopo essere sopravvissuto al bombardamento delle proprie case. Nonostante tutto questo, il PEN America ha rifiutato di unirsi alle altre principali organizzazioni per i diritti umani e ai funzionari delle Nazioni Unite nella richiesta di un cessate il fuoco immediato e incondizionato.

Questa mancanza è particolarmente sorprendente alla luce dello straordinario tributo che questa catastrofe ha richiesto in ambito culturale. Israele ha ucciso, e a volte deliberatamente preso di mira e assassinato, giornalisti, poeti, romanzieri e scrittori di ogni genere. Ha distrutto quasi tutte le forme di infrastrutture culturali che sostengono la pratica della letteratura, dell’arte, dello scambio intellettuale e della libertà di parola, bombardando e demolendo università, centri culturali, musei, biblioteche e centri stampa. Interrompendo l’accesso alla comunicazione digitale, Israele ha anche impedito ai palestinesi di condividere ciò che hanno visto e vissuto e di raccontare la verità su ciò che sta accadendo loro. Tutti coloro che usano il potere della penna e della libertà di parola per fare appello alla coscienza del mondo sono a rischio. In meno di cinque mesi, Israele ha ucciso quasi cento giornalisti e operatori dei media, più che nei due decenni di guerra in Afghanistan e più che nell’anno più letale della guerra in Iraq. Israele ha anche ucciso quasi cento accademici e scrittori. Se organizzazioni come PEN America si aggrappano all’illusione della neutralità politica di fronte a un chiaro tentativo di distruggere vita e cultura palestinesi, ci si può solo chiedere se a Gaza rimarranno scrittori in grado di raccontare la storia della loro apocalisse, o delle cui parole e discorsi fidarsi, quando finalmente le uccisioni finiranno. O se rimarrà qualche traccia della storia che hanno vissuto…

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Chris Hedges: La PEN America si autodistrugge

Nel maggio 2013 mi sono dimesso dal PEN America per la nomina dell’ex funzionario del Dipartimento di Stato Suzanne Nossel. Un decennio dopo, il PEN America è diventato un braccio di propaganda dello Stato.

PEN America, un tempo importante sostenitore dei diritti di scrittori, editori e artisti, sotto la direzione dell’ex funzionario del Dipartimento di Stato Suzanne Nossel, ha abbandonato la sua missione, distrutto la sua credibilità e provocato una rivolta tra i suoi membri.

Il suo rifiuto di condannare il genocidio a Gaza e le uccisioni mirate di scrittori, accademici e giornalisti da parte di Israele ha visto numerosi scrittori ritirarsi dall’annuale PEN World Voices Festival di New York e Los Angeles, in programma ad aprile e maggio. Il PEN America non solo non ha denunciato il genocidio, ma fornisce piattaforme agli israeliani che usano un linguaggio razzista e disumanizzante per descrivere i palestinesi. Mette sulla lista nera coloro che sostengono il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni. Il PEN America funge da braccio di propaganda per l’amministrazione Biden e il governo ucraino – compreso il divieto di partecipazione di scrittori russi a un evento del PEN lo scorso maggio. Ha ripetuto false accuse contro Julian Assange e ha rifiutato di considerarlo un giornalista.

PEN America promuove l’agit-prop. È la nostra versione dell’Unione degli Scrittori Sovietici. Le violazioni dei diritti umani da parte dei nostri nemici sono crimini efferati e le nostre, e quelle dei nostri alleati, vengono ignorate o sbianchettate. Scrittori ed editori, come Assange, che denunciano le menzogne e i crimini dello Stato, vengono screditati, mentre i propagandisti dell’imperialismo statunitense e dello Stato di apartheid di Israele – che pure compie genocidi – vengono esaltati.

Angela Flournoy e Kathleen Alcott hanno annullato la loro partecipazione all’evento “New Year, New Books” del PEN a gennaio a causa dell’invito del PEN a Mayim Bialik, che Flournoy ha spiegato essere impegnata in una “disumanizzante propaganda anti-palestinese e nel radunare i suoi cinque milioni di seguaci alla causa dell’esercito israeliano”.

All’evento di Bialik a Los Angeles, a febbraio, la scrittrice palestinese-americana Randa Jarrar è stata allontanata con la forza dalla sala per aver protestato.

Alcott ha scritto in un’e-mail a PEN America “…se mi sforzo di trovare due menzioni [sul feed twitter di PEN America] della parola Palestina, una in riferimento a un op-ed di Newsweek che incoraggia una neutralità veramente impotente e anti-storica (così come, probabilmente, una certa islamofobia interiorizzata)”.
Più di 600 scrittori, tra cui Roxane Gay e Nana Kwame Adjei-Brenyah, hanno firmato una lettera aperta il mese scorso, chiedendo che “il PEN… prenda una posizione reale contro un genocidio reale”.

Il PEN America è un burattino degli Stati Uniti e di Israele. Nossel ha accettato finanziamenti dal governo israeliano – che abitualmente censura e incarcera giornalisti e scrittori palestinesi in Israele e nella Cisgiordania occupata e assassina loro e le loro famiglie a Gaza – per il festival annuale World Voices del gruppo letterario a New York.
Questi finanziamenti sono cessati solo nel 2017, quando più di 250 scrittori, poeti ed editori hanno chiesto di porre fine alla partnership dell’organizzazione con il governo israeliano. Tra i firmatari figurano Wallace Shawn, Alice Walker, Eileen Myles, Louise Erdrich, Russell Banks, Cornel West, Junot Díaz e Viet Thanh Nguyen.

