Better Call Saul: il più grande spettacolo da Breaking Bad. La recensione della sesta stagione
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Better Call Saul: il più grande spettacolo da Breaking Bad. La recensione della sesta stagione

L'ultimo episodio della serie spin-off-prequel e sequel segna la fine dell'universo di Breaking Bad

Better Call Saul: il più grande spettacolo da Breaking Bad. La recensione della sesta stagione

L'ultimo episodio della serie spin-off-prequel e sequel segna la fine dell'universo di Breaking Bad

better call saul recensione
PANORAMICA
Regia (5)
Interpretazioni (5)
Sceneggiatura (4.5)
Fotografia (4.5)
Montaggio (4)
Colonna sonora (3.5)

Quando nell’aprile del 2013 è stato annunciato lo spin-off dedicato ad una delle figure più claunesche della serie Breaking Bad, l’entusiasmo non era esattamente alle stelle. Era il periodo di pausa tra la prima e la seconda parte dell’ultima stagione della serie con Bryan Cranston e Aaron Paul, personaggi oggi totemici per la storia del piccolo schermo. Nove anni dopo, quello stesso spin-off accolto così tiepidamente, Better Call Saul, è diventato una delle migliori serie tv mai realizzate.

Arrivato alla sua sesta e ultima stagione, lo show creato da Vince Gilligan e con un cast eccezionale guidato da Bob Odenkirk e Rhea Seehorn, ha diluito definitivamente i contorni della inevitabile domanda che ogni paratesto si porta dietro: dal timoroso e primordiale “sarà all’altezza della serie originale?”, si è passati ad un più azzardato “è diventata più bella?”, per poi approdare ad una risolutiva asserzione: Better Call Saul e Breaking Bad sono due lati della stessa preziosa medaglia.

La storia di un docente di chimica malato di cancro che ritrova un’insperata scintilla di vita nel cedere all’illegalità, partiva evidentemente da premesse più semplici per far presa sul pubblico, da sempre intrigato dal fascino drammaturgico di personaggi che valicano il confine tra male e bene e viceversa. Con Better Call Saul l’operazione è stata diversa. Si è partiti da un personaggio più macchiettistico, l’avvocato Saul Goodman tutto completi stravaganti e parlantina sciolta, e si è lavorato nel corso di sei stagioni per dargli ciò che nella serie principale non aveva: umanità.

Per 4-5 stagioni, Jimmy McGill è stato lontano parente del legale senza scrupoli che ha gestito l’impero della droga di Heisenberg. Prima di approdare alle scene in bianco e nero del presente narrativo ambientato dopo il finale di Breaking Bad, abbiamo dovuto imparare a conoscere un bistrattato ma scaltro avvocatuccio vissuto all’ombra di un ingombrante fratello maggiore, di un socio dall’immagine molto più pulita e via dicendo. Jimmy ha sempre ballato sul filo della legalità, ma senza mai risultare viscido o fine a se stesso: era un sopravvissuto e un sopravvivente, ma soprattutto un uomo tutto sommato di cuore.

L’ultima stagione ha sistemato l’ultimo pezzo del puzzle affinché Jimmy McGill aka Saul Goodman potesse a sua volta “rompersi cattivo” (rozza traduzione del titolo della serie principale): la fine della storia d’amore con lo straordinario personaggio di Kim Wexler è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso della moralità interna al personaggio, l’ultima boa di salvataggio prima della deriva. Kim stessa ha prima lottato contro questa trasformazione, poi ci ha flirtato, ha lussuriosamente ceduto al suo fascino salvo poi rendersi conto delle brutali conseguenze che comporta.

Senza più questo sostegno morale e affettivo, è bastato lo spazio di una dissolvenza al nero per saltare anni di vita e riconsegnarci di nuovo al Saul Goodman arrivista conosciuto dalla seconda stagione di Breaking Bad. In mezzo, la genesi dell’impero di Gus Fring (Giancarlo Esposito), il suo legame con Mike (Jonathan Banks) e un corollario di grandissimi personaggi dalle nuance shakespeariane come Lalo Salamanca (Tony Dalton) e Howard Hamlin (Patrick Fabian).

Ma c’è di più: perché dopo aver vissuto empaticamente la prima trasformazione del protagonista, gli ultimi episodi ci hanno raccontato nuovamente la stessa favolaccia, di come il fascino dell’opportunismo criminale sia stato in grado di corrompere nuovamente un personaggio che ha smosso mari e monti per fuggire da quella vita e dalle sue conseguenze. Breaking Bad, tanto come serie e come locuzione, si è fatta di nuovo largo in Better Call Saul tornando al presente di Omaha e mostrandoci come Gene Takavic (il nuovo alias) si sia trasformato ancora una volta in Saul Goodman – e quindi un ultimo invano tentativo di ritornare alle sue vere origini, alla sua vera umanità di Jimmy.

Tutto quanto pantagruelico interesse drammaturgico è andato di pari passo ad una messa in scena strepitosa, lontana da logiche strettamente moderne e che ha rimarcato ancora una volta perché – assieme a Twin Peaks e LostBreaking Bad sia una delle tre pietre miliari della serialità televisivaBetter Call Saul, come la serie madre, rifiuta l’imposizione secondo cui lo spettatore va preso per mano e accompagnato passo passo nella narrazione: non ci sono continui spiegoni a ristabilire di volta in volta le coordinate narrative per i più disattenti, ma anzi si lascia spazio alle piccole cose, ad un percorso esplorativo interno all’azione.

Per la maggior parte del tempo chi guarda non sa davvero quali macchinazioni siano in atto, quale sia il piano del narcotrafficante o dell’avvocato in cerca di vendetta, non è dato sapere il perché di alcune specifiche azioni e di una cura maniacale per l’intreccio: al loro disvelamento, però, ecco che tutto diventa chiaro, sorprendente, geniale. Questo è, in termini semplici, il valore di una regia cosciente e la preziosa capacità di saper raccontare una storia.

Better Call Saul rappresenta un’eccellenza nel panorama d’intrattenimento televisivo mondiale, un pezzo di storia del piccolo schermo col quale bisognerà fare inevitabilmente i conti quando ci si ritroverà a parlare di qualità, di regia, di attenzione ai personaggi e di arco narrativo. Un connubio raramente così vicino alla perfezione assoluta. Un viaggio finito nel migliore dei peggiori modi possibili, glorificando ancora una volta la filosofia di vita alla base di un grande personaggio: it’s all good, man (traslitterato: Saul Goodman). Anche quando non lo è.

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Foto: MovieStills

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