Il termine avatar, letteralmente, è la traduzione dal sanscrito di “avatara", parola utilizzata, nella religione induista, per indicare le reincarnazioni in terra del Dio Visnù. Oggi, però, viene per lo più adoperato nell’ambito informatico per riferirsi ai personaggi, dalle più diverse sembianze, che rappresentano l’alter-ego dei partecipanti a mondi digitali.

Il termine avatar è stato usato, per la prima volta, con il significato odierno, nel 1986, quando la società di produzione cinematografica Lucasfilm, fondata dal creatore di Star Wars, George Lucas, ha sviluppato il videogame per Commodore 64, Habitat. Questo gioco, infatti, rappresenta il primo gioco di ruolo online progettato per ospitare contemporaneamente molteplici utenti all’interno di un universo virtuale grafico e persistente e, in quanto tale, rappresenta un’esperienza digitale senza precedenti che ha determinato la nascita di una nuova tipologia di user-experience. In particolare, a differenza degli altri videogiochi degli anni Ottanta, come, ad esempio, Pac-Man o Space Invaders, nei quali un giocatore per volta poteva utilizzare un unico personaggio, comune a tutti, Habitat poteva essere fruito da più persone contemporaneamente e, di conseguenza, necessitava di una soluzione che permettesse ai giocatori di riconoscersi e distinguersi. Il team della Lucasfilm, quindi, ha dovuto progettare uno strumento innovativo, l’avatar, appunto, che George Lucas stesso definì, riprendendo il termine sanscrito avatara, “la reincarnazione digitale delle persone”. Ovvero, un personaggio dalle fattezze umane che gli utenti, al primo accesso al gioco, potevano personalizzare, nel genere, nella forma del viso e negli accessori, per creare una copia digitale di loro stessi da utilizzare all’interno della nuova realtà virtuale.

Oggi, grazie al successo di Habitat, il termine avatar è diventato di uso comune, una convenzione del web, e viene utilizzato per riferirsi a un alter-ego digitale realizzato allo scopo di rappresentare, far immedesimare e rendere distinguibili le persone all’interno un’esperienza virtuale. Uno strumento che, dal 1986, ha assunto molteplici sembianze e si è diffuso in molteplici tipologie di piattaforme: non solo nei videogame, come mezzo per esplorare i mondi digitali, ma anche nei sistemi di messaggistica istantanea e nei social network, dove viene utilizzato come icona, emoticon, per comunicare le emozioni e le reazioni degli utenti in modo personalizzato.

Nel prossimo futuro, invece, secondo i ricercatori e i tecnici del settore informatico, l’avatar diventerà uno degli strumenti chiave del nuovo medium del Metaverso, in quanto non corrisponderà solamente ad una rappresentazione digitale delle persone, ma verrà anche utilizzato per essere associato, in modo univoco, all’identità stessa degli utenti del web. Un po’ come avviene, nel mondo reale, con i sistemi nazionali di identificazione, come il codice fiscale. Perché ciò possa avvenire, però, è necessario che l’avatar non sia vincolato alla piattaforma nel quale è stato generato, come avviene oggi, ma che sia libero di spostarsi attraverso le diverse realtà virtuali, portando con sé tutte quelle caratteristiche che ne determinando l’individualità della persona a cui è associato. Matthew Ball, infatti, autore americano partner del Makers Fund, il più grande fondo di investimento dedicato all’intrattenimento e ai videogiochi, nel 2022 ha definito il Metaverso come: «una rete interoperabile di mondi virtuali 3D, renderizzati in tempo reale, che possono essere vissuti in modo sincrono e persistente da un numero illimitato di utenti, con un senso individuale di presenza al loro interno, che garantiscono la continuità dei dati relativi a identità, storia, diritti, oggetti, comunicazioni e pagamenti».

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Tuttavia, per comprendere la natura e il valore che l’avatar ha assunto, e che assumerà nel prossimo futuro, bisogna considerare l’evoluzione che, nel corso degli ultimi decenni, ha coinvolto le esperienze digitali e le modalità con cui gli utenti scelgono di rappresentare se stessi online. Agli arbori di Internet, negli anni Ottanta e all'inizio degli anni Novanta, il web aveva una natura principalmente testuale: una persona, quindi, identificava sé stessa online tramite il proprio nome utente, l'indirizzo e-mail o un profilo scritto, con il quale si esprimeva nelle chat room. Tra la fine degli anni Novanta e l'inizio degli anni Duemila, invece, grazie allo sviluppo dei dispositivi informatici e alla maggiore velocità di connessione, che ha reso più facile l’upload e il download di contenuti, un numero sempre più alto di utenti ha iniziato a rappresentarsi online tramite immagini, determinando, di conseguenza, l’avvento dei primi social network, come MySpace e Facebook. In seguito, tra la fine degli anni Duemila e l'inizio degli anni Dieci, grazie alla nascita dello smartphone, si sono progressivamente diffuse forme completamente nuove di condivisione di sé, sempre più visive ed effimere. In questo modo, sono lentamente finiti i giorni dei blog personali e delle pagine Facebook aggiornate di rado, favorendo soluzioni comunicative che prevedono la condivisione di un flusso quasi costante di foto e video, molti dei quali realizzati, e immediatamente postati, al solo scopo di rendere pubblico ciò che gli autori stanno facendo o pensando in un dato momento. Un cambiamento, ancora una volta, guidato da reti di social-media completamente nuove, come YouTube, Instagram, Snapchat e TikTok.

