Primo maggio 1971 - La strage di Piazza Vittorio - Giornale La Voce

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Primo maggio 1971 - La strage di Piazza Vittorio

Torino scopre il mondo del racket dei braccianti e della 'ndrangheta.

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La prima scena di questo incredibile film calato nella realtà è ambientata in provincia di Cuneo, tra Fossano e Marene.

È un giorno di festa e la deserta Provinciale 165 diventa la personale pista da corsa della Opel di un criminale e di due gazzelle dei carabinieri che lo inseguono: un classico delle pellicole d’azione.

L’auto in fuga è guidata da un quarantunenne calabrese originario di Condofuri che si chiama Carmelo Manti.

Nel suo curriculum banditesco ha già collezionato condanne per truffa, furto e trasporto d’armi non autorizzato ma stavolta la cosa è molto più seria.

È per questo che, dopo avergli intimato l’alt urlando e suonando il clacson, uno dei gendarmi impugna il mitra e si mette a sparare in aria. La scarica di esplosioni convince il fuggiasco a fermarsi ma, sceso dal veicolo, la tensione resta altissima.


Carmelo Manti

Sei carabinieri con le armi puntate da una parte, un uomo in piedi con due pistole in mano dall’altra. Inizia una breve trattativa e l’appuntato Marras, che lo conosce, acconsente ad esaudire l’ultimo desiderio di Manti in libertà: si arrenderà se prima potrà salutare la moglie e i figli. Quando la signora Carmela scende in cortile il marito la abbraccia con le armi in pugno e poi se ne punta una alla tempia. Sembra tutto finito ma dopo qualche secondo la abbassa e si consegna. Un ghigno sprezzante accompagna le sue prime parole: “Io mangerò pane per trent’anni, loro mangeranno terra per sempre”.

Per capire cosa è successo è necessario tornare indietro di un’ora e di una sessantina di km.
Sono le 9 del Primo Maggio 1971 e in piazza Vittorio Veneto, a Torino, sta per partire il corteo della Festa dei Lavoratori. All’improvviso dal Bar Mazza, in corrispondenza del civico 22, giunge il rumore di otto colpi di revolver sparati in rapida successione e numerosi testimoni notano due feriti sotto i portici che tentano di scappare. Dietro di loro compare un uomo che dà il colpo di grazia in testa ad entrambi e poi fende la folla con due rivoltelle in pugno fino a raggiungere una Opel turchese con cui si dilegua velocemente. All’interno del locale altri due cadaveri: quattro morti in totale, una strage.

Il garofano rosso appuntato nel taschino di una delle vittime, sul momento, fa pensare ad un attentato politico ma la voce viene smentita una volta identificate le salme. I loro nomi sono Giuseppe Prochilo, Domenico Parisi, Alfredo Muoio e Franco Maltraversi, sono anch’essi calabresi e quella mattina non sono al bar in attesa di partecipare alla manifestazione ma perché devono parlare con Carmelo Manti. Il mestiere di quest’ultimo è la “scagliola” l’intonacatura e la raschiatura dei muri con il ruolo di “cottimista”.


Le vittime: Domenico Parisi, Alfredo Muoio, Franco Maltraversi, Giuseppe Prochilo

 

Questo titolo, ai tempi, lo metteva nella situazione di trattare direttamente i lavori con le imprese costruttrici facendosi pagare la commessa dalla quale ricavare il proprio stipendio e quello dei suoi sottoposti, i “braccianti”.
Ed è qui che entrano in gioco i quattro morti. Prochilo è il capo, gli altri si sporcano solo le mani. Controllano il mercato degli operai senza diritti, senza libretto di lavoro, senza malattia, senza assicurazione. Centinaia di disperati che gravitano a Porta Palazzo o proprio nei pressi del bar della strage e che vengono assunti a giornata, in nero e sottopagati. Danno il permesso a quelli come Manti di ingaggiarli chiedendo in cambio 50 lire ciascuno per ogni metro quadro di muro intonacato. Li chiamano quelli del “racket delle braccia” ma, anche se ai tempi nessuno lo vuole dire ad alta voce, sono altro: ‘ndrangheta.

Da qualche mese hanno deciso di triplicare il pizzo da incassare sulla pelle degli ultimi: 150 lire al metro quadro intonacato. Il cottimista, che per questo motivo non riesce a retribuire né sé stesso né quegli invisibili, ha accumulato un debito di un milione e ottocentomila lire d’allora. Quella mattina lo hanno convocato al Bar Mazza per regolare i conti e si sono accomodati a un tavolo in un angolo. In mezzo al brusio del locale pieno e al vociare del corteo fuori nessuno riesce a capire di cosa stiano parlando ma la conversazione non è delle più serene. Mentre discutono Franco Maltraversi gioca con una scatola di cartucce mentre Muoio “il ferro” ce l’ha sul serio e, sotto il tavolo per non farsi vedere, lo punta contro Manti. Messo davanti a un libretto con sopra il totale da saldare, quest’ultimo si alza riferendo di doversi recare in macchina per andare a prendere i soldi. Nell’auto, però, recupera una Bernardelli calibro 7,65, torna e spara all’impazzata ammazzandoli tutti. Poi si porta via la pistola di Muoio e diventa il protagonista del prologo di questa storia.

La faccenda, come spesso accade quando i fatti sono così eclatanti, scoperchia il vaso di Pandora. Improvvisamente sembra di dominio pubblico la presenza della criminalità organizzata calabrese a Torino, il problema del lavoro in nero diventa “noto da anni” e per qualche tempo si susseguono inchieste giornalistiche e controlli a tappeto dei vari ispettorati del lavoro con rinnovato furore.


Un infermiere in piazza soccorre Parisi

In tutto questo Manti arriva a processo con un’accusa da ergastolo: quadruplice omicidio premeditato. Viene giudicato da una perizia psichiatrica sano di mente ma la stessa difesa lo definisce “di intelligenza modesta cresciuto in un paesino sperduto della Calabria, da famiglia poverissima, con un’infanzia arida e triste, senza sorrisi né calore umano.” Uno che “ha sofferto la fame e che per frequentare la scuola doveva percorrere quattro chilometri a piedi, in montagna. Che non si ricorda di averla frequentata: è un analfabeta di ritorno. Appena è stato in grado di lavorare, ha cominciato a trascorrere i suoi giorni sulla piazza del paese in attesa di essere scelto dal «caporale» che, poi, pretendeva la tangente. La sopraffazione, per lui, è la legge”. Da par suo l’imputato tenta la carta della legittima difesa con queste parole: “Questi mi mungevano, non ce la facevo più. Se non li avessi ammazzati, avrebbero fatto lo stesso con me: non sapevo chi avesse una pistola e chi no, li ho dovuti eliminare tutti”.

Concessa l’attenuante della provocazione, Carmine Manti, nel 1972, viene condannato definitivamente a 30 anni di reclusione. 

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