la rivista di engramma
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Zum Bild, das Wort
II
edizioniengramma
La Rivista di Engramma
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La Rivista di
Engramma
150
ottobre 2017
Zum Bild,
das Wort
II
a cura della Redazione di Engramma
edizioniengramma
ISBN pdf 978-88-94840-53-9
Le metamorfosi di Diane de Poitiers. Un
percorso iconografico
Claudia Solacini
“Diane de Poitiers è una delle rare donne divenute e rimaste celebri per
la loro sola bellezza, una bellezza così assoluta, così inalterabile, da ricacciare nell’ombra la personalità stessa di colei che ne fu dotata”, scrive
Marguerite Yourcenar (Yourcenar [1962] 2004, 56). Moglie a sedici anni,
vedova a trentadue, amante del re di Francia, Diane de Poitiers è celebre
per la sua “bellezza fredda” (Chastel [1978] 1988). Il corpo diafano ed energico che ricorda la perfezione delle statue classiche, elegante e riservata,
Diane diventa musa ispiratrice di artisti e poeti. Il paragone con la dea
della caccia è stato spesso discusso (Bardon 1963, 288; Chastel [1978] 1988,
250; Zerner 2002, 342), tuttavia non molto è cambiato da quando Louis
Dimier nel 1913 constatava con rammarico che l’iconografia di Diane “still
awaits its critic” (Dimier 1913, 90) e, un secolo dopo, Henri Zerner apriva il suo saggio affermando che “l’iconographie de Diane de Poitiers a
souvent etée discutée sans jamais être vraiment approfondie dans toute
son étendue” (Zerner 2002, 335). Nel 1978 Chastel sottolineava come “l’inattesa difficoltà di questo studio” (Chastel [1978] 1988, 250) consista nel
trovare corrispondenza tra le opere commissionate da Diane e quelle che
realmente la ritraggono. Esistono infatti pochissime immagini, tra disegni
e dipinti, che mostrano con certezza i suoi tratti fisionomici e manca uno
studio puntuale e sistematico capace di chiarire i molti dubbi che tuttora
circondano la sua iconografia. La mancanza di documenti e fonti scritte
impedisce di dimostrare quali opere siano state effettivamente commissionate da Diane e quali invece solo ispirate al suo fascino. Si propone
quindi una lettura inedita di opere specifiche capaci di mettere in luce
aspetti meno noti della nostra protagonista.
Nel 1530 Francesco I di Francia (1494-1547) sposa in seconde nozze Eleonora
d’Austria, sorella dell’imperatore Carlo V. L’anno seguente si celebra a
Saint-Denis l’incoronazione ufficiale della nuova regina e come di consueto i festeggiamenti si concludono con un torneo, retaggio medievale
che mantiene viva la tradizione cavalleresca e glorifica i tempi antichi. Al
torneo partecipa il giovane Enrico d’Orléans (1519-1559), secondogenito
del re, che tra lo stupore degli astanti sceglie di battersi per Diane de
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Le metamorfosi di Diane de Poitiers. Un percorso iconografico
Poitiers (1499-1566), moglie del gran siniscalco di Normandia. Diane ha
vent’anni più di Enrico e questa differenza di età diventa ben presto bersaglio di critiche e sarcasmi: Anne de Pisseleu, futura Madame d’Etampes
e favorita di Francesco I, definisce Diane una “vecchia di trentadue anni”
(Orieux [1986] 1994, 57). Diane non disdegna le attenzioni del principe ma,
conscia della sua giovane età, fa in modo che il rapporto amoroso non
oltrepassi i limiti della sfera platonica. Solo la morte improvvisa del delfino e la conseguente nomina di Enrico a erede al trono spingono Diane
a diventarne l’amante ufficiale. Diane è già vedova, ma non ambisce al
ruolo di regina, ne diventa anzi la controparte appoggiando apertamente
le nozze di Enrico con Caterina de’ Medici (1519-1589): “[Catherine] est
reine. Mais Diane règne”, scrive Simone Bertière (Bertière 2006, 283).
Proprio negli anni in cui Enrico II sale al trono, la richiesta di farsi ritrarre
in vesti mitologiche assume in Francia i caratteri di una vera e propria
moda. Gli exempla virtutis degli uomini illustri mirano a esaltare l’immagine pubblica, il ruolo politico e gli incarichi istituzionali del committente, i ritratti femminili sono invece più inclini ad assecondare attitudini e
vocazioni personali dell’effigiata. Diane de Poitiers è troppo intelligente
per aderire in modo passivo a un’identificazione mitica o eroica imposta
da terzi, infatti decide in maniera autonoma e perspicace di assumere il
ruolo di Diana cacciatrice. Non solo si preoccupa di promuovere questa scelta iconografica in tutte le sue manifestazioni (artistiche e letterarie), ma giunge a renderla un aspetto immanente della sua personalità.
