Everest: come è stata costruita la stazione meteorologica più alta del mondo | National Geographic

Everest: come è stata costruita la stazione meteorologica più alta del mondo

Sherpa e scienziati hanno affrontato condizioni atmosferiche avverse e folle da record per installare una rete di sensori fondamentale.

da Freddie Wilkinson

pubblicato 15-05-2020

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I climatologi Baker Perry e Tom Matthews, insieme a un team di Sherpa, hanno costruito una stazione meteo automatizzata sul "Balcone" dell’Everest. Si trova a circa 8.430 metri ed è la più alta mai installata; può intercettare la corrente a getto subtropicale, una serie di venti molto forti che circonda il pianeta ad altitudini molto elevate, notoriamente difficile da monitorare.

Questo articolo è supportato da Rolex che collabora con la National Geographic Society per far luce sulle sfide che i sistemi fondamentali per la vita sulla Terra devono affrontare attraverso la scienza, l'esplorazione e la narrazione. 

Campo base dell’Everest, Nepal - Poco dopo l’alba del 23 maggio 2019, i due climatologi Tom Matthews e Baker Perry si trovavano sul Colle Sud dell’Everest a 8.430 metri per una spedizione passata alla storia. Avevano investito mesi per organizzare l’installazione della stazione meteorologica più alta del pianeta.

Il team aveva lavorato a stretto contatto con un gruppo di ingegneri per costruire la struttura, alta oltre due metri per 50 chilogrammi, in modo che potesse resistere al freddo estremo e ai fortissimi venti che soffiano sul punto più alto della Terra. L’avevano testata in New Hampshire e in Nepal, per poi fare pratica insieme a sei Sherpa per montarla il più rapidamente ed efficacemente possibile. Sapevano che la mancanza di ossigeno e la stanchezza davano loro non più di tre/quattro ore per montare la stazione e renderla operativa.

Mentre il sole sorgeva sull’altopiano del Tibet, le condizioni sembravano ottimali: persino il meteo volubile tipico della stagione sembrava collaborare. Ma mentre Matthew e Perry estraevano i materiali, ecco il problema: mancava un pezzo fondamentale.

Per portare tutto così in alto avevano dovuto distribuire le componenti tra i membri della squadra e tra tiranti, pali di alluminio e strumenti scientifici, avrebbero dovuto esserci due tubature metalliche per collegare i sensori del vento alla struttura principale. Nonostante le lunghe ricerche, non li si trovava da nessuna parte. I climatologi si sono guardati, cercando di prendere una decisione con il cervello già a corto di ossigeno.

Perché investire così tanto e correre un simile rischio? Solo l’Everest e pochi dei suoi cugini himalayani sono alti abbastanza da raggiungere la corrente a getto subtropicale, un vento molto potente che ruota intorno il globo ad altitudini elevate influenzando ogni cosa, dalle tempeste fino alle stagioni di crescita delle colture. Per i climatologi è uno dei fenomeni più urgenti da studiare e questa stazione nasce come nuovo strumento di raccolta dati.

Eppure eccoli lì, in cima al mondo, senza un modo per attaccare il sensore del vento: la parte più importante della stazione

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Le tende lungo il camp 2 dell’Everest. Un team di geologi, glaciologi, biologi, cartografi e climatologi - insieme a guide e Sherpa - è arrivato fin qui nella primavera 2019 per condurre ampie ricerche scientifiche multidisciplinari, issare la stazione meteorologica più alta del mondo e prelevare un campione di ghiaccio lungo 10 metri.

FOTOGRAFIA DI Eric Daft,National Geographic

Una nuova finestra sul pianeta

Matthew e Perry erano arrivati sull’Everest nell’ambito di un ambizioso progetto scientifico sulla montagna. La National Geographic Society insieme alla Tribhuvan University, il governo nepalese e Rolex (finanziatore del progetto) ha organizzato una spedizione di due mesi che ha coinvolto 30 scienziati, impegnati in ricerche sul campo a diverse altitudini e nell’aspra valle Khumbu.

