ENRICO IV: “PARIGI VALE BENE UNA MESSA” |

ENRICO IV: “PARIGI VALE BENE UNA MESSA”

di Massimo Iacopi -

 

 

Forse le messe sono tre se si tiene conto dei grandi appuntamenti religiosi obbligatori di Enrico IV di Francia: nell’abbazia di Saint Denis, nella cattedrale di Chartres e in quella di Notre Dame di Parigi.

king_henry_iv_of_franceEnrico di Navarra e Bearn, poi Enrico IV di Francia (1553-1610), detto anche il Verde Galante, non ha mai pronunciato questa celebre frase. L’espressione appare solo nel 1622, ovvero dodici anni dopo il suo assassinio da parte di François Ravaillac, in una raccolta di facezie, Les Caquets de l’accouchée (“I coccodé del parto”), dove il vecchio duca di Lesdiguieres (maresciallo François de Bonne) attribuisce la frase al ministro Massimiliano di Bethune, duca di Sully. Un giorno Enrico IV chiese al ministro perché non andasse a messa come lui, al che Massimiliano gli avrebbe risposto: «Sire, la corona vale bene una messa!» Il memorialista Pierre de l’Estoile (1546-1611) evoca un aneddoto simile nelle sue Memoires journaux. Egli mette in scena un gentiluomo «al quale il re chiede per quale motivo, essendo stato fino a quel momento alla predica, ora andasse alla messa». L’interrogato rispose: «Sire, ma perché ci andate voi». Al che il sovrano replicò: «Ah, ho capito di cosa si tratta: anche voi avete qualche corona da guadagnare».
Erede di diritto del trono di Francia, dopo l’assassinio di Enrico III di Valois nel 1589, il Bearnese si rende conto ormai che non potrà cingere la corona – ed entrare nella capitale – se non abiurando la fede calvinista. Indubbiamente, la maggioranza dei Francesi e dei Parigini cattolici riconosce la sua legittimità, ma è restia a obbedire a un eretico. Battezzato secondo il rito romano alla nascita, Enrico di Navarra ha già cambiato religione cinque volte. Poco sensibile alle finezze teologiche, egli appartiene a quella minoranza di credenti convinti che si può ottenere la salvezza con una o un’altra confessione. «Quelli che seguono con dirittura la loro coscienza fanno parte della mia religione», aveva scritto in gioventù.

Un salto pericoloso

Alla sua maniera, il re resterà sempre fedele a questi “intermediari”, nella convinzione che la lacerazione prodotta dalla Riforma fosse appena superficiale e che le dispute fra i fratelli nemici fossero attizzate dall’animosità dei predicatori e che, prima o poi, un Concilio avrebbe riparato la tunica senza cuciture del Cristo. In effetti, Enrico IV non ha nulla dello scettico e ancor meno di un ateo. Con sincerità, egli ripone in Dio la fiducia nel compimento della missione che la sua nascita gli ha assegnato.
Il 22 luglio 1593 Enrico IV lascia Nantes dopo aver assistito al servizio protestante per l’ultima volta. Il giorno dopo, a Saint Denis, egli scrive alla sua cara Gabriella d’Estrées: «Io inizio da stamane a parlare con i vescovi… Sarà domenica ed io effettuerò il salto pericoloso». Enrico IV ha scelto quattro dottori perché gli chiariscano i dogmi della fede romana. Se la conferenza di Saint Denis è appena una formalità, occorre riconoscere che il re perlomeno rispetta le apparenze.

Nel cuore di Saint Denis

Il colloquio si prolunga per più di cinque ore. Della sua educazione ugonotta Il monarca ha conservato l’abitudine a frequentare assiduamente le Sacre Scritture, di cui cita alcuni passaggi per opporsi ai suoi interlocutori. In particolare, solleva delle obiezioni sull’esistenza del Purgatorio, uno dei principali punti di discordia fra cattolici e riformati. Per contro, egli confessa volentieri la “presenza reale”, secondo cui le specie eucaristiche del pane e del vino si trasformano miracolosamente, in occasione della consacrazione, in corpo e sangue del Cristo, mentre i calvinisti non considerano la Cena che una comunione simbolica.
Domenica 25 luglio, prima di alzarsi, Enrico riceve nella sua camera il pastore La Faye, lo abbraccia diverse volte esortandolo a pregare Dio affinché lo ami sempre, giurando, inoltre, che non sopporterà mai che si facciano torti o violenze di qualsiasi tipo alla religione riformata. Il dettaglio della cerimonia nell’abbazia di Saint Denis è noto attraverso numerose relazioni. Il monarca «risulta vestito di un giubbetto e di calze di satin bianco, dei pantaloni di seta bianca e delle scarpe bianche e un mantello e cappello di colore nero». Scortato da una folla di principi e di grandi signori, di soldati e di trombettieri, raggiunge il santuario «riccamente addobbato con arazzi di seta e fili d’oro». Le strade, piene di popolo entusiasta, sono parimenti tappezzate e addobbate di fiori. All’ingresso della chiesa, l’arcivescovo di Bourges gli chiede chi è. Ed Enrico risponde: «Sono il re!»
«Che cosa chiedete?»
«Chiedo di essere ricevuto nella comunione della Chiesa cattolica, apostolica, romana».
«Lo volete sinceramente?»
«Si, lo voglio e lo desidero».
Il sovrano, in ginocchio, effettua a quel punto questa professione di fede: «Io affermo e giuro davanti all’Onnipotente di vivere e morire nella religione cattolica e romana, di proteggerla e di difenderla di fronte a tutti, a costo del mio sangue e della mia vita, rinunciando a tutte le eresie contrarie a questa».

