La donna alla finestra: recensione del film con Amy Adams
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    La donna alla finestra: recensione del film con Amy Adams e Gary Oldman

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    Dopo ripetuti rinvii e reshoot causati da diverse reazioni negative ai primi test screening, è finalmente arrivato su Netflix La donna alla finestra, film girato nel 2018 da Joe Wright, forte di interpreti del calibro di Amy Adams, Gary Oldman, Julianne Moore, Jennifer Jason LeighAnthony MackieWyatt Russell. Un’opera densa, imperfetta e con espliciti rimandi al cinema di Alfred Hitchcock, che ha immediatamente dato il via a un dibattito critico decisamente polarizzato, con opinioni perlopiù negative.

    La donna alla finestra: un tormentato viaggio nella mente e nel senso di colpa
    La donna alla finestra

    A causa della sua agorafobia, la psicologa infantile Anna Fox (Amy Adams) passa gran parte del proprio tempo nel suo appartamento newyorkese, osservando alla finestra le vite dei suoi vicini. Le sue poche interazioni con le persone arrivano grazie al coinquilino David (Wyatt Russell) e agli incontri fortuiti con i dirimpettai Alistair (Gary Oldman) e Ethan Russell (Fred Hechinger), padre e figlio da poco arrivati nel suo quartiere. Dopo un piacevole colloquio con Jane Russell (Julianne Moore), Anna assiste a un brutale assassinio dalla sua finestra. La psiche della donna, già messa a dura prova da psicofarmaci e problemi di alcolismo, comincia a vacillare, in quanto nessuno crede alla versione dei fatti di Anna. Fra immaginazione e realtà, vengono a galla traumi passati e segreti inconfessabili.

    Il palese omaggio a La finestra sul cortile (seguito da altri a Vertigine, Io ti salverò e La fuga) che vediamo nei primi minuti de La donna alla finestra è la dichiarazione d’intenti attraverso la quale Joe Wright ci fornisce le coordinate per orientarci in questo racconto teso e contorto, pieno di binari morti e scelte narrative che è eufemistico definire affrettate. Quando assistiamo a una inquadratura che potrebbe tranquillamente provenire dal capolavoro hitchcockiano, in cui le finestre del palazzo antistante a quello di Anna appaiono come tanti diversi racconti che la donna può vedere o immaginare, si teme per un attimo di essere di fronte a un’opera totalmente derivativa, priva di qualsiasi guizzo narrativo e della voglia di attualizzare atmosfere tipiche del thriller. Fortunatamente, dopo il notevole L’ora più buia (due Oscar, compreso quello a Oldman) dimostra invece di avere ancora qualche freccia al proprio arco.

    La donna alla finestra: il nuovo film Netflix che guarda a Hitchcock a Polanski

    La donna alla finestra

    Mentre dentro la casa di Anna sfilano personaggi sinistri e ambigui, come quello di Julianne Moore (protagonista insieme a Amy Adams del momento più alto de La donna alla finestra dal punto di vista recitativo), viene progressivamente alla luce l’opera di ribaltamento di Wright nei confronti del riferimento hitchcockiano. Dove La finestra sul cortile si rivelava straordinaria metafora del cinema stesso e del voyeurismo dello spettatore, La donna alla finestra compie un percorso inverso, partendo dalla griglia di storie che Anna vede davanti a sé per scavare nel suo animo, facendo emergere sensi di colpa e ferite mai rimarginate.

    L’inquietante carosello di personaggi che sfila nell’appartamento di Anna, il gioco di luci e lenti carrelli con cui Wright e il direttore della fotografia Bruno Delbonnel tratteggiano un racconto ambientato prevalentemente in interni, e soprattutto lo stato di perenne paranoia della protagonista avvicinano progressivamente La donna alla finestra al cinema di Roman Polanski, in particolare a Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York e L’inquilino del terzo piano. In bilico fra dramma familiare introspettivo e classico thriller, Wright opera però purtroppo un’inefficace compromesso fra registri diversi, penalizzante soprattutto per la vicenda dei Russell, che dal punto di vista della logica e della coerenza narrativa (forse anche a causa dei numerosi rimaneggiamenti) lascia abbastanza a desiderare.