PEN America, come altre organizzazioni per i diritti umani, è stata dirottata da personaggi come Nossel e dai loro finanziatori, rinunciando alla propria indipendenza e integrità.
I tiepidi tentativi dell’organizzazione di fronteggiare la rivolta – ha emesso una risposta piena di banalità, come esprimere “il nostro dolore e la nostra angoscia per le sofferenze patite da così tanti civili palestinesi a Gaza” – sono un’ulteriore prova della sua vacuità morale.
Nossel ripete le calunnie usate per screditare Assange, l’editore di WikiLeaks che rischia l’estradizione negli Stati Uniti per scontare potenzialmente una condanna a 175 anni in base alla legge sullo spionaggio.
“Il fatto che Assange sia un giornalista o che WikiLeaks si qualifichi come un organo di stampa è irrilevante per i capi d’accusa qui esposti”, ha dichiarato Nossel.

Nossel, avvocato, ha fatto parte della task force del Dipartimento di Stato creata per affrontare le pubblicazioni di WikiLeaks. Sa bene che la questione se Assange sia o meno un giornalista non è irrilevante. È cruciale. Lo sforzo degli Stati Uniti per estradare Assange si basa sul fatto di negargli lo status di editore o giornalista e di negare a WikiLeaks lo status di testata giornalistica. Se Assange viene estradato e dichiarato colpevole, il precedente criminalizzerà qualsiasi giornalista che possieda o pubblichi materiale classificato.

Nossel ripete le accuse del governo statunitense contro Assange, tra cui quella di aver messo in pericolo vite umane non redigendo i documenti, di aver violato un computer del governo e di essersi intromesso nelle elezioni del 2016 – accuse che sono false. PEN America, sotto la sua direzione, ha inviato notizie con titoli come: “Rapporti di sicurezza rivelano come Assange abbia trasformato un’ambasciata in un posto di comando per l’ingerenza nelle elezioni”.

Il PEN America, dopo forti pressioni, ha infine dichiarato che Assange non dovrebbe essere estradato. La richiesta di estradizione si è rivelata difficile dopo che il New York Times, il Washington Post, il Guardian, Le Monde, Der Spiegel e El País hanno pubblicato una dichiarazione congiunta in cui si chiedeva di far cadere le accuse contro Assange. Anche i centri PEN di tutto il mondo hanno denunciato il procedimento di estradizione. Nossel, tuttavia, ha fatto a lungo parte del linciaggio di Assange.

Nel maggio 2019 la Nossel ha dichiarato al Brian Lehrer Show della WNYC che Assange è andato “al di là di quello che farebbe un’agenzia di stampa tradizionale”. Ha definito le pubblicazioni di WikiLeaks “massicce e spropositate” e ha incolpato Assange di non aver redatto i nomi.

Assange, infatti, ha contattato il Dipartimento di Stato per avvertirlo che i cablogrammi completi e non redatti stavano per essere pubblicati da una terza parte, ha esortato il Dipartimento di Stato a prendere provvedimenti e si è offerto di assisterlo in tal senso. Alla fine è stato il governo degli Stati Uniti a decidere di non fare nulla.

PEN America era un tempo gestita da scrittori che si dedicavano alla difesa dei perseguitati in tutto il mondo, indipendentemente dal governo che li perseguitava. Ho conosciuto alcuni di questi scrittori, tra cui Susan Sontag, Norman Mailer e Russell Banks. Erano feroci critici del militarismo statunitense, paladini della libertà di espressione e accesi sostenitori dei perseguitati e degli oppressi.

Nossel non rappresenta nessuno di questi ideali. È un’ex avvocato d’impresa, elencata come “collaboratrice” della Federalist Society, che ha lavorato per McKinsey & Company e come vicepresidente dello sviluppo commerciale degli Stati Uniti per Bertelsmann. Il suo disastroso mandato di un anno come direttore esecutivo di Amnesty International l’ha vista trasformare l’organizzazione per i diritti umani in una cheerleader delle guerre statunitensi in Iraq e Afghanistan. Nel maggio 2012, quando la NATO ha tenuto il suo “vertice” a Chicago, ha sponsorizzato un “vertice ombra” e ha disseminato la città di cartelloni alle fermate degli autobus con la scritta “NATO, Keep the Progress Going. Diritti umani per donne e ragazze in Afghanistan”. A quanto pare è stato troppo, anche per Amnesty International, e si dice che sia stata cacciata…

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Un funzionario dell’Unicef parla di “annientamento totale” dopo aver viaggiato per tutta Gaza – Jason Burke

James Elder descrive i bambini sull’orlo della morte e le famiglie alla disperata ricerca di acqua pulita, cibo e riparo

Un funzionario umanitario che ha viaggiato per tutta Gaza questa settimana ha descritto scene di “totale annientamento”, con “nulla rimasto” di quelle che un tempo erano città fiorenti e affollate nel territorio.

“La profondità dell’orrore supera la nostra capacità di descriverlo”, ha detto James Elder, portavoce del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef).

“Non appena attraversi il nord, vedi quel gesto universale di fame delle persone che si mettono le mani sulla bocca. Molti bambini, donne dai volti molto scarni. Nella [città di] Khan Younis c’è un totale annientamento.