Sin dall’antichità la dea della caccia viene descritta come una bellissima
donna longilinea e scattante, amante di pratiche sportive faticose e impegnative come l’equitazione, dotata di un corpo energico e incorruttibile
capace di resistere sia al tempo che agli uomini. Questo spiega le lunghe
cavalcate e i metodici bagni in acqua fredda che conferiscono a Diane un
pallore marmoreo del tutto simile alle statue classiche, perfette ed eteree quanto fredde e distaccate. Incarnazione della dignitas, Diane aspira
all’idolatria riservata alle figure ieratiche. Scegliendo la casta Diana come
proprio alter ego, Diane de Poitiers diventa paladina delle virtù, nemica
dei vizi e della lussuria, custode di un fascino seducente che non sfiorisce
con il passare del tempo. Chastel la descrive come “una diva, un modello
che deve trascinare e dominare tutta la corte: imprime uno stile all’eleganza, alla maestà e persino alla bellezza” (Chastel [1978] 1988, p. 248).
La “beauté inaltérable” (Yourcenar 1962, 64), l’integrità morale, i modi
raffinati ma assai poco confidenziali sono peculiari di Diane de Poitiers.
Eleganza e riservatezza le permettono di emanciparsi dal semplice ruolo
di maîtresse-en-titre ed essere socialmente accettata come confidente e
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consigliera di Enrico II, alla pari di coloro che conducono una vita pubblica irreprensibile, per questo il suo sincero affetto per il re è stato spesso
paragonato al rapporto di fratellanza che lega Diana e Apollo (Ceccarelli
Pellegrino 2003, II, 1, 219; Bertière 2006, 286).
L’immagine omerica di “Artemide saettatrice […] lieta tra cinghiali e cerve veloci” (Omero, Od. VI 102-05) nella quale Diane si riconosce in maniera puntuale, si diffonde nel Rinascimento attraverso diverse edizioni delle
Metamorfosi di Ovidio. Il testo, celebre in Francia grazie a una traduzione
trecentesca dell’Ovide Moralisé e usato dagli artisti del XV e XVI secolo
come un’inesauribile fonte di ispirazione, presenta la casta e vendicativa
dea lunare colta in un momento di intimità: “Hic dea silvarum venatu
fessa solebat virgineos artus liquido perfundere rore” (Met. III 163-164).
La dea della caccia assume quindi nuove declinazioni e diventa una figura estremamente seducente, perché incarna un’ideale di donna tanto
desiderabile quanto indomabile. Prima di concedersi al re, la duchessa di
Valentinois (titolo che Diane riceve da Enrico II nel 1547) dimostra di essere una donna retta e dignitosa e come tale intende essere ricordata. L’aura
di riservatezza che con fatica ha costruito attorno a sé sin dalla vedovanza non deve in alcun modo essere messa in discussione dalle attenzioni
concesse al sovrano. Ecco spiegato il motivo per cui Diane non scambia
mai con il proprio amante gesti affettuosi in pubblico ed è attenta a non
abbandonarsi ad atteggiamenti capaci di destare commenti equivoci, relegando con prudenza la liaison extra coniugale agli appartamenti privati.
Questo esibito contegno ricorda un episodio delle Metamorfosi di Ovidio
in cui Diana punisce Atteone trasformandolo in cervo non solo per averla
sorpresa senza veli, ma soprattutto per evitare che il cacciatore possa raccontarlo: “Nunc tibi me posito visam velamine narres, si poteris narrare,
licet!” (III 192-193) minaccia la dea adirata, mentre Atteone viene divorato
dai suoi stessi cani “verba animo desunt” - vorrebbe, ma gli manca la parola (III 231). Anche nelle Genealogia Deorum Gentilium di Boccaccio (1347),
Diana ammonisce Atteone con le parole “va e dillo se puoi” (Boccaccio,
Genealogia Deorum Gentilium, V, XIV) lasciando presagire l’imminente
metamorfosi. Il silenzio di Atteone era l’unico modo per evitare che lo
sbaglio diventasse un peccato, per questo la dea vuole sincerarsi della sua
discrezione in maniera tanto crudele. Come un moderno Atteone, Enrico
II è l’unico a possedere Diane sia fisicamente che sentimentalmente, ma
non deve vantarsene con i membri della corte, pena la rinuncia immediata all’amante-amata. Queste considerazioni ci portano a interpretare la
passione per la caccia di Diane come una caccia amorosa, che si traduce
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Le metamorfosi di Diane de Poitiers. Un percorso iconografico
nella fuga/inseguimento tra la duchessa e il re, preda e predatore. Il messaggio è chiaro: Diane non è succube di Cupido, bensì usa l’astuzia per
metterlo al proprio servizio. Come Cupido, la casta Diana possiede arco e
frecce quali attributi simbolici, armi che alludono al gioco della seduzione
e ben si prestano a sottili interpretazioni di carattere erotico.
