Vittoria d'Inghilterra, la sovrana del più grande impero del pianeta

Vittoria d'Inghilterra, la sovrana del più grande impero del pianeta

Non sembrava destinata alla corona, ma occupò il trono del Regno Unito per 63 anni durante i quali il suo Paese divenne la prima potenza mondiale

La regina verso il 1890. Ereditò il trono nel 1837 e fu incoronata nel 1838

La regina verso il 1890. Ereditò il trono nel 1837 e fu incoronata nel 1838

Foto: Vintage / Bridgeman / ACI

Giunta ai sessant’anni di regno, durante le parate per il Giubileo di diamante, la regina Vittoria potrebbe aver pensato, senza sbagliare, che nessun altro essere umano aveva mai raggiunto un potere e una gloria pari ai suoi. Non è un’esagerazione. Nel 1897 la sovrana inglese non era solo la monarca del Paese più avanzato del pianeta, ma il suo impero si estendeva anche su un quarto della sfera terrestre. Dal centro di Londra, la città più prospera del mondo, poteva far arrivare la sua influenza fino agli angoli più remoti della terra, grazie alla più formidabile macchina bellica dell’epoca: la marina britannica.

Ma lo splendore del suo impero non finiva lì. Vittoria regnò in un’epoca senza pari in termini di civiltà, che si trattasse di scienze (Charles Darwin), di esplorazioni (Stanley e Livingstone, solo per citarne alcuni) o di letteratura (Charles Dickens). Anche in politica, la regina poteva vantarsi di essere vissuta tra figure di giganti, come i primi ministri Disraeli e Gladstone. E se questa fu la sua opera in vita, la sua eredità non sarebbe stata da meno: il suo modello di monarchia costituzionale sarebbe sopravvissuto fino ai nostri giorni, mentre i suoi discendenti avrebbero regnato in così tanti Paesi (dalla Spagna alla Danimarca) da meritarle il titolo postumo di “nonna d’Europa”.

Certo, fin dalla morte della sovrana, nel 1901, l’età vittoriana divenne sinonimo di società pudica, rigida e moralista. Ma, come fece notare lo scrittore Ronald Knox, si era trattato anche di un momento di forza senza pari: «Solo noi che siamo nati sotto la regina Vittoria» scrisse «sappiamo cosa significa la consapevolezza, del tutto naturale, che l’Inghilterra è in modo permanente la prima tra le nazioni, che gli stranieri non contano e che, in caso di problemi, il primo ministro invierà le navi» (da guerra, ovviamente).

Buona parte di questa grandezza fu dovuta proprio alla regina. A quella stessa donna che, da bambina, appena venuta a conoscenza del suo destino reale, aveva sorpreso tutti dicendo: «Lo farò bene». Questa “determinazione e chiarezza di propositi” fin dall’infanzia avrebbe fatto di lei, negli anni, un modello di regina. Non solo per la Gran Bretagna, ma per ogni luogo e ogni epoca.

Il principe tedesco

Rudyard Kipling, il grande cantore dell’impero, avrebbe elogiato Vittoria per essere stata «la regina che aveva incoronato re il suo popolo». Per questo è opportuno ricordare che non ricevette mai un’educazione per regnare. E non solo perché alla nascita aveva poche speranze di ereditare il trono (essendo quinta in ordine di successione). Trascorse l’infanzia, che lei stessa avrebbe ricordato come «piuttosto malinconica», confinata nell’asfissiante ambiente cortigiano del londinese Kensington Palace. Oltre a essere orfana di padre (il duca di Kent era morto prima che sua figlia compisse otto mesi), sembrava destinata a essere poco più di un giocattolo nelle mani di sua madre, Vittoria di Sassonia-Coburgo-Saalfeld, e del suo presunto amante, sir John Conroy.

Per sua fortuna, la giovane Vittoria inaugurò fin da subito quella che sarebbe diventata una feconda abitudine della sua vita: trovarsi un complice, un sostegno umano di assoluta fedeltà, sia nella politica che negli affari di cuore. Il primo grande aiuto lo ricevette da adolescente dalla sua governante, Louise Lehzen. A lei avrebbe dedicato – diversamente da quanto fece con sua madre – le parole più delicate del suo diario. Il secondo aiuto, appena salita al trono, a diciotto anni, fu una vera e propria formazione in socialità e vita mondana: con il primo ministro, lord Melbourne, del partito whig (liberale), Vittoria completò la sua educazione e s'impratichì nelle arti di governo.