“È una nuova finestra sul pianeta”, spiega Paul Mayewski, direttore del Climate Change Institute alla University of Maine e direttore scientifico della spedizione. “Crediamo che il modo migliore per fare scienza sull’Everest sia non limitarsi a una disciplina, ma fare ricerca in molti ambiti”. Il gruppo multidisciplinare includeva geologi, glaciologi, biologi, cartografi e climatologi che hanno raccolto centinaia di campioni di acqua, neve e roccia, installato sensori appositi per monitorare la crescita della vegetazione e mappare il paesaggio con tecnologie laser ad alta risoluzione.

Il grosso del lavoro si svolgeva al campo base o più in basso ma per Matthews, Perry e il climatologo Mariusz Potocki, Mayewski aveva in mente ricerche sulla cima. Aiutati da un solido team di Sherpa, gli scienziati volevano installare stazioni meteo e prelevare carote di ghiaccio sia al Colle Sud che in vetta. Le due stazioni meteo - parte di una serie di sei sulla montagna e nei dintorni - sarebbero state le più alte del mondo. 

L’arduo compito di fare attività scientifica sopra gli 8.000 metri ha richiesto mesi di preparazione e pianificazione. Andava progettato, costruito e testato un equipaggiamento specializzato, mentre il team si doveva allenare non solo per la scalata della montagna più alta al mondo ma per lo sforzo fisico necessario a montare la stazione e prelevare le carote di ghiaccio. “Nessuno ha mai fatto attività scientifiche oltre i 7.000 metri prima. È tutto molto diverso lassù”, spiega Mayewski.

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Chris Millbern guida un drone per completare la raccolta di dati fotogrammetrici più completa mai fatta al campo base. Lo studio si serve di fotografie aeree per calcolare distanze e misurazioni contribuendo a mappare la zona in modo più accurato.

FOTOGRAFIA DI Mark Fisher,National Geographic

Quella che segue è la loro storia, raccontata grazie all’accesso esclusivo al campo base e alle interviste con i membri. 

Brutte notizie per l’Himalaya

Il cambiamento climatico agisce in modi differenti nelle diverse zone del pianeta”, mi ha raccontato un pomeriggio Paul Mayewski, seduto nella tenda delle comunicazioni al campo base, sul ghiacciaio Khumbu. Era la terza settimana di Maggio e le forti nevicate spazzavano le cime delle montagne, ricoprendo di neve le tende arancioni e nere. Mayewski, capelli argentati spettinati, 72 anni e un aspetto giovanile, parla chiaramente e in modo pragmatico.

“È una delle regioni continentali del mondo che si sta riscaldando più velocemente, ma non sappiamo davvero cosa stia avvenendo al di sopra dei 5.000 metri. Queste montagne sono la riserva d’acqua della Terra. Il 20-25% della popolazione sul pianeta deve la disponibilità d’acqua all’Himalaya”.

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Le lampade frontali illuminano il sentiero verso la cascata del Khumbu partendo dal campo base. Le stazioni meteo erette dal team seguono un sentiero simile, dal villaggio di Phortse fino al "Balcone" dell’Everest.

FOTOGRAFIA DI Eric Daft,National Geographic

Tre mesi prima, nel Febbraio 2019, l’International Center for Integrated Mountain Development ha rilasciato l’Hindu Kush Himalaya Assessment, un report cruciale che copre cinque anni. Lo studio ha incluso i dati raccolti da 350 ricercatori ed esperti di policy e previsto gli scenari futuri per il Grande Himalaya e i suoi abitanti mentre nei prossimi 80 anni il pianeta diverrà sempre più caldo. Anche se la comunità globale dovesse raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi stabiliti dall’accordo di Parigi, avverte il report, un terzo dei circa 10.000 ghiacciai della regione sarà scomparso entro fine secolo.

