John Sebastian Locke è considerato uno dei padri fondatori del liberalismo politico. La sua importanza nel panorama filosofico europeo è data anche dalla corrente nuova di pensiero che dalle sue idee emerge: l’empirismo. Non è un caso se per tutto il Settecento gli avvenimenti, le scoperte e le rivendicazioni prenderanno avvio in un contesto definito “illuminismo”.

Il Seicento è un anno piuttosto prolifero di nuove correnti, possiamo infatti ricordare il razionalismo di Cartesio, il materialismo gnoseologico di Hobbes, l’empirismo di Lock e la sua evoluzione scettica con il filosofo Hume.

Locke e la critica all’innatismo di Cartesio

John Locke è il padre dell’empirismo, ma cosa vuol dire? Secondo Locke la conoscenza deriva dall’esperienza. Tutto quello che conosciamo è frutto di operazioni che la mente fa attraverso l’esperienza. Prima di giungere a questo, Locke deve combattere una battaglia contro l’innatismo.

Con innatismo si intende la serie di teorie che riportano come parte della conoscenza umana è innata, per esempio l’idea di Dio per Cartesio. Locke si trova a criticare l’innatismo perché è un errore molto pericoloso. Alla base dell’innatismo vi è un’idea pericolosa, cioè che la propria idea sia quella giusta.

Ogni setta religiosa o politica è convinta che la propria idea sia giusta e giustifica con questa il fanatismo e l’intolleranza. Innatismo e assolutismo hanno le stesse basi: la prospettiva dogmatica, quella fanatica e intollerante.

Per John Locke invece le idee innate vanno superate. E lo fa attraverso un passaggio logico: se le idee fossero innate i popoli differenti avrebbero le stesse idee di Dio, morale, costumi e religione, ma non è così. Inoltre, se un’idea fosse innata, dovrebbero possederla anche i bambini, ma sappiamo che sono gli adulti a introdurre le idee nei più piccoli, anche quella di Dio.

La verità è quindi una sola: non esiste l’idea innata di Dio, perché le idee sono figlie dell’esperienza. L’intelletto è una tabula rasa, un libro bianco, uno spartito senza note su cui l’esperienza incide il materiale da cui la mente elabora la conoscenza.

La teoria della conoscenza

La conoscenza deriva dall’esperienza (empirismo) e tutto ciè che conosciamo è frutto di operazioni che la mente fa attraverso l’esperienza.

Secondo Locke la conoscenza è possedere idee che siano:

  • semplici: quelle immediate come forma luce colore, tatto) e quelle riflessive, cioè quelle in cui noi compiamo delle operazioni. Le idee semplici sono la base della conoscenza più articolata e si accumulano in maniera passiva;
  • complesse: sono il prodotto di una mente attiva che compie tre operazioni: unione, comparazione e astrazione.

Da qui Locke designa tre valori diversi alla conoscenza empirica:

  • la sensazione (conoscenza sensibile) dell’esterno, quindi la materialità;
  • l’intuitiva, alla cui base c’è l’io e il percepirsi come dell’io come essere pensante, quindi la conoscenza da dentro;
  • per dimostrazione, da teorema a teorema e riguarda le leggi della fisica, dell’architettura e della meccanica.

L’ultimo step della conoscenza dimostrativa sarà comunque Dio, anche per Locke. Poiché tutto ha una causa, ci deve essere una causa prima da cui tutto deriva, cioè Dio. Locke dimostra, con una logica matematica, Dio.

Lo Stato liberale

John Locke è un liberare e nei suoi trattati fonda l’idea di uno Stato liberare, che nasce per la tutela dei diritti naturali. Lo Stato, secondo Locke, non priva l’uomo della libertà di cui godeva in natura, al contrario. Lo Stato è un patto dal basso per la tutela dei diritti naturali che in natura la violenza (vendetta) avrebbe potuto cancellare.

Contemporanei di Locke avevano affermato che la sovranità era di stampo patriarcale e patrilineare, cioè passava da Dio ad Adamo, da Adamo ai padri e da questi ai Re, dall’alto verso il basso. Locke è un anti-assolutista, come per le idee innate.

L’uomo in natura (stato di natura) è libero, ma non è libero dalla violenza. Nello stato di natura l’uomo deve sopravvivere e per farlo ha bisogno di cooperare. La cooperazione serve per non danneggiare gli altri, non è una legge politica, ma naturale. La conviveva è un accordo per il quale l’uomo limita la propria libertà in favore della sopravvivenza. L’uomo è razionale ed è la ragione che gli permette di compiere delle scelte come la convivenza per la sopravvivenza.

Ma allora perché abbiamo abbandonato lo stato di natura? Il diritto a farsi giustizia da sé (vendetta) - che non guida tutti, ma basta solo un soggetto spinto alla vendetta per far saltare la convivenza - deve essere limitato. La politica nasce nello stato di natura quando l’uomo si accorge che la vendetta degenera nello stato di guerra. Per superare tale stato serve un patto, un accordo razionale per produrre una sovranità collettiva che non toglie diritti, ma protegge invece dalla vendetta, cioè dalla giustizia da sé.

Qui entra in gioco lo Stato liberare, dove il potere dello stesso serve a garantire, con la legge, la giustizia, cioè il rispetto reciproco dei diritti naturali.

Il primo momento dello Stato è il patto, cioè l’unione per far nascere la sovranità collettiva; in un secondo momento si cede la sovranità a una persona super partes.

Le caratteristiche del patto sono: