In mostra al Mart di Rovereto l’arte del Duce nonostante il Duce - la Repubblica

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In mostra al Mart di Rovereto l’arte del Duce nonostante il Duce

Il busto del Duce di Adolfo Wildt (Dux, 1923), col foro di un proiettile esploso dai partigiani
Il busto del Duce di Adolfo Wildt (Dux, 1923), col foro di un proiettile esploso dai partigiani 

Ideata da Vittorio Sgarbi, l’esposizione sembra destinata a suscitare polemiche. A partire dal titolo, “Arte e fascismo”. Ma in realtà celebra un importante movimento culturale

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Detto senza mezzi termini, il titolo fa una certa impressione anche perché accompagnato da uno spaventoso busto nero di Mussolini: Arte e fascismo, una mostra che ha aperto al Mart di Rovereto (fino al 1° settembre).

L’idea è di Vittorio Sgarbi, immagino che l’abbia accompagnata – forse – con un piccolo retropensiero provocatorio. Serie e competenti comunque le due curatrici, Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari come dimostra la ricchezza del catalogo, i molti nomi illustri (Sironi, Carrà, Wildt, Campigli, Depero, tra gli altri) che vanno insieme ad altri artisti meno noti.

Tutti insieme danno una buona idea non solo della ricchezza di vocazioni del periodo ma anche della politica del regime che cercava d’incoraggiare in vario modo gli artisti. Facendogli ovviamente pagare un prezzo: il distintivo all’occhiello, la fedeltà al partito, l’obbedienza al Duce.

Enrico Prampolini, Dinamica dell’azione ( Miti dell’azione. Mussolini a Cavallo ), 1939
Enrico Prampolini, Dinamica dell’azione ( Miti dell’azione. Mussolini a Cavallo ), 1939 

A guardare bene però, la prima impressione svanisce quando si colgono meglio le intenzioni dell’iniziativa a partire dal busto di Mussolini già citato che chiude il percorso espositivo. Scrutandolo, si vede che l’effigie del Duce ha un buco da proiettile in mezzo alla fronte. L’artista Adolfo Wildt l’aveva modellata nel 1923 (titolo Dux), i partigiani nei giorni terribili del 1945 la colpirono.

In parole povere, la prima impressione va allontanata, il tema che l’iniziativa sviluppa merita per varie ragioni una considerazione più articolata. Apprendo dal catalogo che la mostra è suddivisa in varie sezioni. Novecento italiano, dedicato al progetto di sostegno agli artisti e alla cultura ispirato da Margherita Sarfatti, la raffinata intellettuale che insegnò a Mussolini come si sta a tavola – e al mondo; L’immagine del potere, iconografia del Duce tra celebrazione del capo e diffusione del mito; Futurismo, celebrare l’azione, ovvero l’arte totale della maggiore corrente dell’avanguardia storica italiana; Arte monumentale, l’educazione e la propaganda attraverso l’arte murale, i mosaici, gli affreschi, i decori, i monumenti; L’architettura e il rapporto con le arti, progetti, bozzetti e arte astratta per edifici grandiosi che esaltassero la potenza italiana; Nuovi miti, non solo l’eroe e l’atleta, ma anche il lavoratore, la donna, la famiglia, il tentativo cioè di definire un sistema sociale virtuoso; Il sistema delle arti, l’organizzazione di un’arte di Stato tra mostre, quadriennali, biennali e concorsi. Infine, La caduta della dittatura, la fine di un’era tra iconoclastia, satira e dramma.

Nessun dubbio che l’arte italiana negli anni Trenta sia stata di livello notevole; come del resto l’architettura, o come l’urbanistica. Pochi ricordano che il progetto dell’E.42 (poi diventato Eur) anticipò di un decennio il concetto di quelle che nei tardi anni Quaranta sarebbero state le new town inglesi.

L’esposizione del 1942 era stata prevista per il ventennale della “rivoluzione fascista”. Organizzata però per diventare, una volta finita, il nuovo centro direzionale e amministrativo della capitale. Hitler tradì la parola data, il 1° settembre 1939, fece scoppiare la guerra e il ventennale del povero Mussolini andò in fumo.

La mostra del Mart di Rovereto ha dunque una solida giustificazione di fondo. Lo stupore viene dal brutale accostamento racchiuso nel titolo: arte e fascismo. Ricordo che quando nel 1980 il parigino centro Pompidou organizzò una mostra dedicata più o meno allo stesso periodo, usò un pudico giro di parole perché il termine fascismo, nudo e crudo, risultava allora impronunciabile.

Il titolo era Les Réalismes: Entre révolution et réaction, 1919-1939. Più sotto: differenti arti realistiche nel periodo tra le due guerre. Questa era la perifrasi usata anche in Italia, il periodo del fascismo veniva per così dire camuffato sotto la dicitura gli anni tra le due guerre. Il divieto (non scritto ma non per questo meno sentito) è poi caduto con gli anni. Oggi, il sostantivo fascismo, fuori da un contesto politico diretto, continua a destare qualche fastidio, chiaro però che non si può più parlare di tabù com’era quarant’anni fa. Il noto gallerista romano Fabrizio Russo, presente a Rovereto con numerosi prestiti della sua collezione, ritiene positiva questa raggiunta disinvoltura. «Quando la parola fascismo – mi ha detto – sarà diventata un termine neutro come campagne napoleoniche o guerre puniche, sarà anche possibile devitalizzare i quattro scalmanati che ancora la usano come un corpo contundente».

È sicuramente uno dei due lati della medaglia; l’altro è che in attesa che il fenomeno maturi i “quattro scalmanati” si adoperano per tenere in vita gesti, riti e volti del fascismo con un’impudenza impensabile fino a quando non è entrato in carica l’attuale governo. È un pericolo? Certamente no, in termini di sopravvivenza democratica però è un insulto; volendogli aggiungere un connotato morale è una vergogna, dopo quasi ottant’anni di Costituzione repubblicana.

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