Per i 250 milioni di persone che vivono nella regione - e l’1,6 miliardi di persone che dipendono dall’acqua che vi origina - sarà un cataclisma. “Mentre cerchiamo di capire come sarà il futuro, comprendere cosa succede tra i 5 e gli 8.000 metri è cruciale”, dice Mayewski. Virtualmente tutti i ghiacciai dell’Himalaya hanno origine in zone nevose al di sopra dei 5.000 metri, perciò gli scienziati non possono davvero ricostruire quanto rapidamente si stiano sciogliendo se non vi si recano di persona, per studiare l’ambiente dove nascono. “Così avremo una comprensione migliore di come reagirà l’idrosfera - il sistema delle acque del pianeta - ai progressivi cambiamenti. Come cambieranno i venti e dove si trova la corrente. Nell’emisfero settentrionale è cruciale”. 

All’inizio della sua carriera Mayewski intraprese una serie di spedizioni in Antartide, attraversando diverse volte i monti Transantartici, e sul lato Nord dell’Everest, dove ha prelevato carote di ghiaccio a 6.500 metri. “Ho sempre voluto essere un avventuriero, un esploratore prima di tutto. Solo dieci anni dopo aver ottenuto il dottorato ho iniziato a pensare a me stesso come a uno scienziato. Trovo piuttosto sgradevole che la maggior parte delle persone pensi agli scienziati unicamente come nerd da laboratorio”.

Mentre parlava non perdeva d’occhio la radio, unico canale di comunicazione con il team che stava scalando verso la vetta. Non essere con loro era difficile, mi diceva. “Vorrei essere un leader che guida, e questo si fa stando in prima linea. Ma la nostra squadra è fatta di persone davvero competenti e c’è un limite a quante volte posso dire loro ‘per favore fate attenzione’”.

Il climatologo Mariusz Potocki si serve di un trapano apposito per prelevare una carota di ghiaccio dal Colle Sud. Scalare la montagna più alta del mondo è già di per sé complesso e pericoloso, ma gli scienziati avevano anche la responsabilità di completare un lavoro certosino con ridotta disponibilità di ossigeno e ingombranti attrezzature per affrontare il clima rigido.

FOTOGRAFIA DI Dirk Collins,National Geographic

Potocki ripone una parte della carota di 10 metri estratta al Colle Sud. Dopo aver prelevato i campioni, il gruppo ha iniziato la discesa e inviato il ghiaccio - mantenuto intatto per tutto il viaggio - al Climate Change Institute della University of Maine.

FOTOGRAFIA DI Dirk Collins,National Geographic

“L’incognita maggiore di quest’anno sono state le folle sulla montagna, probabilmente”, aggiunge Mayewski.

Tripodi indistruttibili e scavi estremi

Condurre una “ricerca sul campo significativa” sopra gli 8.000 metri, per usare le parole di Mayewski, comporta una serie di sfide davvero impegnative. Ad altitudini estreme, il controllo motorio e le capacità decisionali di un alpinista sono spesso compromesse. Erigere una stazione meteorologica o prelevare una carota di ghiaccio a 10 metri sono attività che richiedono diverse ore di sforzi al massimo delle proprie abilità. Ma in cima all’Everest bisogna lavorare indossando una maschera per l’ossigeno e i guanti, per evitare disorientamento e assideramento. 

Inoltre c’è la questione logistica, assicurare che l’equipaggiamento necessario venga trasportato fino in cima e che tutti i campioni di ghiaccio tornino a valle, restando perfettamente congelati nel viaggio dal Nepal agli Stati Uniti all’interno di freezer appositi progettati al Climate Change Institute. “Gli alpinisti arrivano in cima, scattano qualche selfie e poi scendono il prima possibile. Questo, invece, è l’equivalente di scalare la vetta e una volta arrivati iniziare ad assemblare un’automobile”, spiega Pete Athans, alpinista, che ha conquistato l’Everest sette volte e ha coordinato la scalata degli scienziati.