    Le ormai proverbiali doti recitative della solita strepitosa Amy Adams aiutano invece il regista a fare emergere il passato di Anna e a creare un arco narrativo di disperazione e tristezza, davanti al quale è difficile rimanere indifferenti. Inoltre, la costrizione casalinga della protagonista trova un involontario gancio con la realtà che stiamo vivendo, il che rende ancora più naturale entrare in empatia con una realtà fatta di ansia e paura.

    La donna alla finestra: un’opera tutt’altro che perfetta

    Certo, La donna alla finestra è un’opera tutt’altro che esente da difetti, che riguardano non solo la costruzione dell’intreccio, ma anche un utilizzo degli interpreti decisamente discutibile (sprecata soprattutto Jennifer Jason Leigh) e un finale affrettato e semplicistico, in linea con i peggiori lavori di Wright (come il disastroso Pan – Viaggio sull’isola che non c’è). Ma l’umanità che filtra da questa storia, grazie anche all’omonimo romanzo di A. J. Finn a cui è ispirata, e il desiderio da parte del regista di ragionare sulla soggettività dell’immagine, cambiando di conseguenza continuamente i connotati dell’opera, rendono questo sghembo e tormentato lavoro degno di essere vissuto. La presenza (o l’assenza) di un’immagine può cambiare il corso di un’esistenza, come del resto la sua cancellazione o il suo rimaneggiamento, in un parallelo con la laboriosa realizzazione de La donna alla finestra.

    In un’epoca di giudizi estremizzati e di dibattiti sacrificati sull’altare dei social, noi siamo stati conquistati dal viaggio di questa donna che visse due (o forse tre) volte di hitchcockiana memoria, e crediamo che i disastri cinematografici siano ben altra cosa.

    Overall
    7/10

    Verdetto

    La donna alla finestra si rivela un’opera particolarmente debole dal punto di vista dell’intreccio, rinvigorita però da una sontuosa Amy Adams, da atmosfere suggestive e da una riflessione tutt’altro che banale sulla soggettività dell’immagine.

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    Scoop: recensione del film Netflix con Gillian Anderson

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    Scoop

    L’intervista concessa dal duca di York Andrea alla BBC, incentrata sulla sua amicizia con il famigerato Jeffrey Epstein e sul suo possibile coinvolgimento in reati sessuali, è stata indubbiamente uno spartiacque per la famiglia reale britannica. Non tanto per le conseguenze sullo stesso Andrea (a cui la madre Elisabetta ha revocato il titolo di Altezza Reale e i gradi militari), ma perché ha evidenziato lo scollamento totale fra la percezione della corona e l’opinione pubblica, già messa a dura prova dai ripetuti scandali. Una vicenda brillantemente messa in scena in Scoop, film Netflix di Philip Martin con Gillian Anderson, Billie Piper, Keeley Hawes e Rufus Sewell.

    Un duello dalle sfumature western (come esplicitamente detto durante il film) fra due istituzioni britanniche, accomunate dagli stessi problemi nella comunicazione. Da una parte la BBC, legata a un giornalismo tradizionale e in difficoltà a mantenere il passo della concorrenza sui vari media; dall’altra la famiglia reale e nello specifico Andrea, intenzionato a riprendere il controllo della narrazione nel maldestro tentativo di ripulirsi l’immagine. Sulla base di Scoops: The BBC’s Most Shocking Interviews from Prince Andrew to Steven Seagal di Sam McAlister, viviamo così la genesi di questa storica intervista, fortemente cercata da lei stessa in qualità di produttrice (impersonata da Billie Piper) e sagacemente condotta da Emily Maitlis (Gillian Anderson, strepitosa come sempre).

    Con il passare dei minuti, assistiamo allo sgretolamento delle certezze di Andrea (un mimetico Rufus Sewell) e della sua segretaria personale Amanda Thirsk (Keeley Hawes), incapaci di cogliere l’inefficacia della loro strategia comunicativa su una vicenda a dir poco sinistra, che coinvolge diverse ragazze minorenni all’epoca dei fatti.

