un film muto anacronistico, ma che poi funziona! - L'ultima follia di Mel Brooks (1976)

L'ultima follia di Mel Brooks

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Un film di Mel Brooks. Con Sid Caesar, Mel Brooks, Marty Feldman, Bernadette Peters, Dom DeLuise.
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Titolo originale Silent Movie. Commedia, Ratings: Kids+13, durata 86 min. - USA 1976. MYMONETRO L'ultima follia di Mel Brooks * * * 1/2 - valutazione media: 3,67 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Un film muto anacronistico, ma che poi funziona! Valutazione 3 stelle su cinque

di GreatSteven


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gioved� 12 luglio 2018

L'ULTIMA FOLLIA DI MEL BROOKS (USA, 1976) di MEL BROOKS. Con MEL BROOKS, MARTY FELDMAN, DOM DELUISE, SID CAESAR, HAROLD GOULD, RON CAREY, BERNADETTE PETERS, BURT REYNOLDS, JAMES CAAN, ANNE BANCROFT, MARCEL MARCEAU, PAUL NEWMAN, LIZA MINNELLI
Mel Spass era il regista più in voga di Hollywood prima che si buttasse a capofitto nell’alcolismo. Gli viene in mente un’idea, insieme ai suoi soci inseparabili Bellocchio e Trippa, per ritornare agli antichi fasti: realizzare un film muto. Ma il direttore dello Studio boccia la proposta, considerando che lo stesso sta anche attraversando un periodo estremamente buio in quanto una Compagnia avversaria, Trangugia e Di Vora, intende rilevarlo e assorbirlo. Spass contro popone al suo Capo di scritturare tutti i più famosi divi hollywoodiani del momento affinché l’opera riscuota il successo sperato, sia per rilanciare il regista sia per salvare lo Studio dalle grinfie del conglomerato rivale. Uno dopo l’altro, vengono contattati nell’ordine Burt Reynolds, James Caan, Liza Minnelli, Anne Bancroft, Marcel Marceau e Paul Newman, e tutti (salvo Marceau, chiamato da Parigi mentre il Direttore è in ospedale per un leggero infarto) accettano di partecipare al film. Trangugia e Di Vora s’ingegna e fa di tutto pur di fermare Spass mentre ingaggia il cast, ma non riesce nel suo intento, pertanto decide di giocare la carta del sesso: Vilma Kaplan, nota e procace spogliarellista, dovrà far innamorare di sé Spass per poi indurlo a pagare alla Compagnia un assegno di 50.000 dollari. Ma le cose non vanno come previsto: Vilma s’infatua davvero del regista e disdice il contratto per cui Trangugia e Di Vora l’aveva assunta, ma prima ancora che Bellocchio e Trippa lo vengano a sapere sentendola parlare al telefono, Spass scopre la truffa in cui è caduto e, per disperazione, ricomincia a bere. Bellocchio, Trippa e Vilma (ormai convertitasi alla causa del regista e del film che deve cominciare a girare l’indomani) recuperano Mel in un quartiere di ubriaconi addormentati e lo rimettono in forma affinché possa procedere con le riprese. Il film viene ultimato a tempo di record, ma giusto nelle ore antecedenti dell’anteprima esclusiva, l’unica copia della pellicola viene rubata dagli scagnozzi del direttore di Trangugia e Di Vora. Spass, Trippa e Bellocchio corrono subito a recuperarla e ce la fanno, ma i nemici li tengono impegnati in un lunghissimo inseguimento che durerà fino a tarda notte e che si risolverà a favore dei nostri eroi grazie ad un fortuito quanto provvidenziale stratagemma. Il pubblico in sala, nel frattempo intrattenuto da uno spettacolo dal vivo di Vilma, sta per andarsene, quando le quinte si spalancano, il terzetto riporta in camera di proiezione la pizza con dentro la pellicola e il film può essere proiettato. Rimane un ultimo dubbio: il film sarà un fiasco o meno? Nella seconda e migliore ipotesi, Spass promette a Vilma di sposarla. Inaspettatamente, l’ultima fatica di Mel Spass non delude le aspettative e viene accolta da uno strepitoso applauso. Lo Studio è salvo e anche la carriera del regista ex etilista. Recensire le commedie slapstick, di qualunque epoca siano, non è mai stato troppo difficile per nessun critico cinematografico, dato