Per progettare e installare una serie di stazioni meteo automatizzate a diverse altitudini, Mayewski ha reclutato Baker Perry, un climatologo taciturno della Appalachian State University, ex giocatore professionale di basket in Bolivia, e Tom Matthews, un climatologo inglese della Loughborough University dalla parlata veloce e appassionato maratoneta.

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Inka Koch preleva un campione di neve vicino alla cima del Lobuche. L’Himalaya fornisce acqua a circa un quarto della popolazione mondiale. Gli scienziati sperano di usare i dati della spedizione per una miglior comprensione degli effetti del cambiamento climatico sulla montagna e sulle sue risorse.

FOTOGRAFIA DI Mark Fisher,National Geographic

“Non è possibile allestire una stazione perfetta”, mi dice Perry. “Soprattutto, trattandosi di pannelli solari e strumenti per le radiazioni, la scelta di sensori è limitata”. Un team di ricerca italiano ha installato una stazione meteo sul Colle Sud circa 10 anni fa, per vederla in breve devastata dai ciottoli spostati dal vento e lanciati come proiettili contro l’equipaggiamento. Perry e Matthews hanno collaborato con il team della Campbell Scientific, per aiutarlo a progettare e costruire sei stazioni.

La sfida principale è progettare un tripode sufficientemente leggero da poter essere trasportato ma anche abbastanza robusto da sopravvivere a venti che superano i 300 chilometri orari, mi dice Perry. La seconda è costruire un satellite abbastanza affidabile da trasmettere in tempo reale i dati dalla stazione. Mentre Perry e Matthews lavoravano sull’ultima versione del tripode, Mariusz Potocki, climatologo polacco che lavora con Mayewski alla University of Maine, era impegnato nella progettazione di un trapano speciale: abbastanza leggero per portarlo in cima all’Everest ma anche sufficientemente potente da riuscire a forare ghiaccio duro come roccia, e prelevare una carota a quote dove non era mai stato fatto prima.

Un po' come gli anelli che documentano la crescita di un albero, gli strati di ghiaccio contengono record storici delle sostanze chimiche presenti in atmosfera quando le gocce d’acqua si sono congelate. Con i dati della carota, Mayewski e Potocki sperano di riuscire a ricostruire le precipitazioni sulla montagna e la composizione dell’atmosfera in tempi pre-industriali. Informazioni critiche che fornirebbero un punto di partenza per valutare i trend climatici attuali. “I problemi principali erano alimentare il trapano e far risalire i frammenti di ghiaccio”, spiega Potocki in inglese smozzicato. “Quando scavi, stai rimuovendo il ghiaccio intorno al centro. Per questo è importante riuscire a trasportare i frammenti senza intoppi fino in cima al cilindro. Altrimenti, soprattutto se il ghiaccio è umido, il trapano potrebbe incastrarsi”. Potocki emette un suono secco, a mimare il trapano che resta bloccato. “E potrebbe essere la fine”.

In un grosso freezer da ricerca mantenuto a -10°C, alla University of Maine, Potocki ha testato cinque diversi trapani senza fili. Poi, insieme a Mayewski e due colleghi, è andato in Islanda per provare l’intero sistema. In seguito, l’intero team che si sarebbe arrampicato sull’Everest ha volato fino in Nepal, a gennaio, per fare diversi test sugli esperimenti e far pratica con un gruppo di Sherpa coordinato da Panuru Sherpa, arrivato in vetta 17 volte. “Ci è chiaro lo scopo del lavoro. Abbiamo visto la valle cambiare per tutta la nostra vita, quindi vogliamo aiutare”, spiega Panuru, aggiungendo che “gli Sherpa sono abituati a lavorare con gli attrezzi”.

Una fila di scalatori si arrampica verso la cascata Khumbu. La stagione 2019 è stata terribilmente affollata e il team di ricercatori ha dovuto rimandare di un giorno la spedizione per evitare lunghe file e ritardi.