“Non vedevo questo livello di devastazione in 20 anni che lavoro con le Nazioni Unite. La capacità di reazione delle persone nel nord è stata distrutta e nel sud è appesa a un filo”, ha detto Elder in un’intervista venerdì.

L’anziano ha detto di aver visto una dozzina di bambini “scheletrici” all’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia, nel nord di Gaza.

“Stiamo assistendo a gravi casi di malnutrizione… Bambini che sono sull’orlo della morte, solo pelle e ossa… e questi sono quelli che sono riusciti a raggiungere l’ospedale. C’è una vera paura per coloro che non possono”, ha detto Elder. “Questo è causato dall’uomo ed è prevenibile”.

Il personale medico dell’ospedale ha lavorato su turni di 36 ore e poi si è unito alle famiglie per cercare acqua pulita, cibo o riparo, ha detto Elder.

I commenti arrivano nel mezzo di un’attività diplomatica sempre più frenetica volta a porre fine alle ostilità a Gaza e a consentire che “un’ondata” di aiuti raggiunga il territorio dopo quasi sei mesi di guerra, durante i quali le forniture di beni di prima necessità sono state drasticamente tagliate.

 

Un rapporto dell’iniziativa IPC (Integrated Food Security Phase Classification) di questa settimana avverte che qualsiasi escalation della guerra potrebbe spingere metà della popolazione totale di Gaza sull’orlo della fame nel giro di pochi mesi. La carestia è imminente nel nord di Gaza, dove il 70% delle persone soffre una fame catastrofica, ha affermato l’IPC. Elder ha detto che c’è un massiccio sovraffollamento sulla strada costiera di Gaza, una delle poche arterie stradali esistenti nel territorio utilizzabili da camion e altri veicoli.

“Mentre percorri la strada costiera [da Rafah in direzione nord], vedi solo centinaia di migliaia di persone. Dormono per strada, sulla spiaggia, sulla sabbia dietro la spiaggia, in qualsiasi spazio disponibile”, ha detto.

La sua descrizione è stata supportata da molteplici interviste ad altri operatori umanitari e residenti nel territorio. La maggior parte descrive condizioni spaventose, servizi igienici assenti o limitati per un gran numero di persone, forniture alimentari inadeguate anche nelle aree più accessibili e un crollo su vasta scala dell’ordine pubblico.

 

Israele è ora sottoposto a pressioni senza precedenti affinché consenta l’ingresso di maggiori aiuti a Gaza. Si prevede che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite voterà venerdì una risoluzione sponsorizzata dagli Stati Uniti in cui si dichiara che “un cessate il fuoco immediato e prolungato” è “imperativo” per proteggere i civili e consentire la fornitura di aiuti umanitari.

I funzionari umanitari affermano che il numero degli aiuti consegnati via terra deve aumentare rapidamente e che deve essere sostenuto per un lungo periodo per avvicinarsi alla soddisfazione dei bisogni.

Israele nega di voler bloccare gli aiuti alimentari, ma le agenzie umanitarie affermano che i processi burocratici e i controlli sono lenti e opachi e che Israele non fornisce accesso o sicurezza sufficienti. Gli esperti affermano che i recenti sforzi per inviare aiuti via mare o tramite lanci aerei non sono efficaci e che i punti di ingresso che consentirebbero la fornitura diretta di aiuti alle aree più bisognose nel nord del territorio sono rimasti chiusi dall’inizio del conflitto.

 

Venerdì, il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha incontrato il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, per colloqui volti a garantire che maggiori aiuti arrivino a Gaza, in un contesto di rapporti sempre più tesi tra i due alleati sulla guerra.

Il sesto viaggio di Blinken in Medio Oriente dallo scoppio della guerra il 7 ottobre avviene mentre a Doha continuano i colloqui volti a garantire un cessate il fuoco nel conflitto.

“Il 100% della popolazione di Gaza sta sperimentando gravi livelli di insicurezza alimentare acuta. Non possiamo, non dobbiamo permettere che ciò continui”, ha detto Blinken in una conferenza stampa giovedì sera.

Si prevede inoltre che Blinken discuta dell’intenzione di Israele di lanciare un’offensiva di terra su Rafah, dove più della metà della popolazione di Gaza si sta rifugiando in alloggi di fortuna.

Netanyahu ha ripetutamente promesso di lanciare un attacco alla città, che secondo lui è l’ultima roccaforte di Hamas. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha affermato che ciò oltrepasserebbe una “linea rossa” per gli Stati Uniti.

La guerra è stata innescata da un attacco a sorpresa nel sud di Israele da parte dei militanti di Hamas che hanno ucciso 1.200 persone e preso circa 250 ostaggi, per lo più civili.

Più di 32.000 palestinesi sono stati uccisi nei successivi bombardamenti israeliani, per lo più civili, dicono le autorità sanitarie di Gaza.

Elder ha descritto la prospettiva di un attacco a Rafah come “terrificante”.

“Un’offensiva militare a Rafah sarebbe assolutamente catastrofica. Gli ultimi punti d’acqua e gli ultimi ospedali rimasti [a Gaza] sono lì e non c’è nessun altro posto dove andare. Khan Younis, Gaza City, sono completamente distrutte”, ha detto. “Rafah è l’ultima speranza di Gaza ed è assolutamente sconcertante che sia ancora in corso la conversazione su una potenziale operazione militare ”.