 Nel 1843 Franz X. Winterhalter dipinse questo ritratto di Vittoria, che lo regalò al marito per il compleanno

Nel 1843 Franz X. Winterhalter dipinse questo ritratto di Vittoria, che lo regalò al marito per il compleanno

Foto: Her Majesty Queen Victoria / Bridgeman / ACI

A differenza della sua trisnipote, l’attuale regina Elisabetta II, che aveva già marito il giorno dell’incoronazione, Vittoria dovette attendere due anni prima di sposarsi. Lo fece con Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, e quella decisione non fu solo la più importante della sua vita, ma anche la più felice. Fin dal loro primo incontro, quando Vittoria cedette all’ “affascinante” bellezza del suo principe tedesco, vissero una delle storie d’amore più appassionanti dell’aristocrazia di ogni epoca. A prima vista il successo del loro matrimonio si può spiegare solo grazie all’armonia degli opposti: lei era drammatica; lui poetico; lei era una donna autoritaria; lui un uomo ossessivo e puritano. Ma insieme resero possibile ciò che il maggior teorico vittoriano della monarchia, Walter Bagehot, ha espresso in questi termini: il loro modello di vita familiare divenne un esempio morale per il popolo, portando così «l’orgoglio per la corona nella vita di tutti i giorni».

Si è detto, a ragione, che la celebre rigidità vittoriana si deve più ad Alberto che a Vittoria. E il consorte è stato criticato anche per il suo atteggiamento da “ficcanaso” negli affari di governo, con il suo stillicidio di appunti e lettere all’esecutivo britannico. Ma, in quei vent’anni accanto a Vittoria, il principe esercitò un ruolo rilevante e positivo. Fu il primo a mettere ordine nell’amministrazione della casa reale, che ancor oggi segue le sue esemplari linee guida. E, soprattutto, la regina Vittoria lo incaricò di rafforzare il ruolo filantropico e assistenziale della Corona britannica che perdura attualmente. In definitiva, Alberto non si limitò, come tutto lasciava supporre all’inizio, a dare una discendenza al trono inglese. Il suo grande risultato fu forgiare la moderna concezione di regalità, intuendo, per usare le sue parole, che «l’esaltazione della monarchia è possibile solo grazie al carattere personale del sovrano».

L’unione tra Vittoria e Alberto si celebrò nella cappella reale del St James’s Palace di Londra, il 10 gennaio 1840. L’olio, di G. Hayter, risale a quell’anno

L’unione tra Vittoria e Alberto si celebrò nella cappella reale del St James’s Palace di Londra, il 10 gennaio 1840. L’olio, di G. Hayter, risale a quell’anno

Foto: Her Majesty Queen Elizabeth II / Bridgeman / ACI

La vedova di Windsor

Non era tutto rose e fiori tra Vittoria e Alberto. La regina, durante le discussioni, poteva arrivare al punto di scagliare addosso al marito quanto aveva a portata di mano. Il consorte si ritirava nelle sue stanze dopo le liti, per poi presentare alla moglie una lista dettagliata di rimproveri. Eppure, alla precoce morte di Alberto nel 1861, la regina, nel suo dolore, parve reagire come Giovanna di Castiglia “la Pazza”: rinchiusa nei ricordi, fece realizzare una scultura del “piccolo orecchio” di Alberto per poter continuare ad accarezzarlo; e, per decenni, ordinò di conservare le stanze nel castello di Windsor nelle condizioni in cui si trovavano al momento della sua morte. La regina arrivò al punto di ordinare che ogni mattina si continuassero a portare acqua calda e vestiti puliti nella camera del defunto. Visse il lutto e cercò l’oblio nel modo migliore che conosceva: lavorando. Il ritiro di Vittoria non fu ben accolto dall’opinione pubblica britannica, che avrebbe finito per riferirsi alla regina come alla «vedova di Windsor» , e avrebbe creato (durante i suoi primi dieci anni di vedovanza) un clima di simpatie repubblicane.

Il governo stesso la considerava a volte un peso: la regina, come le aveva insegnato Alberto, si considerava «una specie di primo ministro permanente». In poche parole, Vittoria sembrava fare il contrario di quanto il popolo si attendeva da lei: trascurava le funzioni cerimoniali per dedicarsi eccessivamente al lavoro politico.

Come se non bastasse, la regina soffrì ulteriori dispiaceri familiari, tutti provenienti dall’erede Alberto Edoardo, affettuosamente detto Bertie. Per quanto fosse madre di nove figli, Vittoria sentiva una peculiare avversione per la maternità e il «gracidio» dei bambini. Ma lo scontro con Bertie si protrasse ben oltre l’infanzia di questi: la sovrana gli rimproverava le amanti e la vita oziosa e frivola. Non riusciva a «guardarlo senza rabbrividire», convinta che fosse la causa della morte del suo amato marito (Alberto era morto per i postumi di un raffreddore, di ritorno da Cambridge, dov’era andato a rimproverare il figlio per la sua vita dissoluta). Ironia della sorte, Alberto Edoardo (persino meno preparato al regno di sua madre) sarebbe stato un sovrano molto brillante, «il primo gentleman d’Europa».

E dato che l’amore non vuole altro che un oggetto cui rivolgersi, la regina allevierà le sue pene familiari tramite la relazione, puramente platonica, con il suo cameriere preferito, John Brown e, successivamente, con un assistente personale giunto “in regalo” dall’India. I due sarebbero stati i nuovi punti di riferimento emotivo della regina. Ma alla morte della madre, Bertie si sarebbe impegnato a rimuovere ogni traccia di entrambi. Fu forse una specie di vendetta tardiva verso colei che lo aveva relegato in disparte.