I poeti della Pléiade quali Pierre de Ronsard e Joachim Du Bellay assecondano con piacere l’idea che il potere si imponga attraverso l’amore,
mai con la forza (Pot 2002, 65; Casanova-Robin 2003, 350). Questo concetto si traduce in una medaglia di attribuzione incerta coniata nel 1548
per celebrare la recente nomina di Diane a duchessa di Valentinois (Hill,
Pollard 1967, 104). Il recto mostra un ritratto di profilo a mezzo busto di
Diane de Poitiers, mentre il verso riporta il motto “OMNIUM VICTOREM
VICI” affiancato da un’allegoria della dea della caccia trionfante su Cupido
[Fig. 1]. Secondo Henri Zerner l’impresa non va letta come un trionfo della Diana sull’Amore lascivo, bensì come Amore sottomesso al servizio di
Diane “pour en faire un instrument de pouvoir” (Zerner 2002, 342). Ne deduciamo che per Diane la forza dell’amore ha il potere di ammansire anche
l’animale più selvaggio, la preda più ambita e inafferrabile, cioè il sovrano
stesso. Da parte sua, Enrico II conferma la devozione alla favorita in una
medaglia del 1552 realizzata da Guillaume Martin [Fig. 2]. L’opera, già nota
agli specialisti (Potter 2008, IX) ma non ancora studiata, reca sul verso
una figura femminile stante, armata di arco e frecce, circondata dal motto
“NOMEN AD ASTRA 1552”. La mano destra punta la freccia punta verso il
basso, la sinistra con un gesto vezzoso regge l’arco senza mostrare alcuna
intenzione belligerante. Lo sguardo rivolto al cielo in corrispondenza della
parola “astra” mostra la volontà di seguire il fato scritto nelle stelle. La dea
della caccia cerca con lo sguardo l’approvazione divina, ma la freccia verso
il basso enfatizza una dimensione amorosa terrena, quindi tangibile e carnale. Di conseguenza, con l’approvazione delle stelle la relazione adulterina tra Diane de Poitiers ed Enrico II può essere consumata senza timore.
1 | Pierre Regnier (attribuito a), Diane de Poitiers, argento, 1610 circa (da un originale perduto del
1548), Londra, British Museum, inv. M.663.
2 | Guillaume Martin (attribuito a), Enrico II, bronzo, 1552, Londra, British Museum, inv. 1883,0515.16.
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Oltre a rappresentare la dea della caccia, Diana è indissolubilmente legata
alla Luna, così come nella mitologia il fratello Apollo è legato al Sole.
