Fino all'ultimo indizio - Recensione

A quasi trent'anni di distanza, John Lee Hancock vede prender vita il suo script più nero, che non riesce però a superare la prova del tempo.

Fino all'ultimo indizio - La recensione

LA RECENSIONE IN BREVE

  • Hancock dirige un noir da lui scritto nel 1993, dando l'idea che sia rimasto in quell'anno.
  • Washington fornisce una grande prova, come suo solito, ma è frenato dal duo Malek - Leto.
  • La scrittura e la regia scadono nel didascalico, finendo con tradire il senso stesso del film.

Non è sempre vero che una buona idea sia buona sempre. Bisogna mangiarla prima che scada, parafrasando Gaber, e una data di scadenza c'è sempre, guai a credere all'eterno stato di sospensione dell'astrazione. In alcuni casi proporla fuori tempo massimo può essere una colpa relativa; in altri può essere l'unica cosa che conta; in quelli più sfortunati, infine, al ritardo si può sommare l'approssimazione. In questo ultimo scenario almeno però si può correre il rischio di rimanere sorpresi: magari l'idea così buona non lo è stata mai.

A quale categoria appartiene Fino all'ultimo indizio (The Little Things il titolo originale), il noir di John Lee Hancock con protagonisti Denzel Washington, Rami Malek e Jared Leto, noleggiabile sulle principali piattaforme di streaming?

 
Chi crede nel colpo di fulmine?

Non ci eravamo già incontrati?

Hancock scrisse la pellicola nel 1993, quando era nel folto gruppo di nomi che grazie al noir cominciarono a prendere piede nel cinema americano. Erano gli anni in cui il genere conquistava il grande pubblico con pellicole come Se7en di David Fincher (con cui Fino all'ultimo indizio ha più di una cosa in comune), e trovava consensi anche dall'altra parte del globo con capolavori come Memorie di un assassino di Bong Jon-hoo (anche se lì siamo già negli anni 2000).

La chiave di questa nuova corrente del genere è quella di ribaltare la prospettiva con cui si affronta l'indagine di una mente criminale, ponendo la lente sulla testa di coloro che l'indagine la fanno, accompagnando la loro discesa nell'inferno in modo da renderla terreno di discussione per i dilemmi morali e psicologici che portano alla catarsi con lo spettatore e ne catturano l'interesse. Un filone che ha trovato poi un nuovo successo nei tempi moderni nel piccolo schermo con True Detective e, in qualche misura, anche in Mindhunter, sempre di Fincher. Capite ora quanta letteratura è nata e si è accumulata in questi quasi 30 anni e di come, a prescindere, sarebbe stato molto difficile per Hancock proporre il suo film scrollandosi di dosso l'idea del "grazie, lo abbiamo già visto"?

Purtroppo per lui solo dopo il suo buonissimo Highway Men ha avuto la possibilità di fargli vedere la luce. Come anticipato, però, questo non è il (vero) problema del film.

 
Hai preso appunti?

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In una sorta di incidentale parallelismo con il suo autore, la storia, dopo un efficace, ma veramente molto già visto, preludio, si apre con il faccione del vice sceriffo Joe Deacon (Washington) e con la possibilità insperata (e non si sa bene quanto augurata) per lui di tornare a Los Angeles, luogo con il quale, è chiaro sin da subito, ha in comune un oscuro passato.

Tono che ci viene confermato dagli ex amiconi dell'apparentemente leggendario ex detective. Naturalmente nessun dettaglio (neanche piccolo) ci viene inizialmente rivelato, ma ovviamente ci verrà presto spiegato tutto. Lì fa la conoscenza del suo successore (almeno spirituale), l'agente Baxter (Malek), "un brav'uomo e un buon poliziotto", il nuovo che avanza con la puzza sotto al naso, ma in realtà il classico tipo che torna da mamma la domenica a farsi rammendare i pantaloni mimetici con cui conquista(va) le ragazze ai centri sociali o alle manifestazioni in piazza. Bei tempi.

