Amante della follia e curioso di esplorare i lati più oscuri dell’uomo, Darren Aronofsky è uno dei più particolari registi contemporanei. Durante gli anni della sua giovinezza, prima di avvicinarsi al mondo cinematografico, la sua passione per la natura lo aveva portato a formarsi come biologo sul campo e poi a viaggiare in Europa e in Medio Oriente. Tuttavia, è sempre stato uno spirito libero e creativo, e per questo motivo si è in seguito iscritto alla Harvard University per studiare cinematografia. La curiosità verso il mondo dello spettacolo gli è stata trasmessa dai genitori, che lo portavano spesso a Broadway, ma ad Harvard è nata l’intenzione di trasformare questa passione in professione.

L’esordio alla regia è avvenuto poco dopo aver conseguito la laurea in regia. Nel 1998 debutta sul grande schermo con π – Il teorema del delirio (1998), pellicola prodotta con un budget limitato e presentata in anteprima al Sundance Film Festival, in cui ha ottenuto il premio alla miglior regia.

Il protagonista è Mex, un matematico bizzarro e geniale allo stesso tempo, che conduce una vita da eremita. Chiuso tra le mura della sua casa, lavora ad un programma che ha come obiettivo l’individuazione di un numero che gli permetta di conoscere l’andamento di borsa. Questa sfida, però, assumerà delle connotazioni metafisiche: Max giunge in contatto con una sequenza di numeri che, secondo un suo amico numerologo, lo porterebbe a conoscere il vero nome di Dio.

Questa opera prima è stata sufficiente a garantirgli un ingresso nel pantheon dei più significativi registi contemporanei e, inoltre, ha presentato le tematiche che diventeranno delle costanti nella sua cinematografia, prima tra tutte l’ossessione che sfocia nell’autodistruzione.

I suoi protagonisti sono generalmente dei personaggi in lotta per il raggiungimento di un obiettivo che diventerà il loro chiodo fisso e che si rivelerà essere la principale causa della loro rovina. È esattamente ciò che accade in Requiem for a dream (2000), un dramma psichedelico in cui si intrecciano le vite di quattro personaggi. Sara Goldferb è una donna vedova che trascorre le sue giornate a guardare la tv e a conversare con le vicine; quando riceve finalmente l’invito per partecipare come concorrente al suo show televisivo preferito, il suo unico obiettivo diventa quello di perdere qualche chilo per arrivare in ottima forma. Il figlio Harry, la fidanzata Marion e il loro amico Tyrone, sono invece tre tossicodipendenti alla costante ricerca di espedienti per procurarsi l’eroina. Come è tipico delle trame aronofskiane, tutti e quattro si renderanno conto troppo tardi che quella che apparentemente era la soluzione ai loro problemi ha lentamente corroso le loro vite. In questo film, la sua identità stilistica viene confermata e rafforzata rispetto alla produzione precedente. Introduce un uso innovativo dello split-screen, solitamente usato per unire in un’unica visione elementi o personaggi lontani nello spazio o nel tempo, qui il regista lo usa al posto del campo-controcampo, per mostrare contemporaneamente azione-reazione oppure, nel caso in cui unisca personaggi che occupano lo stesso spazio, per mostrare la loro lontananza psicologica ed esistenziale. Infine, si avvale di un montaggio frenetico e convulso, accompagnato da una musica incalzante. Al centro del suo stile cinematografico vi è l’arte della narrazione visiva, in cui il non-detto viene espresso attraverso immagini, suono e montaggio.

È in questo film che diventa evidente la seconda grande ossessione del regista: l’attenzione maniacale per il corpo. Per Aronofsky il corpo assume un valore ben superiore alla pura corporeità e diventa la metafora tramite cui esprimere la vita complessa e talvolta problematica dei suoi personaggi.

