Incontro con Odisseo

Ulisse e Penelope, dipinto di Francesco Primaticcio, ora al Toledo Museum of Art, in Ohio (emuseum.toledomuseum.org)

L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa, che a lungo
errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia;
di molti uomini le città vide e conobbe la mente,
molti dolori patí in cuore sul mare,
lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi.
Ma non li salvò, benché tanto volesse,
per loro propria follía si perdettero, pazzi!,
che mangiarono i bovi del Sole Iperíone,
e il Sole distrusse il giorno del loro ritorno.
Anche a noi di’ qualcosa di queste avventure, o dea, figlia di Zeus.

Omero, Odissea, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Mondadori, Milano 1968, p. 39

L’uomo che raccontò gli Anni Ruggenti

Francis e Zelda (lacapannadelsilenzio.it)

Francis Scott Key Fitzgerald nacque il 24 settembre 1896 a Saint Paul, in Minnesota in una famiglia dapprima abbastanza agiata ma poi impoveritasi con i rovesci finanziari del padre. Già negli anni scolastici pubblica i primi racconti. Nel 1913 si iscrisse all’università di Princeton, che però lascerà senza aver conseguito la laurea. Quattro anni più tardi si arruolò, partecipando al grandioso e tremendo evento che avrebbe segnato la sua generazione: la Grande Guerra, sebbene il conflitto sarebbe terminato prima che la sua unità potesse imbarcarsi per l’Europa.
Nel 1918, mentre era ancora sotto le armi, Francis conobbe colei che sarebbe diventata la donna della sua vita, Zelda Sayre. Il 1920 si rivelò essere un anno cruciale: infatti pubblicò il primo romanzo, Di qua dal Paradiso, e poi sposò Zelda.
La coppia diventa una delle rappresentazioni più emblematiche e fulgide degli anni Venti, quelli che sarebbero stati ricordati come gli “Anni Ruggenti”, suggellati dal titolo di una fortunata raccolta dello stesso Fitzgerald, Racconti dell’età del jazz. Nel 1921 i due compirono un viaggio in Europa, seguito poi dalla nascita della loro figlia Frances.
Tuttavia un’esistenza condotta allegramente al di sopra dei propri mezzi avrebbe presentato il proprio conto. E infatti Francis e Zelda si trasferirono in Francia nella speranza, rivelatasi illusoria, di contenere le spese.
Qui Fitzgerald scrisse la sua maggiore opera, Il grande Gatsby, storia di un gangster gentile che disperatamente insegue la donna amata, ormai fatalmente perduta. C’è chi lo considera il più grande romanzo americano del Novecento, specchio non soltanto di una specifica stagione storica ma anche e soprattutto di un’irrequietudine sempre eterna. Nonostante l’apprezzamento della critica il romanzo si rivelò essere una parziale delusione in termini di vendite.
Al contempo Zelda ebbe una relazione con un aviatore francese, circostanza che impattò non poco sull’equilibrio sempre più fragile della coppia. Emersero poi i problemi psicologici della donna, che arrivò a tentare il suicidio. Nel 1932, ricoverata in una clinica di Baltimora, scrisse in pochi giorni un romanzo dal carattere fortemente autobiografico, in cui imputava al marito il fallimento del loro matrimonio. Dal canto suo Francis ne compose un altro, Tenera è la notte, dolente riflesso letterario del naufragio che ormai era divenuta l’esistenza sua e della moglie. Ormai la salute mentale di Zelda era definitivamente crollata mentre dal canto suo Francis cercò costantemente rifugio nell’alcool, barcamenandosi sempre più con le difficoltà economiche.
Nel 1929 il crollo di Wall Street innescò la Grande Depressione, la quale mandò in frantumi tanto i fasti quanto le illusioni degli Anni Ruggenti. Fitzgerald si trasferì a Hollywood con l’obiettivo di reinventarsi come sceneggiatore, approfittando del solo settore in crescita in quel tempo turbolento, il cinema. Ma si trattò di un’altra illusione, come emerge dal suo ultimo romanzo, rimasto incompiuto, Gli ultimi fuochi. Morì, ormai dimenticato da quasi tutti, il 21 dicembre 1940, proprio quando la sua esistenza sembrava aver riacquistato, seppur faticosamente, un nuovo equilibrio. Zelda gli sopravvisse fino al 1948, quando perì nell’incendio dell’istituto dov’era rinchiusa.
Solo con il passare dei tempi la grandezza dell’opera di Fitzgerald riemerse, così come il suo tormentato carisma, del resto condiviso con la compagna della sua vita. Da allora il suo nome occupa una posizione di prim’ordine nel canone letterario del Novecento non soltanto americano.