 

Trad. Rosario Citriniti – Invictapalestina.org

da qui

 

 

 

Al Jazeera racconta la storia del 7 ottobre che i media occidentali non raccontano – Peter Oborne

Un nuovo documentario rivela come il mainstream giornalistico si sia fatto megafono di accuse false e provocatorie

Persuasivo. Sobrio. Perspicace. Scrupoloso. L’unità investigativa di Al Jazeera ha prodotto un filmato che racconta quanto realmente accaduto il 7 ottobre.

Questo autorevole documentario non esita a descrivere nel dettaglio le atrocità e i crimini di guerra commessi da Hamas. Ma dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che molti dei resoconti spaventosi riferiti da fonti israeliane sono falsi.

Quelle storie fortemente provocatorie, che riguardassero accuse di stupro di massa o decapitazione e rogo di bambini, non erano supportate da prove o erano semplici bugie. Eppure, hanno preparato la strada alla ferocia omicida del successivo attacco israeliano a Gaza, che è stato ritenuto dalla Corte Internazionale di Giustizia un plausibile genocidio.

Al Jazeera analizza scrupolosamente come questi resoconti siano diventati di pubblico dominio. Ciò comporta che si approfondisca il ruolo della Zaka, l’unità israeliana di soccorso nelle emergenze, composta da paramedici addestrati che intervengono nei casi di atti terroristi e di omicidi.

Al Jazeera mostra come Zaka abbia fornito dettagli di atrocità mai avvenute, compresi bambini bruciati e decapitati, che hanno fatto notizia in tutto il mondo e sono stati utilizzati da Israele per ottenere il massimo effetto propagandistico e guadagnarsi simpatia.

Un dipendente della Zaka, Yossi Landau, ha detto ai giornalisti che Hamas ha bruciato vivi “due mucchi di 10 bambini ciascuno” in una casa nel Kibbutz Be’eri.

Questo racconto è stato ripreso dai media, ed è stato ripetuto dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in una conversazione con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden: “Hanno preso dozzine di bambini, li hanno legati, bruciati e giustiziati”.

Inchiesta fondamentale

Ma come mostra Al Jazeera, questi resoconti non erano veri. Un esame dell’elenco dei morti ha chiarito che due gemelli di 12 anni sono stati tragicamente uccisi quando la polizia e i soldati hanno fatto irruzione nella casa di Be’eri, ma non c’erano altri bambini in quel luogo, osserva il documentario.

Più in generale, l’elenco rivela che il 7 ottobre sono morti due bambini. Uno è stato ucciso da un proiettile sparato attraverso una porta, mentre l’altro è morto a seguito di un taglio cesareo d’urgenza dopo che la madre era stata colpita. Nessuno dei due è stato bruciato o decapitato.

Al Jazeera mostra anche che non ci sono prove serie a sostegno delle accuse di stupro diffuso e sistematico, esponendo i fatti noti e poi citando quanto ha dichiarato l’avvocato britannico Madeleine Rees della Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà, che ha detto: “Nessuna delle prove prodotte finora suggerisce che [lo stupro sia stato] diffuso e sistematico”.

Si tratta di un’inchiesta seria, misurata e fondamentale. Solleva un punto interessante e significativo: perché è stato lasciato ad Al Jazeera il compito di portare avanti questo lavoro?

Perché non lo ha fatto la BBCITNSky News? La famosa unità investigativa del Sunday Times? Tabloid di propaganda come il Daily Mail o il Daily Express? Fogli di grande impatto come il Times di Londra?

La risposta potrebbe essere semplice: gli stessi media mainstream britannici hanno svolto un ruolo significativo nel promuovere e sostenere i resoconti israeliani inventati del 7 ottobre. L’Express, il Daily Mail, il Times, l’Independent e il Metro hanno tutti pubblicato articoli in prima pagina che amplificavano le affermazioni israeliane sulla morte di 40 bambini. La prima pagina del Daily Mail diceva: “Questo è stato un olocausto puro e semplice”.

Anche mettere in discussione questi resoconti terrificanti suscitava accuse di malafede. Secondo un titolo del Telegraph: “Israele non aveva alcun dovere di mostrare le prove che Hamas ha massacrato bambini”.

Disumanizzare i palestinesi

Le prime notizie di bambini bruciati e decapitati presentavano Hamas come barbari subumani, paragonabili allo Stato islamico.

Questi rapporti potrebbero essere usati per giustificare la ferocia di Israele nei confronti della popolazione palestinese di Gaza. “Sento le richieste di un cessate il fuoco”, disse alle Nazioni Unite l’allora ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, “Ditemi, qual è una risposta proporzionata all’uccisione di bambini? Al fatto di avere stuprato le donne e poi bruciate? Al fatto di avere decapitato dei bambini? La risposta proporzionale al massacro del 7 ottobre è la distruzione totale, la distruzione totale, fino all’ultimo membro di Hamas”.

Per riprendere le parole del senatore repubblicano statunitense Marco Rubio: “Non credo che possiamo aspettarci che Israele coesista o trovi qualche intesa diplomatica con questi selvaggi”.