    Scoop: l’intervista al principe Andrea fra grande giornalismo e pessima comunicazione

    Billie Piper in un'immagine di Scoop, nuovo film originale Netflix sulla celebre intervista della BBC al Principe Andrea

    Anche se l’intervista è ricostruita con dovizia di particolari (le parole ovviamente, ma anche le luci, la scenografia, la postura dei corpi), il cuore di Scoop è rappresentato dal giornalismo. Un giornalismo messo sempre più in crisi dai social, che portano i lettori a diventare parte attiva dell’inchiesta e del dibattito (come sottolinea la stessa Sam McAlister), ma anche e soprattutto dall’aderenza a dinamiche dell’informazione ormai irrimediabilmente superate, responsabili di un progressivo allontanamento da ciò che oggi percepiamo come notizia o utile spunto di approfondimento. Una dinamica che si riflette sulle persone responsabili delle comunicazioni istituzionali, a loro volta legate a protocolli troppo rigidi e a una percezione distorta dei cittadini e del loro spirito critico.

    Anche se in prima linea ci sono Andrea ed Emily Maitlis, lo scontro alla base di Scoop è soprattutto fra chi osserva i duellanti da dietro le quinte, ovvero Sam McAlister e Amanda Thirsk. Due donne che non mancano di sottolineare la loro stima reciproca, ma che per la loro diversa sensibilità sulla gestione di questo straordinario evento mediatico finiscono per trovarsi ai lati opposti della storia. Nell’ombra c’è poi una terza figura, cioè la Regina Elisabetta, sempre presente nonostante non sia mai in scena. Una presenza che aleggia sia sulla BBC, che teme una sua ingerenza sull’intervista, sia su Andrea, che al contrario si muove con disinvoltura eccessiva e fatale per il suo percorso all’interno della famiglia reale.

    L’autogol della corona britannica

    Gillian Anderson in un'immagine di Scoop, nuovo film originale Netflix sulla celebre intervista della BBC al Principe Andrea

    Anche se ormai siamo abituati alle catastrofi comunicative, grazie soprattutto al notevole contributo alla causa delle istituzioni italiane, non si può che restare esterrefatti davanti a Scoop. Come è possibile che nessuno fra Andrea e il suo staff abbia compreso l’insostenibilità di una strategia basata sulla totale negazione di fatti ampiamente documentati da foto e testimonianze dirette? Perché durante le varie sessioni di prova per l”intervista (anch’esse mostrate nel film) non si è intervenuto sulla postura del duca di York, sul suo evidente imbarazzo e sulla sua mimica facciale, già da sola in grado di comunicare colpevolezza e disagio? Perché anche davanti all’evidenza nessuno dello staff della più celebre casa reale del pianeta è stato in grado di riconoscere un plateale boomerang a livello comunicativo?

    Domande che al di là degli inevitabili capri espiatori sono destinate a rimanere senza risposta, ma testimoniano la differenza di velocità fra un’informazione in rapidissima evoluzione e un apparato politico, diplomatico e istituzionale semplicemente incapace di reggere il passo. Philip Martin, non a caso già alla regia di alcuni episodi di The Crown, riesce a trasformare in pregevole racconto questa dinamica, avvalendosi della sceneggiatura calibrata alla perfezione di Samantha McAlister, Peter Moffat e Geoff Bussetil e di interpreti formidabili, capaci di rendere elementi narrativi e comunicativi i silenzi, le esitazioni, gli sguardi e i più piccoli movimenti del corpo. Il risultato è una sorta di incidente stradale al rallentatore della famiglia reale, ancora più sconcertante perché avvenuto nella più totale trasparenza giornalistica e senza rilevanti scorrettezze da parte della BBC.

    Scoop: l’essenza della notizia

    Scoop si inserisce nella scia di opere come Tutti gli uomini del presidente, Quinto potere, Frost/Nixon e Il caso Spotlight, ricordandoci il ruolo del giornalismo come da cane da guardia del potere e l’essenza della notizia, cioè tutto ciò che per qualcuno non deve essere raccontato. Lo fa con un racconto compatto e inappuntabile dal punto di vista tecnico, che per una volta non ha bisogno di atti coraggiosi o di artifici retorici, ma si limita a mostrare con lucidità e chiarezza la mediocrità di certi uomini di potere, talmente sicuri di se stessi da non accorgersi neanche dei loro atti più autodistruttivi.