Memore delle parole usate da Cicerone, che nel De Natura Deorum [II, 68]
paragona l’oro e l’argento al Sole e alla Luna, Boccaccio definisce Diana
“argentea” (Boccaccio, Genealogie Deorum Gentilium, IV). Se l’argento nasce dall’unione tra bianco e nero, nessuno meglio di Diane de Poitiers ha
saputo dare un nuovo significato a questi colori. Vedova a trentadue anni
di Louis de Brézé - quarant’anni più anziano di lei - Diane manifesta il
dolore per la perdita decidendo di indossare esclusivamente abiti bianchi e neri a ricordo imperituro del precoce lutto. Oltre ad esaltare il suo
incarnato, l’abito vedovile enfatizza il suo status di donna rispettabile e
libera da ogni vincolo matrimoniale, di conseguenza Diane non commette alcun peccato concedendosi a Enrico II. La luna “argentea” in continuo divenire splende quando tramonta il sole e illumina la terra di luce
riflessa quando il sole è assente. Al di là del significato cortese, questo
dialogo tra corpi celesti può assumere un’interpretazione squisitamente
politica: rappresentare una dama in veste di Diana con la mezza luna
sul capo, significa riconoscere al suo ruolo di consigliera il privilegio di
intercedere presso il re. Non deve quindi sorprendere se durante il regno
di Enrico II gli ambasciatori incontrano Diane de Poitiers prima di essere
introdotti al cospetto del sovrano (Ffolliott 1989, 142). Quando il sole tramonta conferisce alla luna il potere di illuminare la terra, così in assenza
del re la favorita è autorizzata a farne le veci. Diane incarna quindi la
mediazione tra cielo e terra, sovrano e sudditi. Queste sottili allusioni
dovevano essere molto chiare agli intellettuali del Rinascimento francese. Lo dimostra l’impresa dedicata alla “Illustrissima Signora Duchessa
di Valentinois” che apre La vita et metamorfoseo d’Ovidio figurato et abbreviato in forma d’epigrammi, edizione di successo curata da Gabriele
Simeoni e illustrata da Bernard Salomon, pubblicata a Lione nel 1559. Il
motto “CONSEQUITUR QUODCUNQUE PETIT” (ottiene tutto ciò che
chiede) completa l’immagine incisa sul frontespizio dove la dea della caccia è ritratta con lo sguardo rivolto verso il Sole [Fig. 3]. Tra Diana e il
Sole, cielo e terra, si scorgono le Muse e un edificio rinascimentale. Si
tratta senza dubbio di Anet, il castello di Diane de Poitiers ristrutturato da
Philibert De l’Orme per volere di Enrico II (Hanser 2006, 12; Gallo 2000,
36). A confermarlo è sufficiente un confronto con l’immagine pressoché
identica di Anet incisa da Salomon nel 1558 ne Les illustres observation antiques di Simeoni [Fig. 4] (Simeoni 1558, 96). Possiamo quindi interpretare
l’impresa del 1559 come un dialogo tra Diana e Apollo, Luna e Sole. Come
recita il motto, la dea della caccia “ottiene tutto ciò che chiede” quindi
il Sole, cioè il sovrano stesso, la omaggia con il castello di Anet, un luo-
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Le metamorfosi di Diane de Poitiers. Un percorso iconografico
3 | Bernard Salomon, incisione sul
frontespizio, in Gabriele Simeoni, La
vita et metamorfoseo d’Ovidio figurato et
abbreviato in forma d’epigrammi, Lyon
1559.
go popolato da Muse, dove arte e letteratura trovano uno spazio ideale.
L’incipit si collega alla nota di chiusura di La vita et metamorfoseo d’Ovidio in cui Diana viene descritta come la dea che “presta splendor nell’ombra”. Questa ambivalenza tra luce e ombra, dissolutezza e castità, ovvero
Enrico II e Diane, viene descritta anche da Marguerite Yourcenar in un
saggio dedicato al castello di Chenonceaux, dono del re alla duchessa
di Valentinois: “Solo nel mondo dell’arte questa nudità, celata quasi agli
occhi di tutti sotto i velluti e gli orpelli, si mostra con innocenza alla
luce del sole; solo nel mondo dell’arte un’amante cinquantenne di re è
un’immortale” (Yourcenar 2004, p. 63). La maggior parte delle opere d’arte commissionate o ispirate a Diane per decorare Anet vengono disperse
durante la Rivoluzione Francese, quando il castello viene in parte demolito e spogliato dei suoi beni, incluse le fonti scritte (Hanser 2006, 16). La
mancanza di documenti ha portato gli studiosi a confondere con Diane le
effigi di numerose cortigiane in veste di Diana, come il ritratto di Diane
de Poitiers en Diane del Musée de la Vénerie di Senlis, oppure Diane chasseresse del Louvre. Distinguere la Diane de Poitiers immaginaria da quella
reale rimane uno dei nodi più difficili da sciogliere.
4 | Bernard Salomon, incisione,
in Gabriele Simeoni, Les illustres
observation antiques, Lyon 1558, 96.
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Un’opera che vanta innumerevoli congetture dovute alla mancanza di
testimonianze scritte è un affresco poco noto eseguito nel castello di
Tanlay da un anonimo esponente della Scuola di Fontainebleau [Fig.
5]. Grazie alle Recherches Historique sur Tanlay pubblicate in due volumi da Eugène Lambert nel 1886, sappiamo che l’opera venne commissionata attorno agli anni Sessanta del Cinquecento da François d’Andelot de Coligny (1521-1569) (Lambert 1886, 146). La rappresentazione
mostra i membri della corte di Francia in vesti classiche, silenti testimoni delle riunioni organizzate dalla lega protestante in quella stessa sala.
