La gatta sul tetto che scotta

La gatta sul tetto che scotta

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Traducendo in immagini in movimento il dramma teatrale di Tennessee Williams con La gatta sul tetto che scotta Richard Brooks è costretto dal clima dell’epoca a “tradire” il testo espungendo ogni riferimento possibile all’omosessualità del personaggio di Brick; così facendo si crea però una latenza, un non detto che si muove sottopelle fino a tracimare nel finale, creando un mélo (im)perfetto sulla falsità della famiglia, e del suo mito/rito. Tra i classici riproposti nella rassegna Magnifiche ossessioni – Capolavori del mélo hollywoodiano 1951-1959.

Il percorso a ostacoli

Una notte Brick Pollitt posiziona le barriere di corsa ad ostacoli lungo lo stadio, ricordando i tempi in cui era un giocatore di football. Benché sia ubriaco, decide di effettuare il percorso, ma cade, fratturandosi una gamba e dovendo quindi ricorrere alle stampelle fino alla guarigione. Insieme a sua moglie, Maggie “la gatta”, è in visita dai suoi genitori nella loro casa nel Mississippi, per festeggiare il 65º compleanno di suo padre, Harvey “Big Daddy”. Depresso, Brick trascorre le proprie giornate chiuso in casa, bevendo whiskey e restando impassibile di fronte ai tentativi di seduzione della moglie, nonché ai dubbi di lei circa la lealtà del fratello maggiore di Brick e della cognata, riguardo all’eredità paterna. [sinossi]

Richard Brooks apre La gatta sul tetto che scotta con le riprese in esterni di un ubriaco Brick Pollitt in giacca e cravatta che nel tentativo di saltare gli ostacoli, rimembrando i tempi in cui era un giocatore professionista di football, cade malamente fratturandosi una gamba. Una dichiarazione duplice d’intenti, verrebbe da dire: da un lato infatti si svicola dalla teatralità del testo di partenza, sfruttando le possibilità del cinema di cambiare location, mentre dall’altro contemporaneamente si prefigura quel non detto che attraverserà l’intera opera, per ragioni pratiche ben più che estetiche. Il testo di Tennessee Williams, che vinse il Pulitzer nel 1954 anticipando di quattro anni la produzione cinematografica, si svolge in un unico luogo, vale a dire la camera da letto occupata nella splendida magione dei genitori di Brick dall’uomo e dalla sua bellissima consorte, quella Maggie cui è stato affibbiato il soprannome “la gatta”. Solo un luogo, evocativo e di centrale importanza come il talamo, perché è proprio nell’intimità del rapporto tra i due che emerge la più evidente crepa che mina la solidità (alto) borghese della famiglia Pollitt: Brick è omosessuale (senza neanche rendersene conto), e innamorato di un suo compagno di squadra – tal Skipper – che si è suicidato lasciandolo solo. Questa solitudine, unita alle colpe sulla morte di Skipper che fa ricadere sulle spalle di Maggie (che l’avrebbe sedotto per risvegliare l’interesse di un marito che è ben poco attratto dal femminile), hanno spinto Brick sull’orlo dell’alcolismo, condizione che verrà acuita dalla notizia che suo padre ha un cancro incurabile di cui non è stato ancora avvertito. Una sola location, per di più dal carattere lubrico come una camera da letto coniugale, e l’amore erotico tra persone dello stesso sesso: a ben vedere è quasi miracoloso che La gatta sul tetto che scotta sia potuto divenire un film nel 1958, per di più per uno studio come la Metro-Goldwyn-Mayer da sempre estremamente connotato per una prossimità alla destra repubblicana. In un’epoca in cui il Codice Hays è ancora imperante, per quanto si inizino ad avvertire dei piccoli smottamenti che si faranno sempre più sensibili nel corso degli anni, è impensabile che la drammaturgia di Williams possa essere accettata, ed ecco dunque che si lavora in fase di sceneggiatura per smussare con forza gli angoli, ridefinendo persino i confini del racconto: così resta la seduzione di Skipper da parte di Maggie, anche perché pruriginosa in ottica puramente borghese, ma ciò che Brick prova nei confronti dell’amico non è amore, ma solo ammirazione sportiva, e nulla di più. Inutile dire come da un punto di vista prettamente narrativo il film di Brooks appaia depotenziato, e forse persino ridotto al limitar del ridicolo involontario (anche perché è pensiero pressoché comune di tutti coloro che abbiano conosciuto Skipper che quest’ultimo fosse un giocatore assai mediocre, e non si capisce per quale motivo l’unico a non pensarlo sia proprio Brick), eppure quest’elemento così ingombrante permette al regista di muovere il melodramma in una posizione laterale, del tutto disomogenea rispetto alla prassi imperante.

