Tre film live-action tratti da manga ed anime che non smettono di estasiarci

Tre film live-action tratti da manga ed anime che non smettono di estasiarci

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C'è un assunto che sembra essere condiviso da buona parte degli appassionati di anime, malgrado sia basato su una mera supposizione collettiva: ovvero che gli adattamenti live-action dei manga non sono equiparabili alle loro controparti cartacee. Eppure i tre film che andremo ora ad analizzare, contribuiscono a sfatare irrimediabilmente tale asserzione.

Se ci si concentra solamente sulle traduzioni dal vivo dei prodotti “popolari” dell'industria fumettistica nipponica, anche – e soprattutto – tra quelli che rientrano nella classifica dei 10 manga più venduti nella storia di Shōnen Jump, è chiaro che le transizioni dalla carta stampa all'immagine in movimento si innervano di connotazioni negative, contribuendo così a consolidare, a livello collettivo, l'assunto presentato in partenza. Del resto le opere shōnen, specialmente quelle che hanno catalizzato i discorsi globali sulla cultura pop nipponica, e che sono solitamente oggetto di serializzazioni estese nel tempo, rappresentano anche i lavori meno affini a questo travaso di linguaggi: proprio perché fondano le logiche e le grammatiche che li contraddistinguono su cornici narrative dall'ampio respiro, (quasi) impossibili da reiterare in una dimensione temporalmente limitata come quella cinematografica, caratterizzata da ritmi e strategie narrative diametralmente differenti.

Ma il discorso cambia nel momento in cui ad essere tradotti sul grande schermo sono quei manga tarati su fasce di lettori più adulte, generalmente riconducibili al panorama dei seinen o delle storie brevi, le cui estetiche maggiormente realistiche – o comunque meno iperboliche – si pongono in continuità con le grammatiche del cinema. Perciò se il prossimo film live-action di Naruto può sollevare – anche legittimamente – delle perplessità, nell'istante in cui andiamo ad analizzare quel corpus di adattamenti – sia nipponici che internazionali – esterni ai battle shōnen, ecco che le discussioni iniziano a vertere su un panorama di lungometraggi straordinari, che funzionano sia come prodotti derivati della cultura pop giapponese, sia come opere a sé stanti: a partire da Blue Spring (2001).

Adattato dall'omonimo manga di Taiyō Matsumoto, l'opera seconda di Toshiaki Toyoda è un trattato deflagrante sull'alienazione giovanile, capace com'è, in piena continuità con lo stile ipercinetico del regista, di veicolare lo sfasamento esistenziale esperito dai giovani criminali giapponesi (i cosiddetti yankii) attraverso linguaggi propriamente anarchici. E lo spirito rock'n'roll che trapela da ogni singola inquadratura, e non solo a livello di soundtrack, offre a chi guarda un'esperienza deliberatamente sensoriale e altisonante, dove le tendenze all'autodistruzione degli studenti di una scuola maschile di inizio Millennio lasciano trapelare una vulnerabilità di fondo abbacinante: quasi a connettere le crisi attraversate in campo dai protagonisti a quel senso di incompiutezza che buona parte di noi ha esperito nel corso dei propri processi formativi.

È chiaro poi che ogni discorso o ricognizione sui migliori film live-action tratti da manga o anime non può che radicarsi sul cineasta che più di tutti ha portato alla luce i prodotti della cultura pop nipponica: ovvero Takashi Miike. L'incontenibile regista, capace di lavorare a ritmi serratissimi e di giocare con tutte le ramificazioni dei linguaggi audiovisivi, fino ad abbattere le barriere tra orizzonti mediali (del resto si è formato nell'industria del video) ha diretto negli anni moltissime opere derivate da manga, dalla trilogia di The Mole Song (2013-2021) a Il canone del male (2012) fino alla duologia di Crows Zero (2007-2009), ma nessun film ha catalizzato l'attenzione come il suo iconico Ichi the Killer (2001) dove il cineasta non solo restituisce un grado di visceralità assolutamente estetizzante ed iperbolico alle nefandezze (iconografiche e comportamentali) messe in scena dal manga di Yamamoto, ma le porta ad una dimensione quasi trascendentale: di cui non esistono dei reali omologhi nella settima arte, se non nel cinema di un genio folle come Miike.

Il terzo ed ultimo film su cui si vuole qui concentrare l'attenzione non è né un adattamento di un manga né tanto meno presenta una derivazione nipponica: si tratta del (brutalmente sottovalutato) Speed Racer (2008) delle sorelle (al tempo ancora fratelli) Wachowski. Le cineaste di Matrix mettono qui in comunicazione le utopie del loro cinema con le dinamiche rocambolesche dell'iconico anime del 1967 Superauto Mach 5, per abbattere ogni barriera tra verosimiglianza e iperrealismo, fino ad offrire una vertigine (estetica, narrativa, e formale) che strega l'attenzione per quanto è anarchica e dirompente. Dando così vita ad un film che sintetizza in poco più di due ore tutti i discorsi accademici sulle proprietà iconiche dell'immagine in movimento, fino ad anticipare con grande lucidità le traiettorie verso cui si sarebbero diretti i linguaggi cinematografici (e videoludici) della contemporaneità.

FONTE: gamerant

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