L’instabilità politica e la violenza prodotta dalle guerre di religione avevano portato a una suddivisione sempre più netta tra cattolici e ugonotti,
per questo i protagonisti dell’affresco si presentano schierati come fazioni
a confronto in un’interessante commistione tra personaggi reali e immaginari, valori cattolici e protestanti, storia antica e moderna. L’assenza di
gran parte dei rappresentanti protestanti e la mancanza di alcuni dettagli,
come gli attributi di Mercurio, sono dovuti con ogni probabilità all’improvviso arresto dei lavori alla morte di François d’Andelot nel 1569.
Varie letture sono state proposte per identificare dei personaggi rappresentati, ma spesso risultano supportate da spiegazioni deboli e superficiali. Concordo con l’ipotesi di Lambert, che attribuisce le sembianze di
Diane de Poitiers a Venere (Lambert 1886, 151), ma la semplice vicinanza
al ritratto di Francesco I non è una prova sufficiente a determinare l’identità della dama ritratta. Nel 1933 Oulmont ritiene che la chiave per interpretare gli affreschi di Tanlay sia celata nei poemi di Pierre de Ronsard
(Oulmont 1933, 183): le sue teorie influenzano Schneegans (Schneegans
1935, 115-124) e Lebègue (Lebègue 1955, 441-444) oltre che Seznec, che nel
1980 descrive Enrico II in veste di Giove, Diane de Poitiers come Diana e
Caterina de’ Medici come Giunone (Seznec [1980] 2008, 27). Fedele alla
tradizione che vede nell’Hymne au Roi Henri II di Ronsard (1555) la fonte
5 | Anonimo, affresco, 1560-1570 circa, Château
de Tanlay, Tour de la Ligue.
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Le metamorfosi di Diane de Poitiers. Un percorso iconografico
6-9 | Giove; Giove; Giunone e Mercurio; Mercurio.
10-13 | Minerva e la Pace; Minerva; Proserpina; Proserpina.
6, 8, 10, 12 | Dettagli da Anonimo, affresco, 1560-1570 circa, Château de Tanlay, Tour de la Ligue.
7, 9, 11, 13 | Gian Giacomo Caraglio (da Rosso Fiorentino), Dei nelle nicchie, serie di incisioni a bulino,
1526 (pubblicata nel 1771), Bergamo, Accademia Carrara, Gabinetto Disegni e Stampe.
principale per comprendere l’affresco, il catalogo della mostra Pierre de
Ronsard (1524-1585). La trompette et la lyre, a cura di André Miquel, indica
rispettivamente Diane de Poitiers come Venere, il connestabile Anne de
Montmorency come Marte, l’ammiraglio Gaspard II de Coligny (fratello maggiore di François d’Andelot) come Nettuno e, ancora una volta,
Caterina de’ Medici come Giunone (Miquel 1985, 112). Al di là delle possibili somiglianze fisionomiche tra personaggi reali e dipinti è importante sottolineare che Giunone [Fig. 8] è l’unica figura che non mostra il
proprio volto. Ammesso che l’artista di Tanlay abbia usato il poema di
Ronsard come riferimento per ritrarre la corte di Francia, trovo quanto
meno riduttivo raffigurare proprio la regina di spalle, con l’impossibilità oggettiva di poter identificare i tratti somatici di Caterina de’ Medici.
L’impressione è che gli autori sopra citati si siano basati in maniera esclusiva su fonti testuali, trascurando l’analisi storico-artistica che manca allo
status quaestionis.
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La mano esitante, alcuni grossolani errori prospettici e una certa ripetitività formale nei tratti fisionomici degli effigiati, tradiscono l’inesperienza dell’artista nel padroneggiare una tecnica che implica una pennellata
veloce e sicura. L’opera si compone di decine di figure allineate in un
Olimpo immaginario che non mostra punti di riferimento architettonici o paesaggistici. Per ridurre al minimo il margine di errore e i tempi
di realizzazione, l’artista ha deciso saggiamente di rifarsi alle opere dei
maestri contemporanei, in particolare alla serie degli Dei nelle nicchie di
Rosso Fiorentino (1494-1540) che ha costituito il principale prontuario
iconografico per l’affresco in esame. La serie era nota grazie alle incisioni
a bulino realizzate nel 1526 da Gian Giacomo Caraglio (1500 c.–1565) e
Marcantonio Raimondi (1482 c.–1534 c.) e possiamo supporre che l’artista
abbia attinto a piene mani dall’inventiva di Rosso: le figure di Giove [Figg.
6-7], Mercurio [Figg. 8-9], Giunone [Figg. 8-14], Minerva [Figg. 10-11],
Proserpina [Figg. 12-13] non lasciano dubbi sulla fonte iconografica che
le ha ispirate.
