La Figlia Oscura Recensione

The Lost Daughter: recensione dell'opera prima di Maggie Gyllenhaal tratta da un romanzo di Elena Ferrante

03 settembre 2021
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In concorso a Venezia l'opera prima di Maggie Gyllenhaal da regista. The Lost Daughter è un adattamento libero del romanzo di Elena Ferrante con Olivia Colman.

The Lost Daughter: recensione dell'opera prima di Maggie Gyllenhaal tratta da un romanzo di Elena Ferrante

Un’isola della Grecia, invece che il sud Italia. È questa la libertà principale che si è presa Maggie Gyllenhaal, all’esordio alla regia in un lungometraggio con The Lost Daughter, adattamento del romanzo La figlia oscura di Elena Ferrante, pubblicato nel 2006.

L’immagine idilliaca di un’isola greca, con acqua cristallina, spiagge incontaminate e folklore locale viene ribaltata, sostituita da un costante senso di disagio che accompagna la permanenza di Leda, professoressa di mezza età di letteratura comparata, specializzata in traduzione dall'italiano. È sola, quando arriva nella località di villeggiatura. Presto però la quiete di ombrellone e lettino, luogo d’elezione per letture e studio, viene turbata dall’irruzione di una variopinta famiglia allargata di americani del Queens. Sono originari del paese mediterraneo, e ogni estate sbarcano in paese, con chiasso e poca grazia acclusa.

Le dinamiche fra di loro sono confuse, e dal gruppo emerge una quarantenne alle prese con una gravidanza avanzata e una bambina insieme alla madre, Nina, interpretata da Dakota Fanning. Personaggi poco chiari, un vero clan in cui i maschi si tengono appena a distanza mentre le donne studiano la nuova arrivata, con bene in mente il “territorio” da preservare. Leda è un personaggio aspro, turbato dall’irruzione nella sua quotidianità di una madre e della sua figlia, capace di far riemergere ricordi del suo approccio complicato alla maternità. La Gyllenhaal alterna il racconto degli avvicinamenti e delle tensioni striscianti fra le due donne (e il clan del Queens) con flashback insistiti. Una camera a spalla appiccicata ai volti di Leda giovane e alle due sue bambine dà forma ai suoi incubi e alle sue angoscie.

Una bambola malridotta si ritrova al centro di un gesto impulsivo, e incomprensibile, pronto a generare ulteriore tensione in Leda, proprio mentre i ricordi delineano il ritratto più chiaro di un approccio anticonformista alla maternità, con sensi di colpa lancinanti che ancora l’accompagnano, mentre il suo buen retiro sull’isola diventa sempre meno solare, scivolando invece in un’atmosfera a rischio esplosione. Personaggi respingenti e complessi, raccontati senza troppo andare per il sottile, in maniera molto carica e supponente, spesso sopra le righe, con un’idea di cinema fin troppo artefatta, rispondente al manuale dell’autore arthouse. Ne paga le conseguenze anche un’interprete di grande spessore come Olivia Colman, più volte fuori tono, come un film che spreca intriganti premesse e un materiale di partenza promettente, che avrebbe meritato toni sfumati e una maggiore grazia.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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