Il doppio spergiuro dell’incoronazione

Il prelato gli mostra il suo anello da baciare, prima di dargli l’assoluzione e la benedizione. Enrico, condotto quindi nel coro reitera la sua sottomissione, si confessa e assiste alla grande messa. Nella serata, monta a cavallo e galoppa fino a Montmartre e, al fine di rilassarsi da queste impegnative ore, si reca poi a bagnarsi, con ogni probabilità, nella Senna. Fatto che farà dire, ironicamente, agli ugonotti che egli «era andato a lavarsi dal peccato che aveva commesso nell’ascoltare la sua bella messa».
Enrico IV pensa in seguito di farsi incoronare a Saint Denis, prima di rinunciarvi. Reims, dove quasi tutti i sovrani hanno ricevuto la corona, rimane nelle mani dei Guisa, capi del partito cattolico. Ma la tradizione non costituisce un obbligo. Enrico sceglierà pertanto Chartres, città mariana per eccellenza, vicina ai possedimenti del Duca di Vendome. La solennità viene fissata per domenica 27 febbraio 1594. Attraverso il giuramento dell’incoronazione, il monarca si impegna come i suoi predecessori a «cacciare dalla sua giurisdizione e dalle terre di suo dominio tutti gli eretici denunciati dalla Chiesa». Con questa solenne promessa egli commette due spergiuri. Indubbiamente, il verbo latino ex terminare, che figura nella formula del giuramento, non ha il senso estremo e sanguinoso che ha poi assunto nel parlare contemporaneo. Esso significa letteralmente “mettere fuori dalle frontiere”, ovvero “espellere”. Pronunciando queste parole, il Bearnese non contravviene neanche alle promesse che ha fatto e reiterato ai suoi vecchi correligionari. Egli per fortuna non rispetterà questo giuramento prestato sulla Bibbia.

Il passaggio obbligato a Notre Dame di Parigi

Infine, per chiudere il ciclo, deve diventare padrone di Parigi: cosa che farà nel corso della notte fra il 21 e il 22 marzo 1594, con la complicità del governatore Charles II de Cossé-Brissac e del presidente (prevosto) dei mercanti, Jean Luillier, signore d’Augerville. Le truppe reali incontrano una resistenza quasi nulla, a parte una ventina di lanzichenecchi, immediatamente gettati nella Senna. Alle 6 del mattino, Enrico IV di Borbone si presenta davanti alla Porta Nuova, presso le Tuileries, la stessa porta da dove era fuggito l’ultimo dei Valois sei anni prima. Senza più attendere, il re decide di andare a Notre Dame per ringraziare Dio, «non vestito nei paludamenti reali, ma da conquistatore, coperto di paio di pantaloni corti di velluto grigio con un semplice gallone d’oro e un gilet di tela bianca sul quale indossa la corazzetta, senza elmo in testa e con la pistola nell’arcione della sella». Il re, con un bastone di comando nella mano, è scortato da seicento gentiluomini a cavallo, seguiti da arcieri e dagli Svizzeri della sua guardia. Sul percorso del corteo la folla si scatena in frenetiche acclamazioni e nel momento in cui uno dei suoi compagni gli esterna la sua contentezza, il sovrano gli risponde senza illusioni: «Si tratta sempre del popolo! Se il mio peggiore nemico fosse ora qui al mio posto, gli farebbe altrettante ovazioni che a me e forse griderebbe ancora più forte di quanto non l’ha ancora fatto con me…»

La speranza di una unità religiosa

Forse Enrico IV ha inizialmente accarezzato la folle speranza che l’esempio della sua conversione potesse rivelarsi contagioso e che la gran massa dei protestanti francesi l’avrebbe imitato. Ma basta poco tempo perché il sovrano passi dalla speranza al disincanto. Di fatto, gli anni passano e gli Ugonotti si mantengono saldi nella loro fede, con il risultato di riportare la Francia nel caos. Il sovrano, mettendo fine a negoziati che si trascinano stancamente senza risultati, dal 13 aprile al 2 maggio 1598 ratifica una serie di testi che la storia ricorderà sotto il nome di Editto di Nantes. L’editto, dichiarato «perpetuo ed irrevocabile», concede ai protestanti la libertà di coscienza, così come anche l’uguaglianza civile. Per quanto attiene al culto, quello protestante viene autorizzato a determinate condizioni. Questo dispositivo complesso, nel quale i posteri vedranno una prima tappa verso la tolleranza, appare agli occhi dei contemporanei come un male minore. Nel preambolo, Enrico IV esprime il suo rammarico per il fatto che Dio non abbia voluto «per il momento» essere adorato e pregato da tutti i Francesi, «con una stessa forma di religione». L’ideale resta, dunque, l’unità spirituale del regno, ovvero la cuius regio, eius religio, che viene applicata dappertutto in Europa. Occorre pertanto interpretare in questo ambito il termine di “tolleranza” – che, peraltro, non figura nell’Editto di Nantes – ovvero nel senso stretto di accettazione passiva di una opinione che viene disapprovata, se non disprezzata, nella prospettiva di un male minore.
Se l’assolutismo reale esce rafforzato dalla prova – arbitro supremo al di sopra degli antagonismi spirituali – Enrico IV continua a temere la potenza politica della fazione riformata. In fin dei conti, l’Editto di Nantes, lungi dal rivelarsi favorevole al protestantesimo, stabilisce la preminenza della fede romana. Esso pone le condizioni di una conversione al cattolicesimo della Francia parallelamente a una sacralizzazione del monarca, che culminerà nella liturgia di Versailles con il Re Sole.
Luigi XIV (1838-1715), nel revocare l’Editto di Nantes, 87 anni più tardi, non farà, in verità, che compiere il segreto auspicio del suo antenato.