La ragazza della palude - Recensione

Un dramma legale che dovrebbe essere illegale.

La ragazza della palude - La recensione

LA RECENSIONE IN BREVE

  • Olivia Newman e Lucy Alibar consegnano un film fuori tempo massimo di almeno trent’anni.
  • Nonostante la direzione del cast faccia di tutto per dimostrare il contrario, un paio di prestazioni non sono completamente da buttare.
  • La trama potrebbe avere del potenziale (uso il condizionale perché dal presente trattamento è impossibile ricavare supposizioni sensate).

Nonostante La ragazza della palude sia ambientato tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la prima cosa che ho fiutato dopo qualche minuto di proiezione sono stati i Novanta. Ma attenzione, non i Novanta ganzi del rock alternativo, della controcultura e de I Simpson, né quelli sicuramente più fonati - ma a loro modo caratteristici - di Beverly Hills, 90210 o Willy, il principe di Bel-Air. Mi riferisco invece ai Novanta senza appello™, cinematograficamente prossimi a operazioni polpettose tipo Vento di passioni, Il profumo del mosto selvatico e Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, che a loro volta facevano il verso al cinema hollywoodiano di, boh, mezzo secolo prima senza però coglierne l’essenza o la genuinità.


Proprio col film di Jon Avnet questo diretto da Olivia Newman - e scritto da Lucy Alibar a partire dal romanzo omonimo di Delia Owens - condivide parecchie cose, a cominciare dalla protagonista inselvatichita e piena di guai coinvolta, suo malgrado, in un brutto caso di omicidio, passando poi per l’America di provincia “Southern” fino a certi sviluppo tipici del dramma giudiziario.

“René, io non sento la palude”

Al centro del racconto c’è Kya (Jojo Regina), una ragazzina abbandonata dalla famiglia e costretta a sopravvivere in stato di semi-indigenza infrattata tra le paludi della Carolina del Nord, e col solo aiuto offertole da una coppia di negozianti afroamericani.

Sterling Macer e Michael Hyatt interpretano le uniche forme di vita decenti del film, al di fuori della protagonista.

Ora, nonostante nella parte del padre ci sia Garret Dillahunt (non esattamente genitore modello in Raising Hope per non parlare dei pasticci di Deadwood), la giovane cresce fino a trasformarsi in Daisy Edgar-Jones e mostrando risorse non indifferenti, che le consentono di stringere un legame col coetaneo Tate (Taylor John Smith), ma soprattutto di indagare sempre più a fondo, da totale autodidatta, la natura lì attorno fino a diventarne una vera e propria erudita.

Purtroppo, visti anche il periodo storico e la zona non esattamente concilianti come apertura mentale e nonostante l’emancipazione intellettuale, Kya resta pur sempre un’outsider rispetto ai cittadini della vicina Barkley Cove, cosa che non le tornerà affatto utile quando finirà impicciata in un crimine.

Momento Harmony.

Messa così, la storia parrebbe pure interessante e magari nella versione letteraria lo è, non ho modo di saperlo; qualunque sia il suo potenziale, ad ogni modo, viene totalmente disperso da un film pigro tanto nelle forma quanto nella gestione dell’intreccio e che dal suddetto Pomodori verdi eccetera “eredita” giusto la grammatica arcaica, la messa in scena patinata e gli eccessi di melodramma, senza denunciare la benché minima traccia di consapevolezza o ironia postmoderne. Che forse non avrebbero comunque salvato l’operazione, ma magari avrebbero fornito un senso a determinate scelte.

Lo sbadiglio ai giurati

Attraverso una struttura a flashback col presente della narrazione ancorato al processo, Olivia Newman racconta la crescita della protagonista abbandonandosi ai peggiori stereotipi e al lirismo più ricattatorio, affogando i pochi momenti di tensione in scelte di regia discutibili e incapaci di assecondare il benché minimo ritmo.

Daisy Edgar-Jones e David Strathairn mentre tentano di recitare.

Tutta la faccenda procede per evoluzioni e scioglimenti banali, sicuramente non aiutata dai dialoghi petulanti, mentre la mala gestione di cast e intreccio riesce a telefonare con assoluta precisione colpi di scena che, forse, sarebbe stato il caso di gestire con qualche cautela in più, giusto per amore di suspense.

Anche le prestazione di Daisy Edgar-Jones e David Strathairn (quest’ultimo nei panni dell’avvocato difensore, Tom Milton), per quanto più sensate delle altre, vengono trascinate a fondo dal taglio generale dell’operazione, affidando l’unica blanda ragione per non abbandonare la sala prima dei titoli di coda al mistero dietro la morte di tizio; pure lì, però, la soddisfazione è molto poca e non giustifica le due ore di noia che la precedono.

La ragazza della palude è disponibile al cinema.

Verdetto

Come accennato in apertura, La ragazza della palude pare un film brutto degli anni Novanta trascinato nel 2022 attraverso qualche pasticcio temporale. Un film vecchio per costruzione, esposizione dei temi e direzione del cast e incapace di concedere il minimo slancio a una trama che, magari, in altre mani avrebbe potuto esprimere qualcosa di meglio. Il mio consiglio è di tenersene alla larga e, se proprio siete in vena di paludi, recuperate i fumetti di Alan Moore.

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La ragazza della palude - La recensione

4
Brutto
Due ore di banalità per raggiungere uno scioglimento… altrettanto banale.
La ragazza della palude
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