    Scoop è disponibile dal 5 aprile su Netflix.

    Overall
    8/10

    Valutazione

    La storica intervista al principe Andrea rivive in un film Netflix dalla scrittura intelligente e dal formidabile comparto attoriale, in un inno al buon giornalismo e alla comunicazione efficace.

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    Ripley: recensione della serie Netflix con Andrew Scott

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    Ripley

    Fin dalla sua nascita letteraria dalla penna di Patricia Highsmith nel 1955, il personaggio di Tom Ripley ha tracimato nel cinema e nella televisione. Lo ha fatto già nel 1956, con un episodio della serie Westinghouse Studio One, poi nel 1960 in Delitto in pieno sole di René Clément (in cui il celebre assassino è interpretato da Alain Delon) e soprattutto ne Il talento di Mr. Ripley di Anthony Minghella, film del 1999 con Matt Damon nel ruolo di Ripley e Jude Law in quello di Dickie Greenleaf, capace di trarre il massimo beneficio dalle location italiane e dalle sfumature più torbide del racconto. Un successo tale da stimolare anche l’adattamento di altri libri della serie di Patricia Highsmith ne Il gioco di Ripley di Liliana Cavani e Il ritorno di Mr. Ripley di Roger Spottiswoode, non altrettanto validi.

    Arriviamo dunque al presente e nello specifico a Ripley, nuova miniserie Netflix in 8 episodi ideata da Steven Zaillian (sceneggiatore vincitore dell’Oscar per Schindler’s List – La lista di Schindler e autore degli script di altre opere come Gangs of New York, American Gangster e The Irishman) e con protagonista Andrew Scott nella parte dell’iconico assassino. Un progetto che arriva sulla scia di un rinnovato interesse per il crime (vero e fittizio) e del successo di Saltburn di Emerald Fennell, che in molti hanno associato alla parabola delittuosa di Ripley. Uno show dal notevole impatto visivo, girato in un elegante bianco e nero e in una riuscita commistione fra dialoghi in inglese e in italiano (apprezzabile da chi fruisce della serie in lingua originale), con il contributo di interpreti nostrani del calibro di Margherita Buy e Maurizio Lombardi.

    Ripley: l’assassino nato dalla penna di Patricia Highsmith rivive nella nuova serie Netflix

    Ripley
    Cr. Courtesy of Netflix © 2024

    Ci troviamo negli anni ’60, quando il truffaldino newyorkese Tom Ripley viene ingaggiato col compito di riportare a casa Dickie Greenleaf (Johnny Flynn), giovane rampollo che sta sfogando le sue velleità artistiche in una lussuosa villa sulla costiera amalfitana, in compagnia di Marge Sherwood (Dakota Fanning). Una volta giunto sul posto, Ripley scopre la bellezza di vivere nella comodità e nello sfarzo, per giunta a spese di altri. Nel tentativo di prolungare questo stato di grazia, l’uomo stringe un rapporto sempre più malsano e ossessivo con Dickie, che sfocia nel sangue. Ha così inizio una lunga serie di imbrogli, inganni e delitti, disseminati in diverse località italiane.

    Steven Zaillian aderisce al romanzo di Patricia Highsmith, limitandosi a poche variazioni e ad alcune scelte di cast in ottica maggiormente inclusiva, prendendosi tempo per sviscerare ogni passaggio del racconto originale e compiendo un notevole lavoro sulla forma, che non si limita all’esaltazione degli scenari italiani, ma abbraccia la musica nostrana e la scenografia degli interni, fondamentale per alcuni snodi narrativi. Il risultato è spiazzante, soprattutto se paragonato alla fluidità e alla compattezza dell’adattamento di Minghella. La macchiettistica Italia da cartolina del film del 1999 (evidente in scene come l’esecuzione di Tu vuò fà l’americano in compagnia di Fiorello) lascia spazio a una rappresentazione altrettanto artificiosa, che spazia fra il neorealismo e le atmosfere felliniane. Questo all’interno di una cornice narrativa ipertrofica, che dilata a dismisura scene e dialoghi alla ricerca della suspense hitchcockiana, con risultati non sempre all’altezza delle ambizioni.