In questo processo di costruzione del sé online, quindi, possiamo affermare che gli esseri umani hanno optato progressivamente per l’utilizzo di modelli digitali che rappresentano, nel modo più fedele possibile, il mondo per come ne fanno esperienza. Allo stesso tempo, nella società contemporanea, risulta evidente che man mano che le esperienze umane online diventano sempre più reali, le persone tendono a condividere sempre più elementi delle proprie vite, finendo per trascorrere ancora più tempo connessi alla rete e determinando una relazione sempre più viscerale tra vita reale e vita digitale. Pertanto, saremmo portati a pensare che un avatar, affinché possa essere considerato efficiente, debba essere in grado di coinvolgere gli utenti in esperienze digitali nel modo più immersivo possibile, nonché rappresentare nei dettagli la persona a cui è associato, incluse fattezze, espressioni e accessori caratterizzanti. Eppure non sempre è così. Attualmente, infatti, si possono individuare diverse forme di avatar distinguibili in tre categorie principali: semplificati, a beneficio delle prestazioni del sito; dettagliati, o a beneficio dell’esperienza digitale o in funzione di esperienze reali.

Nella prima categoria, rientrano gli avatar che riproducono le fattezze umane tramite la ripetizione di forme essenziali, solitamente cubi. Una soluzione progettuale che, pur presentandosi estremamente stilizzata, proprio come accadeva in Habitat, riesce a garantire un sufficiente grado di personalizzazione e, soprattutto, un’esperienza complessiva della piattaforma web ottimizzata per ospitare il maggior numero di persone contemporaneamente. I mondi virtuali del Metaverso, infatti, riprendendo la definizione di Matthew Ball, non devono solamente persistere e rispondere in tempo reale, ma devono anche poter essere esperienze condivise. Perché ciò sia possibile, dunque, ogni partecipante deve disporre di una connessione Internet in grado di trasmettere grandi volumi di dati, velocemente e senza interruzioni, da e verso i server di un mondo virtuale. Di conseguenza, la riduzione dei dettagli che coinvolge la forma dell’avatar, così come degli ambienti in cui è inserito, permette di velocizzare la renderizzazione della piattaforma, migliorando la fluidità dell’esperienza complessiva. In questa categoria rientrano gli avatar della piattaforma di social gaming Sandbox, così come di Roblox. In particolare, per quest’ultima, essendo una realtà virtuale accessibile principalmente da dispositivi mobili, la semplificazione risulta essenziale per garantire l’operabilità anche quando la connessione può risultare più difficile.

La seconda categoria, invece, che identifica gli avatar dettagliati, a beneficio dell’esperienza digitale, va a riunire, appunto, tutte quelle piattaforme in cui le reincarnazioni digitali degli utenti vengono rappresentate in modo estremamente dettagliato, pur non riportando necessariamente caratteristiche umane, quanto umanoidi. Ne sono un esempio le realtà virtuali di Decentraland, piattaforma di social gaming in cui l’avatar risulta essenziale in quanto veicolo di espressione personale, così come i mondi di Fortnite e World of Warcraft, videogiochi online di guerra, in cui diversi gruppi di personaggi fantastici si affrontano all’interno di mondi da esplorare e conquistare. In queste piattaforme, però, per garantire l’utilizzo in contemporanea da parte di molti utenti, invece di sacrificare la grafica, è stato scelto di limitare il numero di persone che si possono connettere alla stessa simulazione di gioco. In Fortnite: Battle Royale, ad esempio, fino a 100 giocatori possono partecipare a un mondo virtuale riccamente animato, in cui ogni avatar è definito nei dettagli, può utilizzare più di una decina di oggetti diversi, eseguire numerose mosse di danza e costruire strutture complesse alte decine di piani. Tuttavia, in questo caso, la mappa dell’ambiente di gioco ha una superficie di circa 5 chilometri quadrati, il che implica che il numero di giocatori che si possono scontrare contemporaneamente sia limitato da 12 a 24, in modo tale che, quando i partecipanti sono costretti in una porzione più piccola della mappa, verso la fine della battaglia, la maggior parte dei giocatori sia già stata eliminata e trasformata in dati riportati su un tabellone segnapunti.

In ultimo, vi è la categoria di avatar dettagliati, in funzione di esperienze reali. È questo il caso, ad esempio, degli avatar presenti su Horizons Venue e Horizons Worksrooms, entrambe piattaforme di realtà virtuale sviluppate da Meta. Queste, infatti, a differenze dei siti-web citati precedentemente, sono caratterizzate da avatar che, pur riportando solo la metà superiore del corpo umano, sono in grado di riprodurre fedelmente le espressioni ed i movimenti della persona che li sta utilizzando. Una soluzione possibile grazie all’utilizzo di dispositivi ad hoc, come l’Head Mounted Display, Meta Quest Pro, dotato di sensori in grado di rilevare i movimenti del corpo umano. Questa dinamica, dunque, pur rendendo molto più complessa la condivisione dei dati, motivo per cui, anche in questo caso, il numero di utenti connessi contemporaneamente risulta limitato, rende l’interazione tra le persone molto più naturale, dimostrandosi adatta anche a esperienze lavorative e didattiche.