John Brown tiene il cavallo della regina Vittoria. Olio di Edwin Landseer, 1867

John Brown tiene il cavallo della regina Vittoria. Olio di Edwin Landseer, 1867

Foto: her Majesty Queen Elizabeth II / Bridgeman / ACI

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Adulazione e superbia

La testardaggine di Vittoria – al contempo virtù e difetto – aveva i suoi freni: come segnalato dal romanziere e saggista statunitense Louis Auchincloss, la regina era consapevole di aver bisogno di qualcuno capace di tenerle testa. Chi si dimostrò all’altezza del compito fu il suo segretario privato, sir Henry Ponsonby, tutto diplomazia e persuasione. La sua missione principale consisteva nell’evitare scontri tra i desideri della regina e quelli dei primi ministri del Paese. Oltre al già citato Melbourne, Vittoria avrebbe avuto a che fare con Robert Peel, lord Russell, lord Palmerston… Tutte personalità di grande statura.

Ma i suoi due interlocutori principali – nonché tra i politici più in vista del secolo – furono il conservatore Benjamin Disraeli e il liberale William Gladstone. Nemici intimi tra loro, svilupparono entrambi una profonda relazione con la regina, anche se fu Disraeli a guadagnarsi il favore di Vittoria. Il rapporto con Gladstone era invece gelido, per non dir di peggio: la sovrana prese in considerazione l’abdicazione pur di impedirgli di arrivare al potere. Non stupisce che a Disraeli (Dizzy, per Vittoria) fosse concesso sedersi di fronte a lei, mentre Gladstone, quell’ “agitatore mezzo matto” fosse costretto a restare in piedi. Dandy e scrittore in gioventù, primo e unico governante ebreo del Regno Unito, uomo pubblico di notevole astuzia, Disraeli fu un’altra delle colonne portanti che, insieme all’abilità di Vittoria, avrebbero fatto di quel regno un’epoca memorabile.

L’adulazione era probabilmente la strategia principale che Disraeli usava con la regina: a volte il primo ministro si permetteva di dire che, per quanto fosse regina, Vittoria era anche una donna, e come tale la trattava. E se nessuno dei due lesinò complimenti e cortesie, il grande politico britannico ebbe la perspicacia di offrire alla regina il regalo più gradito: il titolo di imperatrice delle Indie. Correva l’anno 1876 e Vittoria, che amava tutto ciò che era legato al subcontinente indiano – dalla cucina al servizio domestico –, si lanciò con entusiasmo nello studio delle lingue hindi e urdu. Alla morte di Disraeli, la regina non esitò a far erigere in suo onore un monumento «da parte della sua riconoscente sovrana e amica».

Mappa che riporta in rosso i possedimenti britannici nel 1907, a sei anni dalla morte della regina

Mappa che riporta in rosso i possedimenti britannici nel 1907, a sei anni dalla morte della regina

Foto: AKG / Album

Per capire fino a che punto arrivava l’antipatia (che qualcuno arrivò a definire “psicopatica”) della regina per Gladstone, basta vedere come si comportò quando il primo ministro lasciò il potere: se con Disraeli era stato un susseguirsi di effusioni, Gladstone non ricevette neppure due righe di ringraziamento. Questo trattamento immeritato a un personaggio di tale levatura è stato forse l’atto più ingiusto di Vittoria. Gladstone fu il politico britannico più popolare e acclamato dei suoi tempi, cosa che probabilmente irritava la sensibilità della regina.

Un crepuscolo dorato

Perfino con il suo primo ministro più odiato, la regina dimostrò comunque di aver imparato il mestiere: non arrivò mai ai ferri corti con lui, per non rischiare di compromettere la pace delle istituzioni. Vittoria regnava, ma non governava più. E in quella graduale transizione verso una monarchia costituzionale, sottoposta al potere politico, avevano avuto un ruolo centrale tanto le lezioni del vecchio Melbourne quanto le smancerie con Disraeli e gli scontri con Gladstone.

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Al tramonto della sua epoca, il carattere della regina cambiò: si fece più mite e pacifico, rivelando agli occhi di tutti una serenità e una maestosità tanto naturali quanto imponenti. Il silenzio delle gallerie e dei corridoi rivestiti di tappeti di Windsor rappresenta un indizio della “reverenza” che ispirava la sovrana. Una regina che, nonostante la perdita di molti figli, seppe dare il meglio durante la vecchiaia. La sua morte avvenne in un anno particolarmente importante, il 1901: come se sapesse che un’epoca si era definitivamente conclusa. Il crepuscolo vittoriano avrebbe lasciato il passo a quel mezzogiorno di splendore che fu l’età di Edoardo, prima della Grande guerra che avrebbe insanguinato l’Europa. Vittoria, per sua fortuna, non arrivò a essere testimone di un conflitto che avrebbe visto i suoi discendenti uno contro l’altro.

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