Il 1958 è un anno cruciale all’interno dell’allora giovane carriera di Paul Newman, visto che escono negli Stati Uniti ben quattro film che lo vedono protagonista, vale a dire La lunga estate calda di Martin Ritt, Furia selvaggia di Arthur Penn, Missili in giardino di Leo McCarey, e ovviamente La gatta sul tetto che scotta. Quattro opere tra loro all’apparenza assai distanti (due mélo, un western, e una commedia) ma che sotto la scorza testimoniano la volontà di riscrivere l’idealtipo maschile, l’eroe della vicenda. Ne La lunga estate calda Newman è un poveretto accusato ingiustamente di essere un piromane che non ha vergogna di crollare di fronte alla donna di cui è innamorato svelando i traumi generati in lui da una figura paterna violenta, dittatoriale, decisionista; in Missili in giardino l’uomo, che ha ricevuto un importante e segretissimo incarico governativo, scopre di avere come principale antagonista la moglie fervente pacifista, che finirà ovviamente per avere la meglio da un punto di vista pratico e ideologico; il Billy the Kid che interpreta per l’esordio di Penn non è lo spaccone smargiasso visto al cinema fino a quel momento, ma un ragazzo turbato, emotivamente fragile, in piena dialettica psicanalitica con se stesso. A questa galleria di personaggi si aggiunge in modo naturale quel Brick che Newman interpreta con un disperato candore disilluso, senza che questo ossimoro arrivi mai a minare la compattezza dell’insieme, o la logica del personaggio. Un uomo che ha perso il suo unico punto fermo, non sa davvero sentirsi sessualmente attratto da una donna dalla dichiarata forza erotica – quel “ha la vita dentro” che le viene riconosciuto da tutti i maschi della famiglia nel finale, di fronte a una evidente menzogna proferita, si apre com’è ovvio a ben più di una declinazione possibile –, ed è schiacciato da un rapporto con il padre non paritario. Anche Brooks, pur dovendo rinunciare al punto cardine del discorso originale di Williams, punta l’accento su una mascolinità repressa, vulnerabile, incapace persino di saltare un blocchetto di ostacoli al punto da perdere la stabilità, dovendo ricorrere alla sussistenza delle grucce, aggrappandosi a stampelle che sono sì materiali ma acquistano in maniera inevitabile un côté simbolico. All’intero di una casa che si trasforma via via in prigione, in luogo da cui sembra quasi impossibile fuggire, Brooks fa deflagrare un dramma fiammeggiante perché vi riecheggia all’interno il sentore di un’America morente, terminale come quel padre-padrone-padreterno che non sa neanche relazionarsi con la donna che ha al proprio fianco da una vita.

Ed ecco dunque che è solo quando Brick decide di iniziare a sentire Maggie, fisicamente e ancor di più psicologicamente, e quindi a trovare un punto di contatto con quel femminile da cui si tiene da sempre a debita distanza, che il dramma può sperare di trovare uno sbocco. E poco importa in fin dei conti che le regole dell’industria costringano a una ricomposizione risolutiva dai chiari contorni posticci, con quel bacio appassionato tra Brick e la moglie che prelude nell’occhio dello spettatore a una liberazione sessuale nel rapporto tra i due personaggi. Poco importa perché quell’elemento, che è proprio l’elemento che ha spinto con forza Skipper fuori dal racconto – lui che è sempre stato un fantasma, essendosi suicidato prima del principiare della narrazione –, fa parte della produzione, è la chiave d’accesso divistica concessa a un pubblico del tutto disabituato a riflessioni siffatte. Un pubblico che può bearsi del colore indimenticabile degli occhi di Newman e di una Elizabeth Taylor che lascia letteralmente senza fiato per bellezza e furore interpretativo (pare che la scelta di girare il film a colori fosse dettata proprio dalle nuance delle iridi delle due star) e dunque accettare con maggiore facilità il pugno allo stomaco che gli viene inferto. Perché Brooks non rinuncia a un altro aspetto fondamentale del testo di partenza, vale a dire l’amara constatazione che la società è dominata dall’ipocrisia, e dalla menzogna. Solo attraverso la menzogna i personaggi riescono a trovare un punto di contatto tra loro, e solo la più atroce delle menzogne – vezzeggiare un anziano moribondo vagheggiando la possibilità che diventi nonno, nonostante le strutturali “mancanze” del figlio minore – può davvero rasserenare gli animi e riportare la pace. Ed è ancor più doloroso che ne La gatta su tetto che scotta cinematografico praticamente tutti i personaggi credano alla fandonia inventata da Maggie, contrariamente a quanto accade sul proscenio teatrale, perché in quella riunione idilliaca matrimoniale si cela in verità la totale disumanizzazione, la rinuncia alla dialettica sincera, all’interscambio. Brooks si dimostra uno straordinario cineasta della parola, regalando seguendo lo schema di Williams dialoghi interminabili ma potentissimi ai suoi personaggi, grazie anche a un cast in stato di grazia. È un grande film (im)perfetto, La gatta sul tetto che scotta, ma a distanza di quasi settant’anni le sue sequenze principali lasciano ancora sbigottiti, attoniti, sperduti coloro che vi si imbattono. E quel fantasma che si voleva eliminare per rendere più probo il racconto è ora vivo e serpeggiante come non mai.

Info
La gatta sul tetto che scotta, il trailer.

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