Blade Runner 2049 - Recensione

Il sequel più rischioso di sempre è finalmente realtà.

Blade Runner 2049 – La recensione

Dopo una serie di violente rivolte avvenute nel 2020, i replicanti prodotti dalla Tyrell sono stati messi al bando. Nello stesso anno un grande black out ha distrutto quasi completamente ogni dato digitale del pianeta e catastrofi climatiche hanno trasformato la Terra in un pianeta al limite dell'invivibile.

Nel 2049 i vecchi replicanti, rimpiazzati da una nuova generazione di androidi creata dal visionario Neander Wallace, sono ormai estinti e considerati fuori legge. L'Agente K della polizia di Los Angeles è un Blade Runner incaricato di ritirare i vecchi modelli che ancora vivono in clandestinità e, nel corso di una missione, fa una scoperta che potrebbe cambiare per sempre le sorti dell’umanità.


Denis Villeneuve non ha mai sbagliato un film ed era difficile che compiesse un passo falso con Blade Runner 2049, il progetto più importante, ambizioso e costoso della sua carriera. E infatti il regista canadese, coadiuvato da un cast tecnico da paura (Hans Zimmer alle musiche, Roger Deakins alla fotografia, Dennis Gassner alle scenografie), ha messo in piedi una fantascienza dark e crepuscolare (e per fortuna poco action e ancor meno fracassona) di grandissimo impatto visivo.

Blade Runner 2049 è prima di tutto una gioia per gli occhi e non tanto per lo scontato corollario metropolitano piovoso, nebbioso, sporco e squallido, ma per la certosina attenzione agli interni, ai giochi di luce e ai riflessi, agli ologrammi (glitchati o meno), ai volti spesso lacrimevoli dei protagonisti (“come lacrime nella pioggia” vi dice niente?), ai rimandi vintage (sempre ologrammi) e a un mondo che tra radiazioni, ciclopiche statue divorate dalla sabbia e discariche infinite, è un bignami di come dovrebbe vedersi oggi la fantascienza post-apocalittica.


Ma Blade Runner 2049 (160 minuti e non sentirli) è anche un perfetto esempio di come allestire un sequel senza scontentare nessuno. L’atmosfera e le tematiche sono in fondo quelle del capolavoro di Ridley Scott, seppur con qualche nuovo accenno “messianico” nel finale e un dualismo umano-replicante ancora più accentuato grazie all'indecisa natura del protagonista. Si vedono chiaramente anche temi cari al Villeneuve dei primissimi film (la nascita, l’infanzia) e fa piacere che a parte lo scontro finale un po’ telefonato e risaputo Blade Runner 2049 non sia caduto nella trappola da blockbuster revivalista.

C’è poi meno noir rispetto al modello originale (ma non è detto che sia un difetto) e le scene da ricordare abbondano; dalla creatrice dei ricordi all’incontro-scontro con Harrison Ford, passando per la scena di seduzione “ibrida” e sfasata e per il finale stringato e toccante al tempo stesso, che rimanda direttamente alla filosofia del contatto (la mano sul vetro) di The Arrival.


E in fondo a un film di questa portata (che forse è anche il sequel più rischioso di sempre) si perdonano volentieri anche alcune cose meno a fuoco, compreso un Ryan Gosling più monoespressivo del solito. La figura del guru Wallace (Jared Leto) non dice granché con le sue massime poetico-filosofiche, così come il villain femminile che pare uscito da Terminator e certi sentieri narrativi troncati, che potrebbero però rimandare a un prossimo episodio (Wallace, la replicante con un occhio solo, il fiore raccolto da K).

Villeneuve ha insomma portato a casa un risultato encomiabile sporcato qua e là solo da qualche macchia di scrittura e da qualche concessione “di cassetta” al grande pubblico che però, visto il piattume sconfortante della sci-fi hollywoodiana odierna, si digerisce senza tanti problemi. Gran film e grande Villeneuve, l’unico tra gli autori contemporanei capace di intendere il fantastico (ma non solo) come i grandi del passato.

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