FOTOGRAFIA DI Mark Fisher,National Geographic

La Sherpa Dawa Yangzum risale una scala nella cascata Khumbu. Prima donna dell’Asia meridionale a ricevere la certificazione dell’International Federation of Mountain Guide Association (IFMGA), ha guidato gli scienziati su e giù dalla montagna per posizionare le stazioni e prelevare i campioni di ghiaccio.

FOTOGRAFIA DI Mark Fisher,National Geographic

Previsioni e dita ghiacciate

Quando il team ha raggiunto il campo base a metà aprile, si è unito a un numero record di alpinisti che volevano spuntare l’Everest dalla lista di vette da scalare. Secondo Alan Arnette, blogger specializzato, il ministero del turismo nepalese ha rilasciato 382 permessi per scalare e 390 permessi di supporto per un totale di 772 persone che, nella primavera 2019 fino a maggio, hanno tentato la scalata. Come se non bastasse, tutti gli scalatori monitorano costantemente le condizioni meteo variabili per scalare in quei pochi giorni per stagione in cui i venti calano e il cielo è terso. Con così tanti scalatori, la via verso la vetta può essere affollata e non mancano i tragici incidenti.

Per Perry e Matthews le condizioni meteo favorevoli erano cruciali, in modo da poter montare la stazione, così come lo erano per Potocki nel prelievo della carota. Serviva del tempo per raggiungere la vetta e poi scendere, ma anche per potervi lavorare in sicurezza per diverse ore. Alla fine, a stabilire le loro possibilità di successo c’erano soprattutto il meteo e la folla. “Vicino alla vetta c’è poco spazio per condurre attività, anche avendo ossigeno”, dice Mayewski. “Ci serve spazio per lavorare. Basta una persona, anche non nel gruppo, per mandare tutto a monte”.

 

“Nei giorni più affollati devi stare attento a ciò che fai, ad esempio a non metterci troppo tempo ed esaurire così l’ossigeno. O potresti finire coinvolto nel salvataggio di qualcun altro, e finirlo così”, spiega Athans.

Arrivati al 19 maggio 2019 si presenta in genere una finestra estiva di meteo stabile. Ma le previsioni rimanevano incerte. Eppure i modelli prevedevano che nel giro di un paio di giorni il vento sarebbe calato, così Matthews, Perry, Potocki e il team di Sherpa guidato da Panuru hanno preparato l’attrezzatura e lasciato il campo base per i tre giorni di scalata fino al Colle Sud.

Alla ricerca di ghiaccio antico

Il primo obiettivo di Potocki era un piccolo ghiacciaio sul lato Nord del Colle Sud. È la prima area di ghiaccio che si incontra lasciando il camp 4 verso la cima. Gli alpinisti lo considerano un ostacolo moderato ma per Potocki, scientificamente, era una meraviglia: ghiaccio antico, indisturbato e relativamente pulito.

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Gli scienziati hanno costruito le stazioni meteo sull’Everest, inclusa questa al camp 2, per inviare automaticamente i dati via satellite senza il bisogno di arrivare fisicamente in loco per scaricarli.

FOTOGRAFIA DI Eric Daft,National Geographic

Nell’istante in cui il trapano toccava il ghiaccio, Potocki ha sorriso, Le condizioni incredibilmente fredde e asciutte a 8.020 metri permettevano di rompere il ghiaccio in frammenti friabili che si disperdevano facilmente intorno al cilindro del trapano, garantendo che il centro fosse pulito. “Ero sicuro sarebbe stato uno scavo divertente”, dice ridendo. “Con l’esperienza impari a prevedere come si comporterà il trapano”. Il team ha rimosso il ghiaccio in parti lunghe circa 50 centimetri, ciascuna riposta in un cilindro di cartone bianco, e ha continuato ad aggiungere estensioni al trapano via via che il foro diventava più profondo. Mentre scavavano, Matthews, Perry e i sei Sherpa stavano lavorando alla stazione meteo dall’altro lato del colle. 