lo stile formato da gag a catena e supportato dal divertimento in molti casi fine a sé stesso che non pretende di spiegare chissà quali arcani significati. Eppure, questo Silent Movie (probabilmente l’unico film al mondo muto e contemporaneamente a colori) ha una marcia in più: intanto perché entra direttamente nell’universo Cinema e lo esplora in tutti i suoi vizi e virtù (i capricci e le contese intestine dei direttori degli studios, le aspettative dei cineasti, il coinvolgimento degli attori, le figure esterne assoldate per scopi loschi, la necessità dell’approvazione del pubblico pagante al box office), e poi perché evita il rischio di limitarsi a mettere in fila gli effetti speciali per inscenare momenti spassosi a ripetizione, preferendo concentrarsi sul mestiere (o meglio, i molteplici mestieri) che la settima arte comporta, ovvero quell’insieme di professioni complementari il cui obiettivo finale è, nel caso più edonistico e malvagio (vedi la Compagnia Trangugia e Di Vora), intascare quattrini a palate, e, in quello maggiormente legato alla passione e al talento artistici e alla voglia di divertire la gente, appunto impegnarsi per costruire storie che sappiano suscitare interesse, gioia, compartecipazione emotiva. Brooks, facendo un film dentro a un altro film, v’è riuscito alla perfezione, brillando anche come interprete protagonista che alterna una fisicità esilarante ad espressioni facciali di una strabiliante varietà. Gli fanno da spalla gli altrettanto efficaci Feldman e DeLuise, sempre seduti nei loro spericolati viaggi per Los Angeles sui sedili della loro buffissima automobile gialla. Lodevoli anche le prove di S. Caesar nelle vesti del volubile ma empatico capoccia dello studio di Hollywood e di B. Peters nel ruolo della strip-teaser che si redime una volta scoperto l’autentico amore e le cause ideali per cui valga la pena combattere. Quanto agli attori che interpretano sé stessi, non c’è una sequenza che non faccia sbellicare: Reynolds prima sotto la doccia coi tre che lo insaponano e poi travolto dal mantello bianco che lo fa ruzzolare insieme ad essi giù per il marciapiede del giardino; Caan che dà un pugno con guantone in faccia a loro uno per uno e poi li accoglie nella sua roulotte pericolosamente instabile; Minnelli che rimane coinvolta negli scivoloni del trio travestito con pesanti corazze di ferro in un mare di tavoli e pietanze rovesciati; Bancroft spinta a ballare coi "veri" Flamencos in una danza latineggiante che, al termine di un carosello di balzelli e giravolte, strapperà il suo consenso per il film muto; Marceau (trattandosi d’un mimo, e fra i migliori sul pianeta, non poteva che essere lui a pronunciare la sola parola – «Non!» – che si ode in tutti e ottantaquattro i minuti di proiezione, non solo per il gusto dell’autoparodia ironica, ma anche perché Brooks finge di non averla capita giacché ignora il francese) che arriva a rispondere al telefono solo dopo aver chiuso la finestra, rea d’aver generato nella stanza una terribile corrente d’aria; e infine Newman con la gamba ingessata che chiede di far parte del film soltanto dopo essersi fatto inseguire per tutti gli esterni dell’ospedale a bordo di un macinino elettrico comandabile a mano. Una commedia che sa combinare con arguzia il pathos alla creatività e l’antiretorica alla struttura accurata della sceneggiatura. La quale, come ogni film muto che si rispetti e che degni in pieno questa denominazione tutt’altro che desueta e scontata, viene mostrata attraverso didascalie con gli attori che gesticolano e muovono le labbra ricorrendo all’arte della pantomima che maestri come Chaplin, Keaton, Lloyd e Laurel & Hardy hanno senz’altro potuto insegnare al loro successore M. Brooks, nella speranza che lui (classe 1926, dunque cresciuto con le comiche dei sopracitati) apprendesse il più possibile. Il miracolo sperimentale è avvenuto.

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