Il dirottamento più lungo di sempre: la vera storia della serie Netflix «Il sequestro del Volo 601» | Corriere.it

Il dirottamento aereo più lungo di sempre: la vera storia della serie Netflix «Il sequestro del Volo 601»

diGiulia Taviani

Il sequestro durò circa 55 ore con partenza dalla Colombia e arrivo a Buenos Aires, passando per tre volte dall’isola di Aruba e facendo tappe in sei Stati diversi. Uno dei dirottatori è ancora oggi latitante

Il dirottamento più lungo di sempre: la vera storia della serie Netflix «Il sequestro del Volo 601»

Revista Cromos

«Tra il 1968 e il 1973 vennero sequestrati in tutto il mondo 348 aerei. Più della metà in America Latina. Venivano dirottati verso Cuba, roccaforte del comunismo. In Colombia si contarono 17 dirottamenti, incluso quello più lungo del continente. Questa è la sua storia». Era il 30 maggio 1973, quando per più di 50 ore la Colombia rimase con il fiato sospeso per il destino degli oltre ottanta passeggeri del volo 601. 

La storia è raccontata nella serie Netflix «Il sequestro del volo 601», ispirata al libro di Massimo Di Ricco «Los condenados del aire».

La bomba e il dirottamento verso Aruba

Il volo di linea HK-1274 della vecchia Società Aeronautica di Medellin (SAM) decollò intorno all’una del pomeriggio di fine maggio da Bogotá, in Colombia. Prevedeva tre scali: Cali, Pereira e Medellín. Dopo dodici minuti dalla seconda fermata i passeggeri sentirono un colpo, come uno sparo. Due uomini incappucciati e armati avevano preso il controllo dell’aereo. Si trattava di Eusebio Borja e Francisco Solano López. Fu il primo a entrare nella cabina di pilotaggio pretendendo un cambio di rotta verso Aruba, un’isola a nord del Venezuela. La minaccia era una bomba nascosta all’interno di una valigia.

Per essere sicuri che la bomba ci fosse davvero, i passeggeri chiesero di vederla: «Misi la mano dentro alla valigia - racconterà alle forze dell’ordine il capitano Jorge Lucena - e sentii un oggetto rotondo, ma non posso confermare se fosse realmente una bomba».

Chi erano i sequestratori

Al tempo del sequestro Borja aveva 27 anni e López 31. Entrambi avevano cercato di diventare calciatori, ma si erano ritrovati ben presto senza soldi e cibo. Decisero così di tentare la via più facile per rimediare soldi nella Colombia di quegli anni: dirottare un aereo. Era così comune che ormai anche i giornali avevano dato un nome ai dirottatori: gli «aereopirati». La maggior parte di quei sequestri aveva come meta Cuba, un luogo utopico secondo Di Ricco per i dirottatori, perché lì potevavo vivere secondo gli ideali comunisti. Per questo motivo la richiesta di andare ad Aruba suonò strana al capitano.

I finti guerriglieri

Il primo problema fu il carburante. Il Volo 601 non ne aveva abbastanza per superare il Venezuela. Decisero così di fare tappa a Medellín. In quell’occasione il copilota raccontò di aver ricevuto dal sequestratore indicazioni di dire che erano membri dell’Esercito di Liberazione Nazionale, un’organizzazione guerrigliera colombiana (nonostante l’accento non sembrasse del posto) e che chiedevano 200 mila dollari oltre al rilascio di prigionieri politici.

Il tempo passava e i sequestratori erano sempre più nervosi. Temevano che tra il personale dell'aeroporto ci fossero agenti in borghese. L’okay per il rifornimento arrivò da parte dell’amministrazione cittadina, in opposizione al parere del governo nazionale che non aveva intenzione di negoziare con i terroristi. 

Dopo 45 fermo minuti a Medellín, l’aereo ripartì per Aruba. In due ore di volo arrivarono sull’isola, a quel punto erano circa le cinque del pomeriggio. Ora la negoziazione era in mano alla compagnia aerea da cui arrivò una controfferta di 20 mila dollari, che i dirottatori non accettarono.

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L'intervento del ciclista

Alle quattro del mattino arrivò una nuova indicazione da parte dei dirottatori: atterrare a Guayaquil, in Ecuador, per poi ripartire per Lima, in Perù. L’olio però stava finendo, e per non correre rischi in volo l’unica soluzione era tornare ad Aruba

In quel momento - secondo i racconti - si fece avanti il ciclista colombiano Luis Alfonso Reátegui, salito a Cali con due compagni e diretto a Medellín per partecipare a una gara. Raccontò ai dirottatori di essere un famoso sportivo e di dover scendere per partecipare alla competizione. Successe l’impensabile: al ritorno ad Aruba i sequestratori fecero scendere i tre ciclisti e altre trenta persone, oltre a una hostess che doveva rimediare cibo e acqua per gli ostaggi.

Il tuffo da cinque metri

Quando fu ora di ripartire, con l’aereo già in movimento, alcuni passeggeri - undici, secondo il Diario del Caribe di quei giorni - aprirono la porta di emergenza e si buttarono da cinque metri d’altezza

L’aereo volò poi sopra la Costa Rica, Panama ed El Salvador. Nessun aeroporto permise lo scalo. Erano passate ormai 32 ore dall’inizio del sequestro, l’aereo era sporco, pieno di spazzatura, maleodorante e caldo, quando per la terza volta il volo 601 tornò verso Aruba dove Borja e López lanciarono un ultimatum: soldi entro le 11 del mattino o ci sarebbero state delle conseguenze.

I 50 mila dollari e l'Argentina

Arrivati sull’isola, i dirottatori accettarono l’ultima proposta di 50 mila dollari, oltre a un cambio di equipaggio. Ma non finì qua. L’aereo partì nuovamente in direzione Guayaquil. A differenza di prima però, riuscirono ad atterrare, recuperare cibo, combustibile e giornali. Quando atterrarono a Lima liberarono altri 14 dei 23 passeggeri rimasti. Ormai non chiedevano più soldi né la liberazione di prigionieri politici, volevano solo cibo e acqua. Ripartirono per l’Argentina: a El Plumerillo fecero scendere altri nove passeggeri.

Il mistero dei sequestratori spariti nel nulla

Il 2 giugno l’aereo atterrò finalmente a Ezeiza in provincia di Buenos Aires, dove da ore erano appostati polizia, esercito e giornalisti. I primi a uscire furono i cinque membri dell’equipaggio, ma poi nessun altro. Le forze dell’ordine decisero di entrare ma non trovarono nessuno. Dove erano Borja e López?

Una scena della serie Netflix

Durante gli interrogatori si scoprì che erano scesi durante due fermate intermedie. Uno a Resistencia (Argentina) e l’altro ad Asunción (Paraguay). Volevano prendere in ostaggio le hostess, ma il pilota si offrì in cambio. Alla fine giunsero a un accordo: sarebbero scappati da soli ma l’equipaggio non avrebbe dovuto avvisare la Torre di Controllo.

I soldi regalati, la bomba finta e il petardo

Cinque giorni dopo la polizia del Paraguay trovò Francisco Solano López in una casa vicino a quella dei genitori, in Paraguay. Secondo i vicini, da giorni regalava denaro alla famiglia e agli amici. Borja, invece, resta ancora oggi a distanza di oltre 50 anni un latitante.

La conferma che non avrebbero potuto far male a nessuno arrivò solo alla fine delle indagini: la polizia confermò che non c’era alcuna bomba, e che lo sparo che gli ostaggi avevano sentito non proveniva da una pistola ma era stato probabilmente il rumore di un petardo.

18 aprile 2024