Al centro di una corte popolata da figure stanti, l’unica figura assisa e
incoronata è Giano bifronte, caratterizzata da un volto maschile e uno
femminile. Nel celebre trattato intitolato Imagini delli dei de gl’antichi,
Vincenzo Cartari descrive Giano come “guardiano e custode” delle porte
del cielo. Nella princeps del 1556 leggiamo:
14 | Anonimo, Giano e Giustizia (dettaglio),
affresco, 1560-1570 circa, Château de Tanlay,
Tour de la Ligue.
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Le metamorfosi di Diane de Poitiers. Un percorso iconografico
Vogliono alcuni che queste mostrino in Iano la prudenza de i saggi Re, e
de gli accorti Principi, li quali oltre sanno disporre del presente con ottimo
consiglio, hanno la faccia davanti anchora, onde veggono di lontano, e
sanno conoscere le cose prima siano, ne meno si ricordano delle passate
per la faccia che guarda di dietro, si che tutto veggono. Laqual cosa vollero mostrare gli antichi forse con la imagine di Iano ne i Principi, perché
questi, come dice Plutarco, appresso de i mortali sono le vere imagini dei
Dei (Cartari 1556, 14)
Giano può accedere alla porta d’oriente dove sorge il sole oppure a quella
d’occidente dove il sole tramonta per lasciare spazio alla notte. A Tanlay
rappresenta il tramite tra cielo e terra. È significativo che Giano incoronato occupi una posizione centrale, appena sotto l’immagine di Enrico
II-Giove [Fig. 14]. Osservando la figura con attenzione è possibile scorgere nel volto di sinistra quello di una giovane donna: la corona sul capo
suggerisce Giano come una figura legata alla monarchia e Cartari lo
descrive in modo specifico come re d’Italia (Cartari 1556, 12). In questo
caso il riferimento alle origini italiane di Caterina de’ Medici non può
essere una semplice coincidenza. La posizione centrale di Giano-Caterina
ha inoltre l’importante funzione di unire e dividere le fazioni di cattolici e protestanti, proprio come Caterina cercava di fare nel ruolo di regina e in seguito reggente. Ritengo quindi che la sua controparte maschile possa rappresentare Carlo IX (1550-1574), il figlio di Caterina che
fino al 1562 aveva regnato sotto lo sguardo vigile della madre-reggente.
Oltre a un collegamento testuale con il trattato Cartari possiamo trovare
varie similitudini anche di carattere formale. Le incisioni di Bolognino
Zaltieri si basavano su manuali iconografici di epoca rinascimentale (cfr.
Engramma, Filipponi, Agnoletto settembre/ottobre 2011, n. 93). Sebbene
la prima edizione illustrata delle Imagini risalga al 1571, il Giano di Tanlay
è troppo simile a quello immaginato da Zaltieri per trascurare l’influenza
che potrebbe aver avuto [Fig. 15].
Giano è affiancato da due figure femminili che nel tempo gli studiosi
hanno identificato in maniera arbitraria con Diana, Psiche, o Temi. Non
dimentichiamo che l’affresco era stato commissionato a scopo propagandistico da sostenitori della causa protestante, perciò l’artista deve
avere scelto due allegorie particolarmente eloquenti in ambito politico.
Ritengo quindi che esse rappresentino la Pace e la Giustizia. Ritratta di
profilo la figura della Pace in abito bianco è riconoscibile grazie alla colomba, attributo carico di significati a carattere sia politico che religioso
[Fig. 10]. Fedele al testo di Cartari l’artista pone la Pace alla sinistra di
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15 | Bolognino Zaltieri, Giano, incisione,
in Vincenzo Cartari, Imagini delli dei de
gl’antichi, 1571, p. 54.
Giano per sottolineare l’importanza simbolica della chiave quale strumento che “apre il mondo quando viene il dì a illuminarlo” (Catari 1556,
13). In questo caso l’alba di un nuovo giorno corrisponde al trionfo degli ugonotti. Per accelerare i tempi di realizzazione l’artista si è servito
dello stesso cartone preparatorio impiegato per dipingere Minerva [Fig.
10], cambiando semplicemente il volto e gli attributi dei due personaggi.
Alla destra di Giano, in corrispondenza della verga che serve a temprare
il mondo (Cartari 1556, 13), troviamo una figura stante che mostra diverse
influenze artistiche [Fig. 14]. Ritengo si tratti di un’allegoria della Giustizia
16 | Bolognino Zaltieri, FortunaGiustizia, incisione, in Vincenzo Cartari,
Imagini delli dei de gl’antichi, 1571, p. 54.