Destino vuole che il giovane rampollo sia invischiato in un caso che ricorda un altro che sembra al centro (udite udite) del passato oscuro con LA del protagonista. Un serial killer specializzato in femminicidi arrivato alla quarta vittima e tuttora latitante. Non vi sorprenderà sapere dunque che i due decideranno di condurre l'indagine insieme e non vi sorprenderà sapere anche che il meccanismo scelto per la narrazione sia quello delle due vie parallele: una riguardante il caso attuale e l'altra che ricostruisce i fatti che hanno distrutto la vita di Deacon, arrivando a spostare sempre di più il focus sulle motivazioni di chi caccia e non di chi è cacciato.

Dove finisce il dovere? Dove inizia l'ossessione? Come si può combattere l'oscurità se se ne diventa parte? Tutte domande che sorgono al momento del comparire, finalmente, di un sospettato, il molto conciliante Albert Sparma (Leto). Tutto molto classico, nulla di nuovo e tutto già visto, ma comunque interessante direte voi (lo dite?). La trovata che funziona nel film è quella di annullare ogni tipo di accondiscendenza nei confronti dello spettatore, togliendogli qualsiasi antro di accoglienza morale, qualsiasi riparo che significhi bene o redenzione.

Allora perché la bocciatura?

Denzel for president.

The Little Things give you away

Peggio del falso ritmo della pellicola - che, dopo una prima mezzora incoraggiante, si va pian piano arenandosi, merito di una indagine elementare e piatta, alternata da flashback altrettanto scolastici - c'è la prova degli attori e la sconcertante didascalicità del racconto.

Tolto Denzel Washington, sempre bravo, sempre attento e sempre un figo (anche con qualche chilo di troppo), che con la sua fisicità e i suoi sguardi danza con lo spettatore, non c'è nulla da salvare in Rami Malek - in overacting costante (ma nulla di nuovo), non aiutato a dirla tutta neanche dal personaggio più debole di tutto il film - e ben poco in Jared Leto. A Leto piace il suo personaggio e piace soprattutto quella sensazione di raccapriccio che suscita a chi guarda, e ci sguazza, estremizzando tutto come suo solito e finendo presto nel caricaturale. Di gesti, sguardi, voce e tono, azzecca la camminata e tanto basta per metterlo sopra il Mercury Premio Oscar, fate voi.

The Little Things è il titolo del film di Hancock. I dettagli, le piccole cose, "quelle per cui ti beccano". Intorno ad essi dovrebbe girare la trama e intorno ad essi dovrebbe innescarsi il meccanismo risolutivo che nel finale (sempre molto Se7en) deve sorprendere lo spettatore. Ma se i dettagli sono urlati, ripetuti, enfatizzati, ribaditi, allora dettagli non sono più. Allora le Little Things diventano Big Things, che è il modo migliore per renderle Useless Things e bagnare le polveri al meccanismo prima di ricaricarlo. Se poi i dettagli non sono neanche così originali allora rischi anche di sparare a salve i colpi che ti rimangono o quanto meno permettere allo spettatore di schivarli come Neo, istruito da un "un reo confesso non è mai un omicida" o un "tieniti lontano dagli angeli". Se dici anche questo non ti salvi neanche citando Nietzsche.

Fino all'ultimo indizio è noleggiabile sulle principali piattaforme di streaming, a un prezzo che va dai 14,99 ai 20 euro.

Verdetto

John Lee Hancock dirige un noir da una sua sceneggiatura del 1993, sfidando la prova del tempo, ma viene tradito dal cast d'eccezione che il film si può vantare, dalla scrittura del suo impianto narrativo e dalla gestione delle sue idee.

In questo articolo

Fino all'ultimo indizio - La recensione

5.9
Mediocre
Una storia del '93 che al '93 sembra esser rimasta ferma, zavorrata dalla prova inadeguata di due star su tre.
Fino all'ultimo indizio
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