Secondo il ricercatore Marc Owen Jones, citato nel film di Al Jazeera, “la violenza sessuale e altre forme di violenza vengono utilizzate come arma per disumanizzare un nemico, e la disumanizzazione è importante nei conflitti. Perché? Perché la disumanizzazione abbassa la soglia al di sopra della quale diventa accettabile l’attacco o l’aggressione contro un altro gruppo di persone. E come si ottiene questo risultato? Considerandoli come subumani.

Questo film di Al Jazeera fa molto di più che correggere soltanto la cronaca degli eventi del 7 ottobre. Ciò solleva anche serie preoccupazioni per il fatto che i media britannici non riescano a mettere in discussione la narrativa israeliana.

È stato lasciato interamente ai media non mainstream il compito di esercitare controllo e critica, e di comportarsi come giornalisti professionisti. Diamo loro un nome: un ottimo lavoro è stato fatto da GrayzoneInterceptElectronic IntifadaYes! MagazineMondoweiss e, in una certa misura, il quotidiano israeliano Haaretz.

Nel frattempo, i principali media britannici si sono esposti all’accusa di essere stati complici della disumanizzazione dei palestinesi, cosa che a sua volta ha aperto la strada a quello che sembra ogni giorno di più un genocidio a Gaza.

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Siamo davvero tutti palestinesi? – Mohammed El Kurd

Siamo davvero “tutti palestinesi”, come  si canta per le strade di New York e Londra? Se è così, questo grido di battaglia deve abbandonare la metafora e manifestarsi materialmente nella resistenza e nel rifiuto. Perché Gaza non può restare sola nel sacrificio.

Lo hanno arrestato all’aeroporto e questo, mi ha detto il mio amico, è stato il “lato positivo”. Sapeva che stavano venendo a prenderlo, ma era terrorizzato che irrompessero e lo portassero via dalla sua camera da letto, il che è più traumatizzante dell’essere arrestato durante le domande di routine, anche se umilianti, che ci si aspetta all’atterraggio a Tel Aviv.

Omar resterà dietro le sbarre, in detenzione amministrativa, per i prossimi quattro mesi. Tecnicamente, dovrei scrivere “almeno per i prossimi quattro mesi” perché l’ordine di carcerazione è rinnovabile indefinitamente, ma non sopporto il pensiero di quella possibilità straziante, per non parlare di quello che avrebbero potuto fargli, o gli stanno facendo.

“Non c’è niente che possiamo fare”, hanno detto altri amici quando ho suggerito di fare una campagna per il suo rilascio. Quando si diventa detenuti amministrativi – tenuti in ostaggio senza accusa né processo – nessuna pressione pubblica può influenzare il comandante militare a revocare la sua decisione. “Nemmeno all’Aia.”

Inoltre, avrebbe disprezzato l’ottica dei manifesti, delle proteste e dei post sui socialdedicati esclusivamente a lui, poiché odia l’inevitabile individualità di tali campagne. Tuttavia, in termini di qualità necessarie per sedurre un pubblico occidentale alla solidarietà, le possedeva tutte: la “storia unica”, il “curriculum rispettabile”, il “carattere santo”.

Ma sono centinaia le persone sconosciute che  nelle segrete sioniste affrontano lo stesso destino. Decine di migliaia le cui vite – non solo la libertà – sono state decimate, polverizzate negli ultimi mesi. La maggior parte senza nome, la maggior parte non raccontati. Le storie singolari, soprattutto se raccontate in modo avventato, tendono a isolare l’individuo dal gruppo, santificando il primo e demonizzando il secondo. Le storie singolari tendono a situare le atrocità provocate dall’uomo al di fuori della politica, reinventandole come disastri naturali inspiegabili.

Omar è stato  imprigionato proprio perché rifiutava tale singolarità.

Poiché le sue accuse rimangono segrete, secondo i protocolli della prigione, posso ipotizzare che sia stata la sua risoluta presenza nelle strade, durante le proteste, a metterlo nel  mirino del nemico.

Quando Ramallah dormiva – o veniva drogata, o anestetizzata fino alla paralisi politica – era tra le poche centinaia che erano svegli nella città dormiente, cantando, gridando e inviando segnali di fumo disperati, dicendo a Gaza: “Non sei sola”. La geografia mutilata della nostra terra non poteva separarlo (e quelli con lui, quelli con cui era) dal resto della nostra gente, i suoi occhi vegliavano su Gaza, fermandosi solo per fissare quelli che distoglievano lo sguardo.

Si sarebbe rifiutato di distrarsi da coloro che sopravvivevano nutrendosi di mangimi per animali o di cucire le membra dei loro cari sui corpi rubati; il suo arresto è solo il sintomo di una condizione molto più minacciosa. Anche questo è stato un lato positivo. Credere questo, digerire questa chiarezza morale e politica è più facile per lo stomaco che cedere alla propria impotenza o, peggio, alla propria sordida debolezza.

È stato anni fa, per le strade di Ramallah, quando la città era vigile e in agitazione, che ho fatto una battutainfelice. Nizar Banat, un dissidente, una sorta di leader politico, era stato appena ucciso dalle forze speciali dell’Autorità Palestinese (quest’ultima aveva ottenuto il permesso israeliano di passare dalla “Zona A” di Ramallah alla “Zona C” di Hebron, dove risiedeva Banat), per assassinarlo) e migliaia di persone protestavano.