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Le metamorfosi di Diane de Poitiers. Un percorso iconografico
perché la postura corrisponde esattamente alla Fortuna-Giustizia proposta da Bolognino Zaltieri nel 1571 [Fig. 16]. Come in Cartari, l’attributo
mostrato potrebbe rappresentare un fascio littorio, mentre è del tutto assente la bilancia, sebbene la posizione assunta dal braccio ci faccia immaginare la sua presenza. Come il flauto di Mercurio [Fig. 8], questo dettaglio mancante prova l’incompiutezza del ciclo.
Tra i membri della corte finora individuati manca la protagonista di questo
saggio. Autorevoli studiosi come Jean Seznec hanno identificato Diane de
Poitiers come Diana (SEZNEC [1980] 2008, 27) senza tuttavia specificare
quale figura olimpica dovrebbe rappresentarla, dato che nella Tour de la
Ligue nessuna divinità porta gli attributi della dea della caccia. Miquel riprende invece un’ipotesi già avanzata da Lambert secondo il quale la duchessa di Valentinois è rappresentata in veste di Venere [Fig. 17] (Lambert
1886, 151; Miquel 1985, 112). Sia in arte che in letteratura Diane de Poitiers
viene descritta dai suoi contemporanei con i capelli biondi come testimonia la nota conclusiva de La vita et metamorfoseo d’Ovidio in cui Gabriele
Simeoni ricorda la duchessa “con la fronte d’avorio in treccie bionde”.
Il naso sottile, gli occhi chiari, la bocca piccola e il mento pronunciato
sono molto simili ai tratti che troviamo nella Allegoria della Pace [Fig. 18]
dipinta tra il 1568 e il 1570 dal fiorentino Giovanni Capassini (1510-1579
circa), noto in Francia come Jean Capassin. Alcuni studiosi hanno interpretato l’allegoria come un ritratto di Diane de Poitiers (Malbos 1978, nota
5; Clement 2008, 83) e attraverso un confronto posturale possiamo rilevare molte analogie con la Venere di Tanlay. In entrambi i casi Venere è
rappresentata con il seno scoperto, a testimoniare la natura lasciva della
dea. Quanto detto finora sulle virtù di castità e riservatezza che Diane de
Poitiers pretende di incarnare, sembra diametralmente opposto alla sua
identificazione con Venere. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che il ciclo di Tanlay viene commissionato da un membro della famiglia Coligny,
capofila dei protestanti. Di conseguenza la favorita reale non deve apparire “santa” e “casta” come l’aveva definita Gabriele Simeoni (Simeoni 1559,
p. 54), piuttosto si cerca di screditarla dipingendola “sine veste” come la
Diana di Ovidio (Met., III, 185). Nella Caccia di Diana (1334-1338), un’opera
giovanile di Boccaccio, l’autore immagina l’antitesi tra Diana e Venere
come un duello tra castità e amore.
Ritroviamo lo stesso binomio Diana/Venere in un’incisione eseguita da
René Boyvin per il Livre de la conquête de la Toison d’or, testo pubblicato
in francese e latino nel 1563 [Fig. 19]. La scena in cui Medea convince le
figlie di Pelia dei suoi poteri magici è arricchita da un’importante cornice
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17 | Anonimo, Venere (dettaglio), affresco, 1560-1570 circa, Château de Tanlay, Tour de la Ligue.
18 | Giovanni Capassini, Diane de Poitiers come Allegoria della Pace, 1568-1570, Aix-en-Provence,
Musée Granet.
19 | René Boyvin, incisione a bulino, in L’histoire de Jason et la conquête de la Toison d’Or, 1563, Paris,
Musée du Louvre, collection Rothschild, inv. 4833LR.
figurata dove Diana sembra determinata a uscire dalla nicchia in cui è stata relegata dell’artista. Boyvin è uno dei principali incisori della Scuola di
Fontainebleau e per le tavole che affiancano il Livre si ispira a sua volta a
Léonard Thiry, un collaboratore del Rosso. Possiamo quindi supporre che
l’anonimo artista di Tanlay, profondamente legato agli esponenti della
Scuola di Fontainebleau, abbia avuto modo di vedere l’opera di Boyvin.