Una delle sue più celebri produzioni è senza dubbio Il cigno nero (2011), film in cui Aronofksy integra le due tematiche precedenti con una terza: il terrore del fallimento. L’idea del film nacque nella mente del regista quando, dopo aver assistito al balletto de Il lago dei cigni, scoprì che la stessa ballerina interpreta il ruolo del cigno nero e del cigno bianco. La protagonista è Nina (Natalie Portman), una ballerina molto abile ma con un’ossessione tossica per la perfezione. Nella scuola di danza sono in atto i preparativi per portare in scena Il lago dei cigni e Nina era sicuramente la favorita per il ruolo da prima ballerina, ma il direttore artistico della scuola (Vincent Cassel) temeva che non fosse abbastanza sensuale per il ruolo del cigno nero, il quale richiede l’abbandono del suo forte autocontrollo. Le insicurezze di Nina aumentano quando si confronta con Lily (Mila Kunis), un’altra ballerina in lizza per il ruolo. Nina continua ad allenarsi con tenacia, ma l’elevata competizione, la gelosia nei confronti dell’altra ballerina e le aspettative della madre mettono a repentaglio il suo equilibrio psichico.

Ancora una volta, il cineasta porta in scena un personaggio la cui ambizione sfocia nell’autolesionismo e nell’autodistruzione. La manifestazione del disagio psichico avviene tramite  il corpo della ballerina, sfinito dalle numerose ore di allenamento. Nina è psicologicamente fragile, non riesce più a sostenere la competizione e le aspettative altrui. Così come in Requiem for a dream, le allucinazioni che derivano dal disagio psichico di Nina sono portate sul grande schermo. In entrambi i casi il confine tra realtà e allucinazione diventa estremamente sottile e di difficile distinzione, non solo per il personaggio ma anche per lo spettatore. La regia, però, è diventata più sottile e meno convulsa, così da lasciare spazio alla storia e alle formidabili interpretazioni degli attori.

L’ultima fatica del regista è The Whale (2022) e anche qui le condizioni fisiche del protagonista sono parte integrante della storia. Charlie, il protagonista, è un professore di matematica gravemente obeso che vive recluso tra le mura della propria casa e il suo unico contatto con il mondo esterno sono le lezioni tenute online ai suoi allievi. La monotonia delle sue giornate è spezzata dalle visite di Liz, una sua cara amica infermiera preoccupata per i dolori al petto sempre più frequenti. Al suo corpo statico e impossibilitato al movimento si contrappone una grande tensione emotiva, data dalle sofferenze vissute e dal desiderio di realizzare un ultimo obiettivo: riallacciare i rapporti con la figlia Ellie, un’adolescente problematica che ha sofferto molto per via dell’abbandono del padre. Ancora una volta, il protagonista spinge il proprio corpo oltre ogni limite: il corpo abitato da Charlie si fa portavoce dei suoi dolori ed è metafora di una colpa che sente pesare come un fardello: non essere riuscito a salvare la persona che amava. Visivamente il regista non risparmia allo spettatore neanche un dettaglio tramite riprese che indugiano sul corpo e sugli scarti di cibo sparsi per tutta la casa. Sebbene Charlie rifiuti di farsi aiutare, come è tipico dei personaggi messi in scena dal regista, tenta di redimere la sua anima cercando di salvare la figlia. Solo così potrà sentirsi più leggero, solo così potrà finalmente alzarsi e sentirsi libero.

Come dimostrano le pellicole di cui abbiamo discusso finora, Darren Aronofsky è un regista che ama sondare nella profondità dell’animo umano, nei meccanismi più oscuri e meno esplorati della psiche umana. Le costanti della sua cinematografia sono quindi l’ossessione per il fallimento, il dolore manifestato tramite il corpo, l’infatuazione tossica di un’idea o di un obiettivo. Il regista ci vuole così dire che spesso l’uomo è responsabile della propria disfatta. I suoi personaggi difficilmente conoscono la redenzione, poiché finiscono tutti per cercarla quando ormai è troppo tardi. Sebbene le sue narrazioni non siano semplici da digerire, è innegabile che sia uno dei più influenti registi della nostra epoca grazie alla capacità di affrontare tematiche così complesse in modo inquietante e stimolante allo stesso tempo, tramite uno stile decisamente non convenzionale.

Alessia Agosta
Alessia Agosta,
Redattrice.