"Miseria e nobiltà" compie 70 anni: capolavoro del cinema popolare italiano, tra i tanti apici di Totò | Corriere.it

"Miseria e nobiltà" compie 70 anni: capolavoro del cinema popolare italiano, tra i tanti apici di Totò

diFilippo Mazzarella

Nel 1954 usciva la seconda delle tre incursioni di Mario Mattòli nelle farse di Eduardo Scarpetta

Settant’anni fa, il 17 aprile 1954, a soli sette mesi da “Un turco napoletano”, usciva nelle sale italiane “Miseria e nobiltà” di Mario Mattòli con il “principe della risata” Totò: fu la seconda delle loro tre incursioni filmate a breve distanza (il capitolo conclusivo fu “Il medico dei pazzi”, che uscì a settembre 1954) nelle farse del grande Eduardo Scarpetta, realizzata più o meno con le stesse caratteristiche dell’adattamento precedente (Totò nei panni “intercambiabili” di Felice Sciosciammocca; l’“asciugatura” del meccanismo ad opera stavolta del solo sceneggiatore Ruggero Maccari; la sfavillante fotografia in FerraniaColor ancora diretta dal chapliniano Karl Struss -e Luciano Trasatti, già co-operatore di Fellini in “I vitelloni”-; la cornice da “teatro filmato”). 

Decisamente il migliore dei tre film, è quello in cui l’intreccio scarpettiano funziona come un congegno implacabile e intricatissimo fino ai confini dell’irriassumibilità, densissimo malgrado la sua esigua durata, in cui gli scambi d’identità, le agnizioni di ribaltamento, il ritmo della narrazione e l’affiatamento del cast sono completamente sostenuti dal tema, fortissimo e tradizionalmente napoletano, della fame “pulcinelliana” come fondamento e motore della commedia dell’arte. Il rapporto tra il personaggio di Pulcinella e la fame è un tema ricorrente nella tradizione teatrale italiana; la sua fame, qui estesa all’intero nucleo dei protagonisti, non è solo una necessità fisica, ma anche un elemento metaforico che riflette le condizioni socio-economiche dei gradini più bassi della scala sociale.

 Se l’eternamente affamato Felice Sciosciammocca, epigono di Pulcinella, è il prototipo dell'italiano medio costretto a lottare per tirare a campare in un mondo dominato dalla povertà, il rapporto tra i personaggi e la fame diventa così un tema che si fa strumento d’esplorazione “leggera” della condizione umana tutta, fornendo per contrappunto anche terreno fertile per un umorismo sovente surreale e un’idea di satira garbata ma non per questo meno acida. Come “Un turco napoletano”, infatti, anche “Miseria e nobiltà”, pur ambientato in uno spiraglio fin de siècle, mirava a sottolineare molte inclinazioni dell’Italia coeva del Boom, sovrapponendo a quello del protagonista l’afflato dell’”uomo comune” a migliorare la propria condizione di vita in una società italiana “mutante”, ma ancora profondamente vincolata ad assunti identitari e, talora, alla necessità della menzogna come temporaneo mezzo di emancipazione dal disagio. 

Scritta nel 1887, la farsa scarpettiana prende le mosse qui nella Napoli del 1890, dove lo scrivano nullatenente Felice Sciosciammocca (Totò), separato dalla moglie Bettina (Giulia Melidoni), campa di prestiti e convive con la compagna Luisella (Dolores Palumbo) e il piccolo figlio settenne Peppeniello (Franco Melidoni), ma condivide la sua casa affittatagli dal sempre creditore di pigione don Gioacchino (Enzo Petito) anche con il parimenti indigente amico Pasquale (Enzo Turco), la dl lui moglie Concetta (Liana Billi) e la loro figlia Pupella (Valeria Moriconi). La condizione di fame atavica e povertà che affligge le due famiglie sembra però miracolosamente potersi risolvere grazie alla proposta del facoltoso marchesino Eugenio Favetti (Franco Pastorino), fidanzato con la ballerina Gemma (Sophia Loren). Il giovane uomo ha un problema molto “classico”: la sua famiglia non vede di buon occhio la relazione con una ragazza non nobile benché benestante, al contrario del padre di Gemma, l’ex cuoco arricchito Gaetano Semmolone (Gianni Cavalieri) che sogna di imparentarsi con dei nobili e quindi pretende di conoscere i parenti del futuro genero. Eugenio offre così un inatteso compenso a Sciosciammocca e ai suoi conviventi perché si fingano suoi parenti in occasione di un incontro tra le due famiglie. Ma non è l’unica sorpresa: il giovane Luigino Semmolone (Carlo Croccolo), fratello di Gemma innamorato di Pupella, fa infatti recapitare loro a domicilio un pranzo completo ed estingue totalmente il debito d’affitto con don Gioacchino. Il marchesino e i suoi finti parenti nobili si presentano così a casa Semmolone, e malgrado la loro condotta spesso sospetta (poiché ovviamente non inappuntabile), Gaetano acconsente al matrimonio offrendosi anche di ospitare presso di sé tutti i suoi nuovi parenti; ma ovviamente niente andrà poi come previsto e la situazione si ingarbuglierà con l’arrivo di nuovi protagonisti. Perché Peppeniello, che ne ignora l’esistenza, conoscerà sua madre Bettina, che vive a casa Semmolone come dama di compagnia di Gemma; ma soprattutto perché, nel frattempo, annunciandosi sotto il falso nome di “Bebé”, il vero marchese Favetti (Giuseppe Porelli) si presenta a casa Semmolone per corteggiare Gemma (anche se poi dirà di averlo fatto solo per capire se la donna fosse degna di suo figlio). Naturalmente, alla fine gli impostori saranno scoperti dopo un convulso gioco di equivoci; e il clan Sciosciammocca tornerà alla miseria originaria dopo aver però fatto una epica mangiata.
 
Meno libero che nel precedente adattamento scarpettiano e meglio disposto ad asservire le necessità di un cast strepitosamente corale che ha per punta di diamante anche una Sophia Loren di straordinaria bellezza ed efficacia, Totò non si risparmia: se a entrare di diritto nella storia è la sequenza in cui Sciosciammocca e gli “affamati” danzano mangiando e infilandosi gli spaghetti in tasca terrorizzati dall’idea che qualcuno glieli sottragga, a stagliarsi nella memoria sono però le battute folgoranti per esorcizzare l’indigenza (“A casa nostra, nel caffellatte non ci mettiamo niente: né il caffè né il latte”; “Io non faccio il cascamorto; se casco, casco morto per la fame”), le abituali boutade “osé” (“Cara nipote! Noi ti accoglieremo nel seno della nostra famiglia; e tu accoglici sul tuo) e le elucubrazioni più serie dalla caratteristica quasi aforismatica (“La vera miseria è la falsa nobiltà”).

 Capolavoro del cinema popolare italiano e uno dei tanti apici della sterminata filmografia di Totò, “Miseria e nobiltà” (di cui esistono altre due trasposizioni per il cinema: quella, perduta, del 1914, interpretata dallo stesso scarpetta e da una sedicenne Titina De Filippo; e quella, anodina, del 1940 di Corrado D’Errico) non è mai più stato oggetto di alcun remake cinematografico; forse anche perché l’anno successivo il genio di Eduardo De Filippo la cristallizzò molto oltre i confini partenopei grazie alla sua trasposizione realizzata per la potenza di profondità di un “nuovo” e rivoluzionario mezzo: la televisione. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.

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17 aprile 2024