“Alza, alza, alza la voce”, cantavamo, “chi canta non muore!” “Ironia della sorte”, mi sono rivolto al mio amico, “è morto perché ha cantato”. Non so come comportarmi con la brutalità, se non riderci sopra. Il mio amico non era divertito.

Nizar è morto perché era solo, mi ha rimproverato.

(Era, in un certo senso, un’allusione volgare alla frase di Amal Dunqul: “Appeso al patibolo del mattino / e la mia fronte è abbassata dalla morte / perché da vivo, non l’ho abbassata.” Dunqul sembrava credere che il boia avrebbe risparmiate solo quelli che nascondono la testa sotto la sabbia.)

“Non possono ucciderci tutti”, ha detto. Se tutti – avvocati, medici, droghieri, imprenditori, professori, custodi, concessionari di automobili, spacciatori di droga – cantassero, niente potrebbe ucciderci, non i gas lacrimogeni di fabbricazione americana lanciati contro di noi dalle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, non i proiettili, anche americani, sparati contro di noi dai soldati con la stella di David sulla divisa.

Se ciò sia vero – cioè che “il popolo unito non sarà mai sconfitto” – è ancora da vedere. Ciò che è vero, senza dubbio in modo inquietante, è che il nostro enigma non riguarda la vittoria o la sconfitta, ma piuttosto il semplice fatto che non ci sono scuse per nasconderci nei nostri silenzi sicuri, mentre i nostri fratelli vengono massacrati.

Quanto è amara, quanto è vergognosa la sopravvivenza se vinta solo nella solitudine?

Siamo davvero tutti palestinesi, a migliaia e milioni, mentre cantiamo per le strade di New York e Londra?

Mi sono posto questa domanda, incessantemente, ossessivamente. Due anni fa avrei detto, addirittura dichiarato, che il cemento delle barriere militari israeliane è proprio quello, cemento, e l’unico peso che ha è simbolico. I loro confini coloniali, per quanto possano provarci, non riescono e non potrebbero recidere i legami sociali e nazionali che tengono insieme le nostre città isolate. I nostri diversi documenti – documenti di viaggio, passaporti, lasciapassare, o la loro mancanza – sono semplici parole su una pagina, incapaci di dividerci.

Coloro che sono confinati in un assedio o in prigione, avrei detto, possono ancora essere liberi nella mente, coloro che sono separati dietro muri e filo spinato possono ancora unirsi nei loro cuori.

Eppure sono per le strade di New York e Londra, a protestare – c’è repressione, anche se ancora non ci sono gas lacrimogeni – e Omar è in una cella in una delle prigioni dell’Occupazione (in cui dal 7 ottobre sono stati martirizzati almeno 35 prigionieri politici palestinesi)). A Gaza, uomini in tuta da ginnastica vengono colpiti al petto, alla testa, nel coraggio della loro ultima azione, sia che si tratti di correre verso un Merkava corazzata o di fuggire verso una relativa sicurezza.

Nel campo profughi di Shatila, a Beirut, un nonno vive e muore ossessionato dalle visioni della sua vecchia casa sulla spiaggia, così viscerali da riuscire  quasi a sentirne l’odore. A Gerusalemme, mi preoccupo per la casa della mia famiglia, per mio fratello che va al lavoro, per la polizia dal grilletto facile.

Altre città potrebbero anche essere altri pianeti, ciascuno con la propria principale causa di morte: cecchini qui, aerei da guerra là, espulsioni, esilio, cancellazione, genocidio, infanticidio, umiliazione, angoscia, burocrazia, prigionia, violenza intracomunitaria, furto, sete, carestia , povertà, isolamento, disfattismo, ricatto, tutto quello che volete.

La frammentazione non è meramente simbolica, ci ha trasformato in un milione di persone che vivono contemporaneamente in un milione di stati. Un segmento della nostra società, ciò che ne resta, ha pagato un prezzo più alto e sanguinoso negli ultimi anni: un dettaglio su cui non si può semplicemente sorvolare.

Un tempo potevo facilmente estraniarmi dalle classi che ho a lungo disprezzato e invidiato (le élite, la borghesia e coloro per i quali la Palestina è una metafora estetica), ma una nuova classe è emersa nell’angusto inferno del mondo. Striscia di Gaza: gli affamati e gli espropriati ripetutamente, implacabilmente, implacabilmente, ed è impossibile essere più di uno spettatore impotente, impossibile appartenere a quella classe, non senza lividi, non senza sacrificio.

È allettante, quasi confortante – soprattutto mentre guardo il cibo sulla mia tavola e il tetto sopra la mia testa – abbandonarsi al senso di colpa, ma è un sentimento improduttivo, non innesca rivoluzioni. Il senso di colpa si impone come una carie fastidiosa, sei acutamente consapevole della sua presenza, ma continui a ficcarti in bocca le stesse caramelle, fino a farti marcire i denti, fino ad autodistruggerti.

In questi giorni sono perseguitato da un ritornello più sottile, anche se più mortale, una realizzazione indesiderata: Gaza ha il diritto di abbandonarci, di non perdonarci mai, di sputarci in faccia. Quante guerre ha affrontato? Quanti martiri ha dato? Quanti corpi ne sono stati rubati, strappati all’abbraccio dei padri? E quanti di noi balbettano quando ci viene chiesto della resistenza, o rinnegano del tutto il nostro diritto di resistere, il nostro bisogno di resistere? Quanti di noi scelgono la propria carriera rispetto ai propri parenti? Quanti di noi avrebbero potuto fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non l’hanno fatto?

Dal 7 ottobre, molti personaggi pubblici, molti dei quali palestinesi, soprattutto in Occidente, hanno riconsiderato – addirittura rinunciato – alla catarsi provata vedendo le immagini dei “bulldozer palestinesi” che demolivano parti della recinzione israeliana che circonda Gaza. Molti si sono pentiti di aver festeggiato i parapendisti in fuga dal campo di concentramento. (Ho messo “bulldozer palestinesi” tra virgolette perché è una frase incredibile.)

“Non era [ancora] diventato evidente che centinaia di persone fossero state deliberatamente uccise e rapite”, ha scritto un artista. È difficile credere che qualcuno pensasse che le spettacolari immagini del 7 ottobre (catturare carri armati militari e poi danzarci sopra) fossero avvenute senza spargimento di sangue. Inizi a chiederti se quelle scuse latenti non fossero mosse calcolate…

continua qui

 

 

L’architetto Antoine Raffoul a l’AD: “Progettiamo così la ricostruzione di Gaza contro il colonialismo sionista”

(intervista di Giulia Bertotto)

L’architetto palestinese Antoine Raffoul vive a Londra, dove da 40 anni svolge una prestigiosa carriera. Raffoul è nato a Nazareth nel 1941 ed è stato espulso con i dieci membri della sua famiglia da Haifa nell’aprile del 1948, durante la “Nakba”. La sua famiglia si stabilì a Tripoli e in Libano, e da allora non gli è mai stato permesso di tornare. Dal 2007 è fondatore e coordinatore del 1948.Lest.We.Forget (per non dimenticare), un sito che cerca di far conoscere le radici del dolore palestinese e della sua causa. Tra i suoi obiettivi non c’è solo la costruzione di coscienza civile ed etica sulla causa palestinese, ma anche la riedificazione di quei villaggi originari distrutti dagli insediamenti coloniali di Israele. Tra le più recenti iniziative di Raffoul ricordiamo una campagna del 2013 per preservare la città di Akkah, in Palestina, patrimonio mondiale dell’UNESCO, colpita da pulizia etnica e gentrificazione. Diamo la parola al dottor Antoine Raffoul.

L’INTERVISTA

Dottor Raffoul, per favore ci dica qualcosa sul suo sito e piattaforma 1948.Lest.We.Forget. (Accesso: www.1948.org.uk)

Ho creato questo sito intorno al 2007 perché mi sono reso conto che molte persone non conoscono la storia dell’occupazione palestinese. Il sito web non contiene le mie opinioni o interpretazioni, ma è il risultato di una ricerca supportata da dati e documenti, sviluppata da storici rispettati come Ilan Pappé, Avi Shlaim e Nur Masalha, solo per citarne alcuni. Sfortunatamente, se non si conosce la storia è facile cadere preda della manipolazione mediatica e della propaganda politica. Il mio sito, che spiega i complessi e brutali eventi accaduti dal 1948 in poi, non è esaustivo, ma tenta di innescare la ricerca personale dei lettori nella ricerca della verità e della giustizia.

 

In Italia la causa palestinese è molto sentita, ma ci sono alcune persone che purtroppo ancora associano la resistenza palestinese al terrorismo. Alcuni ragazzi italiani sono stati picchiati a sangue durante diverse manifestazioni per chiedere il Cessate il fuoco. A Londra c’è maggiore comprensione del fenomeno?

La Londra del 1917 di Balfour era al centro del problema, ma ha mantenuto fino ad oggi il suo carattere cosmopolita. Una città relativamente aperta nella quale ho avuto l’opportunità di parlare e discutere della causa palestinese in varie sedi e conferenze europee. Questo è molto importante perché non dobbiamo distogliere la nostra attenzione dall’occupazione che oggi è diventata un genocidio commesso attraverso le bombe e la fame contro i civili: entrambi gli atti sono considerati crimini di guerra contro l’umanità. Possiamo affermare che il potere della lobby sionista, con la distruzione di ospedali, scuole, edifici religiosi ha “finalmente” rivelato all’insieme il suo vero volto di Stato razzista e genocida.

 

75 anni di occupazione e pulizia etnica, quasi sei mesi di genocidio (in corso) hanno fatto un numero incalcolabile di vittime, innumerevoli vessazioni, sequestri, torture, incarcerazioni arbitrarie, sulla popolazione ma hanno anche distrutto il patrimonio architettonico, artistico e culturale palestinese. Per sfregio i coloni hanno costruito parcheggi sui cimiteri e hanno ebraicizzato i nomi delle strade. La valenza simbolica e psicologica di queste violenze è gravissima. In quanto architetto cosa può dirci su questo?

Sto cercando di fare qualcosa di concreto contro questi orrori, ad esempio con il progetto chiamato “Architecture Of Resistance”.

