Fiore del deserto Recensione

Fiore del deserto: recensione del biopic sulla top model Waris Dirie

06 aprile 2016
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L'incredibile storia vera di una donna distrutta dall'infibulazione e diventata un'icona.

Fiore del deserto: recensione del biopic sulla top model Waris Dirie

A tre anni la piccola Waris, figlia di una famiglia nomade in Somalia, subisce l'infibulazione. Adolescente, viene promessa in sposa a un pastore come sua quarta moglie, ma rifiuta il suo destino e fugge. Per alterne sorti, ultraventenne si ritrova a Londra, quasi a digiuno di inglese: diviene amica di una ballerina (Sally Hawkins) e viene notata per caso da un celebre fotografo (Timothy Spall), che in breve tempo scopre in lei una splendida top model. Lo scontro culturale e il trauma fisico le impediranno di integrarsi sul serio, ma si farà portavoce delle donne che hanno subìto il suo calvario.

Fiore del deserto (traduzione letterale di "Waris") è basato sul romanzo autobiografico della vera Waris Dirie, adattato per lo schermo e diretto dalla regista americana Sherry Hormann, attiva in Germania. Ultimato nel 2009, viene distribuito solo adesso in sala, ma si tratta di un recupero interessante: il film è infatti l'innesto di una drammatica opera di denuncia (che non risparmia la scena dell'infibulazione) nella classica impalcatura della commedia etnica. Per rischiosa che sia l'operazione, la Hormann esce bene dall'esperimento, appoggiandosi alla grazia e all'eleganza di Liya Kebede, interprete di Waris da adulta, nonché modella e attivista lei stessa.

Nonostante una Sally Hawkins sin troppo sopra le righe, l'anello più debole della catena, l'anima di commedia di Fiore del deserto è ben calibrata, perché alleggerisce il tema di fondo ma non ha l'immaturità di coprirlo. Quando il copione chiama in causa stereotipi come il bravo ragazzo invaghito di Waris (Anthony Mackie) o il buffo inserviente che diverrà suo marito solo per la green card (Craig Parkinson), il loro svolgimento non sfocia in soluzioni che cancellino la ferita, fisica e psicologica, della protagonista: anzi, Fiore del deserto diventa inaspettatamente la storia di una conquista tardiva e faticosa della sessualità, dove la collisione tra l'insopportabile tradizione tribale e le convenzioni occidentali spingono Waris, così come lo spettatore, a dare valore al corpo in un percorso unico, come unico è stato quello della protagonista nella vita vera. In un equilibrio quasi costante, l'apparente facilità dell'integrazione viene negata da contrasti insanabili e spesso nascosti (la scena dell'interprete dal ginecologo, magistrale), mentre il glamour, filtrato da un occhio sinceramente artistico come quello del fotografo, non è liquidato come mercificazione, bensì diventa simbolico risarcimento.

C'è insomma della sensibilità e dell'intelligenza nella costruzione di Fiore del deserto, qualcosa che riesce a costruire una dimensione umana e leggera su una pratica devastante, tramutando il rischio di una mancanza di rispetto in un percorso verso la ricerca di una sofferta identità.



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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