Nel primo pomeriggio il team degli scavi aveva fatto ritorno al campo con una sezione di ghiaccio da 10 metri. Tornato alla tenda ma troppo contento per mettersi a risposare, Potocki si è reso conto che un’altra carota presa ai piedi del ghiacciaio avrebbe consentito di avere un quadro completo sulla sua età, che lui e Mayewski avevano stimato tra i 5 e i 10.000 anni. “Mi sono detto ‘oh, non me ne andrò così; voglio altro ghiaccio’”, ricorda. Così è tornato al ghiacciaio per prelevare un altro campione. “Ho scavato 2,2 metri, fino al letto di roccia. Ora abbiamo la cima e la base del ghiacciaio, per calcolarne l’età e il tasso di accumulo”.

Mentre Potocki festeggiava il suo bottino di ghiaccio, Matthews e Perry avevano fatto ritorno dopo aver installato con successo la stazione meteo al Colle Sud. La più alta del mondo. Ma invece di rallegrarsi, hanno iniziato a preoccuparsi del meteo temendo avrebbe impedito loro di installare la seconda stazione. “C’erano due previsioni contrastanti e una parlava di venti sfavorevoli”, dice Matthews. Mentre il vento pomeridiano agitava la tenda, per un attimo hanno pensato di abbandonare il tentativo di arrivare in cima. Ma sentivano che la missione sarebbe stata incompleta senza almeno aver provato a spingersi più in alto. “Sarebbe stata una triste conclusione, speravo davvero che il meteo ci concedesse di provare”.

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Le squadre di spedizione usano una serie di accampamenti per riposare presso il campo tre, prima di continuare verso la fermata successiva al campo quattro, lo sforzo finale verso la vetta.

FOTOGRAFIA DI Baker Perry,National Geographic

Arrivata la notte i venti erano calati ed erano arrivate previsioni più favorevoli. Il team è partito verso le 23:30, li aspettavano sette/otto ore di ascesa. 

Salvati da un badile e dal nastro isolante

Mentre Perry, Matthews, Potocki e gli Sherpa partivano dal Colle Sud, un banco di nuvole si è spostato sulla montagna dando inizio a una nevicata intermittente. Tutto era avvolto in tenebre offuscate. “Eravamo partiti bene, poi ci siamo trovati in fondo a una fila”, dice Perry. Una fila di alpinisti, alcuni dei quali erano partiti dal campo alle 5 del mattino, si era formata nell’area nota come Triangle Face.

“Non era del tutto inaspettato. Avevamo visto cose simili verso la cascata e sul Lhotse Face, ma per gli Sherpa è stato molto frustrante. Non eravamo tutti in grado di sganciare i supporti e superare la fila. Più lento vai, più prendi freddo”. Dopo due ore di traffico il team ha raggiunto il "Balcone", un’area piana dove il percorso incontra la cresta Sud-Est. “Abbiamo visto la fila di persone davanti a noi e realizzato cosa ci aspettava. Partendo il 23 maggio 2019 ci siamo trovati nel bel mezzo di due giornate fitte di scalate”, dice Perry. 

“Scegliendo i giorni migliori si prova a dare un vantaggio al proprio team”, aggiunte Athans. “La cosa ironica è che praticamente lo fanno tutti”. Panuru, Perry e Matthews avevano già pensato al "Balcone" come possibile location alternativa per la stazione, nel caso arrivare in vetta non fosse possibile. Ora, stavano entrando in quell’ottica. “Eravamo un po' delusi, ma nessuno di noi era là per scalare l’Everest”, dice Perry. “È stato il momento più difficile perché ci eravamo impegnati così tanto”, aggiunge Potocki, forse il più frustrato: la copertura nevosa intorno al "Balcone" era troppo contaminata da rifiuti e bombole d’ossigeno per scavare una carota. “Vedere così tante persone non qualificate, tutte che andavano su come mosche sul miele”, commenta scuotendo la testa. “Dannazione, c’erano davvero troppe persone”. 