Proprio come l’UNESCO preserva il patrimonio materiale e immateriale, storico e artistico dell’umanità, l’ICOMOS, di cui sono membro, è l’organo consultivo dell’UNESCO e mira a conservare i monumenti storici e i siti del patrimonio mondiale. Un’altra importante organizzazione a questo scopo ha sede a New York, il World Monuments Fund, ed è un’organizzazione senza scopo di lucro per la conservazione dei siti storici architettonici di eccellenza storico-culturale. La differenza tra questo organismo e l’UNESCO è che quest’ultima attribuisce titoli ma non contribuisce finanziariamente alla conservazione dei siti. Attualmente sono in attesa della decisione finale dell’UNESCO in merito all’inserimento nell’elenco definitivo (in contrasto con l’elenco provvisorio) dell’antico e caratteristico villaggio palestinese di Lifta, situato a ovest di Gerusalemme, dove è in atto un vero e proprio “Urbicidio”.

Due mesi fa io, con due colleghi e amici, il dottor Nasser Golzari e sua moglie, la dottoressa Yara Sharif (professori di Architettura alla Westminster University, Londra), abbiamo fondato AFG, “Architettura per Gaza”, con l’obiettivo di ricostruire Gaza. La città non sarà ricostruita come parco giochi per turisti, da architetti che non conoscono questa antica patria. Questa iniziativa di ricostruzione mira a utilizzare materiali riciclati e manodopera locale nel tentativo di rivendicare questo importante centro. Si tratta di un progetto ambizioso che mi sta profondamente a cuore.

 

Ha fatto il giro dei giornali lo scorso dicembre la pubblicità delle ville israeliane sul mare a Gaza, case di lusso progettate dall’azienda Harey Zahav con vetrate tra le macerie e sui cadaveri. Si tratterebbe di una dozzina di villette “di lusso”.

Ciò è mostruoso e dimostra i veri obiettivi di pulizia etnica del colonialismo sionista: distruggere tutta la vita fisica palestinese e cancellare tutte le memorie architettoniche, storiche, culturali, artistiche, culinarie e spirituali. Questo è tipico della mentalità colonialista classica in cui un popolo prende il controllo di una terra e non di una nazione, come avviene nel colonialismo storico. Israele vuole cancellare i palestinesi non solo dalla Palestina, ma anche dalla storia. Vuole saccheggiare le sue risorse materiali e fare proprie le tradizioni palestinesi.

La strada n. 230 della città di Ariha è stata intitolata ad Aaron Bushnell il soldato americano che si è immolato nel fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington. L’architettura è simbolo, riflesso del sentimento di un popolo, specchio del suo carattere, estrinsecazione della sua forma interiore, gusto della sua estetica. Non è un caso che l’architettura sionista abbia rinominato strade palestinesi ebraicizzandole o che abbia edificato parcheggi per automobili sui cimiteri. Si tratta di sfregi e gesti di conquista violenti.

L’ipocrisia di Israele non ha vergogna e non ha limiti nemmeno nell’architettura; il proposto “Museo della Tolleranza”, progettato da Frank Gehry a Gerusalemme, afferma di promuovere la tolleranza e la comprensione mentre sorge in cima allo storico cimitero musulmano di Mamilla. La nostra campagna, attraverso APJP (Architetti per la Giustizia in Palestina) per fermare questo progetto ha portato alle dimissioni dell’architetto. Continuiamo a denunciare gli sforzi sionisti di cancellazione e distruzione architettonica e ad aumentare la consapevolezza delle loro violazioni della sovranità palestinese a Gerusalemme.

 

Ha ancora valore oggi la soluzione che si trova sintetizzata nella formula “Due popoli per due stati”?

Francamente non ho mai creduto a questa soluzione “artificiale”. Il motivo è che dall’avvento del sionismo in terra di Palestina, l’obiettivo è stato quello di creare un unico Stato in tutta la Palestina per il popolo ebraico. Ciò che abbiamo visto dal 1948 e che vediamo oggi è il risultato di quel progetto: spargimenti di sangue, pulizia etnica, apartheid e genocidio. I compromessi fatti dall’OLP a Oslo (riconoscere Israele e accettare la soluzione dei due Stati) sono falliti e hanno prodotto altre tragedie per il popolo palestinese. Nonostante la firma degli accordi di Oslo, i sionisti non li accettarono mai veramente. Lo vediamo nella costruzione dell’insediamento illegale che ha aumentato il numero dei coloni illegali da 200.000 nel 1993 (Oslo) a 730.000 oggi. La Palestina è sempre stata un crocevia di culture, di tolleranza etnica e religiosa, ma l’occupazione violenta e l’apartheid sionista hanno distrutto questo ecosistema. Quando fui espulso nel 1948, persi tutto. Non mi è mai stato permesso di tornare nonostante le risoluzioni delle Nazioni Unite e le leggi umanitarie internazionali. Personalmente ho perso la mia terra e le mie proprietà ad Haifa da bambino, ma oggi non ha più importanza, non mi interessa una rivendicazione di possesso ma la possibilità di vivere in una Palestina libera e democratica per tutto il suo popolo.

 

La violenza sionista raggiunge il suo culmine mentre l’Europa minaccia la Terza Guerra Mondiale. Non deve essere un caso…

Questa supremazia colonizzatrice e imperialista è parte in crisi di un cambiamento epocale nel mondo, il quale sta passando da un ordine unipolare sotto la guida americana, a multipolare, che vede diversi continenti e stati alla guida del mondo. Coloro che ora sono al vertice desiderano continuare lo status quo, ma la trasformazione geopolitica globale è già in atto e sarà irreversibile. Di conseguenza, la Palestina sarà libera e il mondo vivrà una nuova alba.

da qui

 

 

 

 

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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