La postura di Venere infatti ricorda la Diana di Boyvin, sebbene l’intento
sia diverso: mentre Diana cerca di fermare l’inganno rappresentato nella
scena principale, con lo stesso gesto Venere esorta Marte a intervenire
nella disputa tra cattolici e ugonotti. Come Diane de Poitiers mirava a
rappresentare il tramite tra la corte e il sovrano così la Venere di Tanlay
simboleggia il collegamento tra l’Olimpo e la Terra. È l’unica figura che
dialoga con l’osservatore, l’unica ad accorgersi della nostra presenza, l’unico legame tra il mondo reale e quello immaginario.
La scelta di rappresentare Venere accanto a Marte giustifica la presenza
di Vulcano e chiarisce l’importanza della sua fucina nel ciclo ad affresco
[Fig. 20]. Anche in questo caso è possibile trovare l’archetipo figurativo
in un disegno preparatorio del bolognese Francesco Primaticcio (15041570) intitolato I Ciclopi fabbricano le armi per gli Amori nella fucina di
Vulcano [Fig. 21]. Allievo di Rosso Fiorentino e maestro della Scuola di
Fontainebleau, Primaticcio adotta questo soggetto mitologico per enfatizzare amore e guerra come valori cavallereschi, tema caro a Francesco I che
aveva commissionato l’opera finita (oggi perduta) per il Cabinet du Roi
del castello di Fontainebleau (Cordellier 2004, 192). Il successo di questa
rappresentazione è testimoniato da numerose repliche eseguite da artisti
coevi tra i quali ricordiamo Marte e Venere sorpresi da Vulcano di Léonard
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Le metamorfosi di Diane de Poitiers. Un percorso iconografico
20 | Anonimo, Vulcano (dettaglio), affresco, 1560-1570 circa, Château de Tanlay, Tour de la Ligue.
21 | Primaticcio, I Ciclopi fabbricano le armi per gli Amori nella fucina di Vulcano, disegno
preparatorio a penna, inchiostro nero, acquerello e carboncino, Paris, Musée du Louvre, inv. 8533.
Thiry (École Nationale Supériore de Beaux-arts de Paris, Mas.1230).
L’esempio di Diane de Poitiers e la sua identificazione con la dea della caccia saranno ripresi in maniera sempre più incisiva dalle maîtresses
royales che succedono alla duchessa di Valentinois. Si ricordano Gabrielle
d’Estrées e Charlotte de Montmorency, entrambe favorite di Enrico IV,
Diane de Châteaumorand, che sposa in seconde nozze lo scrittore Honoré
d’Urfé, Marie de Rohan duchessa di Chevreuse, oltre alla stessa regina
Maria Teresa d’Asburgo (1638-1683). Joseph Werner ci mostra quest’ultima in veste di Diana in una gouache commissionata insieme al ritratto
del re Sole in veste di Apollo. I due dipinti testimoniano la persistenza
simbolica di Diana come alter ego del sovrano. Quando Maria Teresa fa
il suo ingresso trionfale a Parigi nel 1660, il motto della futura regina recita “Todos me miran, yo a uno” (Tutti mi guardano, io solo uno): la luna
può essere ammirata da tutti, ma riflette esclusivamente la luce del sole.
La forza simbolica di Diana continuerà a dominare il ritratto mitologico
femminile sino alla caduta dell’Ancien Régime.
Riferimenti bibliografici
Bardon 1974
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Mythologie et politique, Paris 1974.
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Claudia Solacini
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Bernardelli, Lingua, cultura e testo. Miscellanea di studi francesi in onore di Sergio Cigada,
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Le metamorfosi di Diane de Poitiers. Un percorso iconografico
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J.-P. Néraudau, L’Olympe du Roi-Soleil. Mythologie et idéologie royale au Grand Siècle,
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XIV (2002), 335-343.
English abstract
Diane de Poitiers has always been identified by artists and poets with Diana, goddess of
hunt. The crescent moon, quiver, and arrows became symbolic attributes of the duchess
of Valentinois who embodied the authority and prestige of the female deity, and raised
herself to the status of demigod. This essay addresses how the iconography of Diane de
Poitiers is used as a metaphor for political propaganda. The emblem of chastity with a
strong dislike for men, the virgin goddess who never got married or had children, Diana
surprisingly became the most appropriate alter-ego of the maîtresse-en-titre of the king
of France. As the moon replaces the sun and lights up the world by night, the royal
favorite assumes the political role to intercede between king and people. In other words,
she represents the hidden side of the absolute monarchy. From politics to political satire,
Diane de Poitiers is also represented as Venus (diametrically opposed to Diana) in a
controversial and still debated fresco cycle at the castle of Tanlay, where French Catholics
and Huguenots are dressed-up as Olympians in a contemporary and original way.
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