    L’estetica di Ripley

    Cr. Courtesy of Netflix © 2024

    Allo stesso tempo, l’ampio minutaggio (siamo intorno alle 8 ore totali) consente a Steven Zaillian e Andrew Scott di scavare nella psiche contorta e inquietante di Tom Ripley, che con il passare dei minuti e con il progredire degli eventi sprofonda sempre più nell’abisso. Un ritratto umano ancora più disturbante in quanto in marcato contrasto con la bellezza che lo circonda, impreziosita dalla suadente voce di Mina e dalla bellezza e genuinità dell’Italia degli anni ’60, fermata nel tempo dalla fotografia in bianco e nero di Robert Elswit, fedele collaboratore di Paul Thomas Anderson e premiato con l’Oscar per il suo lavoro ne Il petroliere.

    Nonostante gli sforzi e il pregevole lavoro sull’oggettistica e sulle opere d’arte (evidente il parallelo fra Tom e il Caravaggio da lui amato), Ripley cade nello stesso problema comune a gran parte della serialità recente, ovvero la mancanza di sintesi e di coesione, resa possibile dallo spazio illimitato garantito dallo streaming. La diluizione della discesa agli inferi del protagonista non porta a un maggiore spessore ma anzi ne limita l’efficacia, appesantendo inutilmente il racconto. In questo senso è ancora una volta impietoso il paragone con Il talento di Mr. Ripley di Anthony Minghella, capace di racchiudere l’intero arco narrativo in 139 minuti e con l’aggiunta dell’apporto di Jude Law, molto più carismatico di Johnny Flynn nella parte di Dickie Greenleaf.

    L’importanza della sintesi

    Ripley
    Cr. Courtesy of Netflix © 2024

    «Non leggi un romanzo in due ore. Ci vogliono otto ore, dieci ore, dodici ore – e ho sentito che avrei cercato di creare il ritmo e la bellezza della narrazione di quel libro in questa forma», ha dichiarato Steven Zaillian a margine di una proiezione di Ripley a New York. Parole rispettabili e figlie di un maestro della scrittura, che entrano però in contrasto con l’arte del racconto audiovisivo, capace di condensare in immagini decine di pagine. Pur apprezzando la cura e la ricerca estetica di questo nuovo adattamento, decisamente superiore alla media della serialità moderna, resta la sensazione che un maggiore controllo in fase di scrittura avrebbe probabilmente giovato a un racconto comunque suggestivo e avvolgente, ma non sempre avvincente.

    Ripley è disponibile su Netflix dal 4 aprile.

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    The Beautiful Game: recensione del film con Bill Nighy e Valeria Golino

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    The Beautiful Game

    Il cinema ha più volte affrontato il potere salvifico dello sport e in particolare del calcio, capace di dare a chiunque una seconda possibilità e di trasformare nel giro di poco tempo un gruppo di sconosciuti in una famiglia, in cui ogni elemento è disposto a sacrificarsi per il bene della squadra. Fuga per la vittoria, Sognando Beckham, i progetti italiani di Matti per il calcio e il recentissimo Chi segna vince hanno saputo raccontare tutto questo, con storie e registri diversi, facendo del calcio un’appassionante metafora del riscatto e della rivincita. Una dinamica in cui si inserisce perfettamente The Beautiful Game, nuovo film originale Netflix liberamente ispirato al progetto Homeless World Cup, che da oltre 20 anni organizza un vero e proprio mondiale fra nazionali composte interamente da calciatori senzatetto.

    La cineasta britannica Thea Sharrock (Io prima di te, L’unico e insuperabile Ivan) dirige un’opera tutt’altro che perfetta ma comunque importante, che evidenzia come lo sport possa aiutare a superare barriere sociali, culturali ed economiche. Al centro della vicenda c’è la nazionale senzatetto inglese, impegnata nei preparativi per la nuova edizione della Homeless World Cup ospitata da Roma. Per rinforzare la squadra, il carismatico e abilissimo osservatore Mal (Bill Nighy) mette gli occhi su Vinny (Micheal Ward), talento cristallino e irrequieto. Pur riluttante, quest’ultimo accetta di prendere parte alla manifestazione e vola a Roma (che in realtà non ha mai ospitato l’evento) insieme al resto della squadra, composta da un’umanità variegata e tormentata. Seguiamo così la fase finale di un torneo tanto bizzarro quanto combattuto, condotto con sicurezza e comprensione da Gabriella (Valeria Golino), fra imprevisti e colpi di scena.