Storia di una scrittrice norvegese

(iperborea.com)

Sigrid Undset nacque il 20 maggio 1882 a Kalundborg, in Danimarca, ma a due anni si trasferì con la famiglia a Christiania, capitale della Norvegia, più tardi ribattezzata Oslo. A undici anni perse il padre, il noto archeologo Ingvald, al quale era particolarmente legata. Dopo gli studi presso un istituto commerciale venne assunta presso una ditta. Al contempo mosse i primi passi nel mondo letterario.
Nel 1907 venne pubblicato il primo romanzo della Undset, La signora Marta Oulie, che ottenne buoni riscontri di critica e pubblico. Seguono altre opere che consolidano il suo profilo come scrittrice. In questo periodo compì viaggi in Germania, Italia e Gran Bretagna. Nel 1912 sposò ad Anversa il pittore norvegese Anders Svarstad, con il quale ebbe tre figli. Tuttavia sette anni più tardi si separò dal marito, stabilendosi con i figli a Lillehammer in una casa circondata da un grande giardino da lei stessa curato con passione e dedizione.
Tra il 1920 e il 1922 uscirono i tre volumi della trilogia che costituisce l’opera fondamentale di Sigrid Undset: Kristin figlia di Lavrans. Ambientata nella Norvegia medioevale, segue le vicissitudini di una donna nell’arco della sua esistenza. Lungi dall’idealizzazione, la protagonista viene rappresentata tanto nella forza quanto nella fragilità del suo carattere, così che ne consegue un ritratto vivido e proprio per questo autentico. Al contempo l’autrice, da buona figlia di suo padre, esegue un’accurata ricostruzione del periodo storico, colto in tutta la sua drammatica complessità. Proprio Kristin figlia di Lavrans fu l’opera che le fece conseguire nel 1928 il premio Nobel per la letteratura, terza norvegese a riceverlo. Aveva soltanto quarantasei anni.
Nel 1925, anno del suo divorzio, la Undset si convertì al cattolicesimo, fatto in se stesso clamoroso in un paese a larga maggioranza protestante. La nuova fede religiosa si riverberò in diverse pagine della Undset, a partire dallo stesso Kristin figlia di Lavrans.
Nei anni Trenta mise più volte in guardia il mondo dal percolo costituito dal nazismo, denunciandone il carattere feroce e disumano. E infatti nel 1940 fu costretta a fuggire dalla Norvegia all’indomani dell’invasione tedesca, rifugiandosi prima in Svezia, poi in Giappone e infine negli Stati Uniti, dove divenne voce per la sua nazione oppressa. Quest’esperienza venne rievocata dalla stessa Undset nel suo libro Ritorno al futuro. Ebbe a pagare pure un prezzo personale giacché suo figlio Anders morì combattendo nella resistenza antinazista.
Nel 1945 la Undset ritornò in una Norvegia finalmente liberata. In occasione del suo sessantacinquesimo compleanno ricevette da re Haakon VII la Croce dell’Ordine di Sant’Olav.
La scrittrice morì il 10 giugno 1949 nella sua amata casa di Lillehammer, ora divenuta un museo consacrato alla sua memoria.

Le isole di Sua Maestà

(freemovement.org.uk)

L’isola di Man è sita tra la Gran Bretagna e l’Irlanda mentre le Isole del Canale, dette anche Isole Normanne, si trovano più a sud, al largo delle coste francesi. Jersey e Guernsey costituiscono le maggiori isole di questo piccolo arcipelago.
Sia l’isola di Man che le Isole del Canale non appartengono al Regno Unito ma costituiscono entrambe una dipendenza diretta della Corona britannica. In questo modo rappresentano una delle ultime vestigia del sistema feudale, sebbene per la difesa e le relazioni internazionali dipendano comunque da Londra.
Nell’isola di Man il sovrano, appellato, qualsiasi sia il suo genere, con l’antico titolo di “Lord of Mann”, è rappresentato da un vicegovernatore, nominato dal monarca su indicazione dei rappresentanti delle istituzioni locali. Un sistema simile viene osservato anche nelle Isole del Canale. In ogni caso questi territori vengono amministrati in maniera autonoma, potendo disporre di propri parlamenti e primi ministri.