Mentre Potocki fumava dalla rabbia, Perry e Matthews si sono resi conto che le batterie del trapano che avrebbe dovuto fissare i bulloni di ancoraggio della stazione erano morte per il freddo. Matthews e lo Sherpa Phu Tashi le hanno infilate dentro il piumino per scaldarle, mentre il cielo diventava gradualmente più sereno sopra di loro.

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A oltre 8.000 metri, il team è all’opera per installare la stazione meteorologica più alta del pianeta. Avevano pianificato di posizionarla vicino alla vetta, per poi cambiare i piani a causa della folla sull’Everest.

FOTOGRAFIA DI Mark Fisher,National Geographic
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Dopo aver desistito dal raggiungere la vetta, il team ha allestito gli strumenti sul "Balcone". Nel frattempo si sono resi conto di aver lasciato indietro una componente cruciale: il sistema per collegare i sensori del vento. Determinati a portare a termine il lavoro, hanno trivellato il manico di una pala per attaccarvi i sensori.

FOTOGRAFIA DI Mark Fisher,National Geographic

“È stato uno di quei momenti sconfortanti”, dice Matthews, ridendo. “Eravamo là immobili, a stringere le batterie per scaldarle. Ci è voluto un po' di tempo ma ha funzionato”. Sistemati i bulloni, il sistema era operativo. “Avevamo costruito la stazione del Colle Sud il giorno prima e il team di sherpa sapeva già come fare praticamente tutto”. A quel punto Perry si è accorto che mancavano i supporti per i sensori del vento. Il braccio trasversale era fissato orizzontalmente all’albero ma non c’era modo di attaccarvi i sensori. 

“Non potevamo scendere senza averli montati e non volevamo mandare qualcuno a recuperarli. Così abbiamo iniziato a fare brainstorming”, dice Perry. Che a un certo punto si è accorto di come un badile in alluminio che avevano tra l’attrezzatura avesse il diametro giusto. “Mi ero già dovuto arrangiare con tubi che non avevano il diametro ideale, in passato, perciò avevo una certa esperienza”. C’era un problema: il manico era ovale, mentre gli attacchi sul braccio trasversale erano predisposti per un tubo circolare. Uno degli Sherpa, Lhakpa, ha afferrato un martello e iniziato a plasmare il manico. Poi Perry l’ha avvolto nel nastro isolante per aumentarne il diametro e migliorare l’incastro. 

“È una stazione meteo super moderna, ma se guardi da vicino vedrai un sacco di nastro isolante e il manico arancione e blu di un badile”, commenta Matthews.

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Il team festeggia l’installazione della stazione che invia i dati a un server di National Geographic.

FOTOGRAFIA DI Mark Fisher,National Geographic

Mentre il team si preparava a scendere, Perry ha dato un ultimo sguardo alla stazione prima di rivolgerlo verso la cima. A quel punto la fila di alpinisti era avanzata, e non ha potuto non chiedersi se non avrebbero dovuto spingersi più su. Poi ha ignorato il pensiero e iniziato la lunga discesa.

Il lavoro in laboratorio

Mentre il gruppo tornava al campo base, le stazioni stavano già trasmettendo i dati verso un server della National Geographic Society. Le carote di ghiaccio di Potocki sono state spedite dal camp 2 a Kathmandu, dove sono state immagazzinate in un’unità freezer dell’American Club. In seguito sono state inviate negli Stati Uniti dove in un camion freezer hanno viaggiato dalla dogana del John F. Kennedy International Airport fino al Climate Change Institute del Maine.

Sono passati mesi prima di vedere i primi frutti del lavoro. Ma nonostante l’ambiente ostile e troppo affollato dell’Everest, tutti e tre gli scienziati sono convinti di voler tornare non appena la pandemia di coronavirus sarà finita. “Varrebbe la pena di tornare con dei radar per scoprire di più sul ghiacciaio e prelevare una carota fino alla base”, conclude Potocki. “Ma mia moglie dice che a quel punto chiederebbe il divorzio”.