In quest’ultima categoria, infine, rientrano anche quelle particolari tipologie di avatar definiti digital humans, ovvero pensati per preservare l’unicità reale di ogni singolo individuo in quanto integrati da un dataset comprensivo di tutte le misure antropometriche del soggetto. Questa particolare tipologia, però, visto la quantità di dati con cui viene costruita, non è ancora particolarmente diffusa all’interno di piattaforme di realtà virtuale, ma viene per lo più utilizzata a livello commerciale, sanitario e sportivo. Secondo i fondatori di Igoodi, infatti, la prima compagnia italiana specializzata nella creazione di questo tipo di avatar, il cosiddetto smart body può contribuire alla riduzione delle emissioni dovute alle attività industriali, a partire dal campo della moda e dell’abbigliamento. La tabella delle misure fisiche ottenute dalla costruzione dell’avatar, attraverso una capsula dotata di 128 telecamere, una bilancia e diversi sensori di altezza, infatti, permetterebbe di acquistare capi online, anche personalizzati, con la certezza della taglia, riducendo di conseguenza il problema dei resi, così come le emissioni e l’energia consumata per gli spostamenti di cliente e fornitori.

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Tuttavia, affinché la società possa davvero trasferire una parte significativa delle sue attività negli spazi virtuali, come, ad esempio, servizi legati all'istruzione, al lavoro, all'assistenza sanitaria, come supposto da Matthew Ball, non è tanto necessario che l’avatar delle persone assuma una determinata forma, piuttosto che un’altra, quanto invece che ciò che siamo negli spazi virtuali permanga nel tempo e nello spazio in modo affidabile, proprio come accade nel mondo reale.

Il Metaverso, quindi, dovrebbe presto consentire che, ovunque vada un utente e qualunque cosa scelga di fare, i suoi risultati, la sua storia, siano riconosciuti in tutti i mondi virtuali, oltre che nel mondo reale. Perché ciò sia fattibile, quindi, i mondi virtuali e, soprattutto, i loro avatar, devono essere interoperabili. Un termine che si riferisce alla capacità dei sistemi informatici o dei software di scambiarsi e utilizzare le informazioni inviate dall'uno all’altro. Il web tradizionale ne è l’esempio più significativo: innumerevoli reti indipendenti, eterogenee e autonome, hanno la possibilità di scambiare informazioni in modo sicuro, affidabile e comprensibile a livello globale.

Oggi, però, quasi tutti i mondi virtuali più popolari utilizzano motori di rendering proprietari, salvano gli oggetti virtuali, le texture e i dati del giocatore in formati di file completamente diversi, con le sole informazioni che si ritiene occorrano all'utente, non hanno sistemi per condividere i dati con altre realtà digitali. Di conseguenza, il Metaverso contemporaneo risulta frammentato in diverse piattaforme che non hanno modo di connettersi, né hanno un linguaggio comune con cui poter comunicare, né tanto meno per farlo in modo coerente, sicuro e completo. Questa frammentazione deriva dal fatto che i creatori dei mondi virtuali non hanno mai progettato i loro sistemi, o le esperienze che offrono, perché fossero interoperabili. Al contrario, sono state pensate come esperienze chiuse, con economie controllate e quindi ottimizzate secondo questi criteri, nella speranza, probabilmente, di definire autonomamente il nuovo standard del web 3.0 e, in qualche modo, diventare la prossima big-tech dominante, il prossimo Google o Facebook.

Il processo di standardizzazione dell’avatar, dunque, risulta essere centrale per lo sviluppo e l’adozione del nuovo medium del Metaverso, anche se, in realtà, può essere considerato un problema per lo più aziendale mascherato da problema sociale e tecnologico. È improbabile, infatti, che la forza trainante dell’interoperabilità sarà una certa posizione rivoluzionaria o una tecnologia di nuova introduzione, è invece molto più probabile che sarà l’economia a portarci in questa direzione. Standard comuni potranno attirare più utenti e più sviluppatori, il che consentirà di creare esperienze migliori, che a loro volta diventeranno meno costose da realizzare e più redditizie da gestire, attirando così maggiori investimenti. Non è necessario, quindi, che tutte le parti adottino standard comuni, fintanto che le leggi del mercato potranno fare il loro lavoro, chi li adotterà crescerà e chi non lo farà, dovrà affrontare sempre più ostacoli. Pertanto, dobbiamo solo attendere che una particolare formato di avatar diventi sufficientemente diffuso così che gli utenti stessi del Metaverso esigano di poterlo utilizzare su tutte le piattaforme disponibili, determinando così l’avvento di un’identità digitale unica e, di conseguenza, la definizione di un’esistenza online persistente.