Widows - Eredità Criminale Recensione

Widows - Eredità Criminale: la recensione del nuovo film di Steve McQueen

15 novembre 2018
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Una storia di rapina e riscatto al femminile con Viola Davis, Elizabeth Debicki, Michelle Rodriguez Cynthia Erivo.

Widows - Eredità Criminale: la recensione del nuovo film di Steve McQueen

Semplificando un po’, ma nemmeno troppo, si potrebbe definire Widows come la versione art house e politicamente impegnata di Ocean’s 8.
Perché alla base di tutto c’è un’idea puramente appartenente il cinema di genere (le vedove di una banda di rapinatori che per saldare un debito con un malavitoso decidono di realizzare il colpo pianificato dal defunto capo della banda); e però alla regia c’è Steve McQueen, l’artista inglese che si è dato al cinema e che ama l’estetica fredda e rarefatta, le architetture eleganti e l’immagine patinato-raffinata, mentre a firmare con lui la sceneggiatura c’è la Gillian Flynn di Gone Girl, che non ha esitato a spingere forte sul pedale del femminismo e del razzismo.

Mettendo idealmente da parte la storia di rapina, senza la quale comunque nulla potrebbe stare in piedi da solo, quella di Widows è fondamentalmente la storia di quello che oggi si usa definire, con termine anglosassone, empowerment, ovvero di emancipazione e di autoaffermazione.
Da un lato la storia di alcune donne che, in una maniera o nell’altra, sono tutte e tre state vittime dei loro mariti e delle scelte che facevano: e una di loro, quella interpretata da Elizabeth Debicki, vittima lo è stata anche fisicamente. Dall’altro la storia donne (e di uomini) che devono liberarsi dai condizionamenti sociali, economici legati al colore della loro pelle.

Le questioni messe sul piatto da McQueen sono tante, forse perfino troppe (il pensiero in questo caso va soprattutto alla storia del figlio dei personaggi di Viola Davis e Liam Neeson, coppia interrazziale credibile e spontanea, ma dal destino segnato), ma sono intessute all’interno del copione in modo tale da sembrare ornamenti di un ordito che è fatto comunque di piani criminali, corruzioni politiche, vendette trasversali e un po’ di violenza che non ci sta mai male, come male non stanno certi alleggerimenti quasi da commedia pura quando si gioca sulle differenze fisiche, di carattere e di status economico tra le vedove rapinatrici. Magari un po' insistenti, come ornamenti, perché McQueen non si fida evidentemente troppo dello spettatore, o della sua capacità di far passare il messaggio, ma pur sempre ornamenti.

Se pure possono nascere delle perplessità riguardo la necessità di dare vita a questo strano ibrido, dove l’eleganza formale di McQueen appare a tratti un po’ vacua, e incapace di essere davvero incisiva e funzionale al racconto e alle psicologie dei personaggi, perché McQueen non è Michael Mann, tanto per dirla chiaramente, non se ne può comunque negare la compattezza, o sottovalutare la capacità di tenere insieme cose assai lontane tra loro.
Lontane come le esplosioni di sadismo improvvise e un po’ fatte del braccio destro psicopatico di un gangster nero che cerca di trovare una nuova carriera in politica, e le travesie di un gruppo di donne rimaste sole che devono imparare a cavarsela da sole in un mondo dove i cattivi sono tutti nel segno del patriacato, bianco o nero che sia.

Quelle di Widows sono donne - tutte molto brave, sul casting e la direzione degli attori c’è poco da eccepire - che devono “dimostrare di avere le palle per questo colpo,” dicono loro stesse, con una linea di dialogo che, però, alle femministe più rigorose, più di tanto non piacerà. Che devono imparare a stare insieme e a fare squadra, a dispetto delle loro differenze e divergenze, perché lì fuori c’è un nemico comune contro il quale fare fronte. Un nemico maschio, ricco, potente, violento e arrogante.
Steve McQueen, you too.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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