    The Beautiful Game: rivincita e riscatto nella Homeless World Cup

    The Beautiful Game

    La Homeless World Cup era già stata raccontata nel film sudcoreano Dream, anch’esso disponibile su Netflix, ma in questo caso la regista e lo sceneggiatore Frank Cottrell Boyce hanno la valida intuizione di allargare lo spettro del racconto a elementi delle altre nazionali della competizione, pur mettendo sempre al centro dei riflettori la squadra inglese. Scelta che permette a The Beautiful Game di toccare diverse tematiche (le molestie, i conflitti bellici) e di raccontare tante storie incastonate nella storia principale del torneo, come del resto avviene nella realtà durante i veri mondiali di calcio, ineguagliabili incroci di culture diverse e delle più disparate parabole esistenziali e sportive.

    Siamo nel campo del cinema sportivo più popolare possibile, in un progetto nato anche e soprattutto per porre l’attenzione su questa lodevole competizione sportiva, che nel corso degli anni ha aiutato centinaia di atleti o aspiranti tali a credere di nuovo in se stessi e a rilanciare le loro vite. Questo porta inevitabilmente ad alcune semplificazioni narrative, nonché a messaggi importanti e condivisibili affrontati in modo eccessivamente didascalico. Il dolore dei calciatori è solo sfiorato e assistiamo a un prevedibile trionfo dei buoni sentimenti, dell’inclusività e del fair play, nella cornice della solita Roma da cartolina, con tanto di gita alla Fontana di Trevi.

    L’importante non è vincere ma partecipare

    L’importante non è vincere ma partecipare, e The Beautiful Game coglie pienamente questo spirito, creando empatia nei confronti dei tanti piccoli traguardi da raggiungere per le varie nazionali e dando vita a una storia di sport tutt’altro che scontata nello svolgimento e nella conclusione, grazie anche alla possibilità del “prestito” di un giocatore eliminato per le squadra che avanzano nel torneo. Il livello amatoriale della competizione e il campo di dimensioni ridotte consentono inoltre a The Beautiful Game di essere abbastanza credibile dal punto di vista tecnico e agonistico, pur con qualche comprensibile forzatura e con l’inevitabile enfasi su alcuni virtuosismi dei protagonisti.

    A fare la differenza, fuori dal campo, è il solito strepitoso Bill Nighy, che come ha dimostrato in I Love Radio Rock è semplicemente perfetto nella parte dello strambo leader di un gruppo di strambi, capace di mantenere sempre eleganza e aplomb. Il suo Mal è in delicato equilibrio fra commedia e dramma, fra grinta e rimpianto, ma è purtroppo appesantito da una sottotrama vagamente sentimentale con il personaggio di Valeria Golino, che nulla aggiunge al potere edificante di questa storia di vita e sport.

    The Beautiful Game: il potere salvifico del calcio

    The Beautiful Game

    The Beautiful Game scivola comunque senza intoppi o particolari guizzi verso un epilogo non scontato, che ha il merito di trasformare un intero torneo di perdenti in un gruppo di persone vincenti e protagoniste, almeno per un giorno. Mentre sui titoli di coda scorrono immagini e risultati della vera Homeless World Cup, risuona così il qualunquista e ipocrita adagio «Ma sono solo 22 scemi che corrono dietro a un pallone», mai come in questo caso falso e irrispettoso nei confronti di chi, anche solo per una volta, ha cercato di dimenticare sfortuna e problemi attraverso il calcio.

    The Beautiful Game è disponibile dal 29 marzo su Netflix.

    Overall
    6.5/10

    Valutazione

    Thea Sharrock firma un film sportivo non esente da difetti e ingenuità, sorretto dal solito spumeggiante Bill Nighy e dallo spirito della vera Homeless World Cup, che nel corso degli anni ha dato sollievo e conforto a centinaia di atleti provenienti da tutto il mondo.

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