La regina veneziana

Caterina Cornaro riceve l’annuncio della sua deposizione, dipinto di Francesco Hayez ora all’Accademia Carrara di Bergamo (lacarrarainhumanitas.it)

Caterina Cornaro nacque a Venezia nel 1454. La sua era una delle maggiori famiglie della Serenissima e in particolar modo il padre Marco discendeva dall’omonimo doge. Non solo, la madre di Caterina, Fiorenza, duchessa di Nasso, era nipote dell’imperatore di Trebisonda Giovanni IV Comneno, circostanza che la imparentava con le case regnanti bizantine.
Lo zio paterno, Andrea, bandito da Venezia, era giunto a Cipro, dove ebbe modo di consolidare i legami che la famiglia da tempo aveva intessuto con quello che ormai era l’ultimo degli stati crociati ancora esistenti. In particolar modo propose la mano della nipote al re Giacomo II, figlio naturale di Giovanni II, il quale nel 1464 aveva usurpato il trono alla sorellastra Carlotta, moglie di Luigi di Savoia. D’altronde il suo trono era minacciato sia dall’influenza genovese che dall’espansionismo dei potentati musulmani. Consapevole della precarietà della propria posizione e dunque desideroso della protezione di Venezia, il monarca accettò di prendere in sposa la giovanissima Caterina. Le nozze per procura, ovviamente salutate con grande favore dalla Repubblica, furono celebrate nel 1468. Ma fu soltanto quattro anni più tardi che Caterina partì per l’isola.
Nel luglio 1473 Giacomo II morì, lasciando la sposa incinta. Nel mese successivo nacque il loro figlio Giacomo III. Immediatamente Caterina e il piccolo furono posti sotto la protezione di Venezia, anche per fare fronte alle pretese di Carlotta e dei suoi partigiani. Nel novembre di quello stesso anno un gruppo di congiurati, appoggiati dal re di Napoli, uccise Andrea Cornaro e Marco Bembo, rispettivamente zio e cugino della regina. Ma l’energico intervento di Vettor Soranzo, rappresentante di Venezia, fu decisivo nel far fallire la manovra. Di conseguenza la presa della Serenissima su Cipro si rafforzò, tanto che ormai la regina si ritrovava a esercitare un’autorità pressoché soltanto nominale.
Nel 1473 il figlioletto di Caterina morì. A questo punto l’annessione formale era soltanto questione di tempo. Ciò avvenne infine nel 1489, aprendo così quasi un secolo di dominazione veneziana su Cipro. Caterina, ormai deposta, ritornò nella città natale, dove ebbe una solenne accoglienza, degna del suo rango reale.
Successivamente si ritirò ad Asolo, che le era stata concessa in signoria vita natural durante, sebbene si continuasse a riconoscerle il titolo di regina di Cipro, Gerusalemme e Armenia. Qui Caterina creò una piccola ma sofisticata corte, che più tardi avrebbe ispirato a Pietro Bembo la cornice per una sua opera, significativamente intitolata Gli Asolani.
Caterina Cornaro morì nella notte tra il 9 e il 10 luglio a Venezia, dove era riparata per sfuggire alle truppe imperiali che minacciavano Asolo.

Dal neoclassicismo al romanticismo

Uno splendo esempio della ritrattistica di Ingres: La principessa di Broglie, ora al Metropolitan Museum di New York (metmuseum.org)

Jean Dominique Auguste Ingres nacque il 29 agosto 1780 a Montauban, nella Francia meridionale, figlio di un artista di provincia capace di intravedere in lui un precoce talento. Così il giovanissimo Ingres allo studio della musica affiancò i primi esercizi nel disegno. Nel 1792 si trasferì con il padre a Tolosa per frequentarvi l’Accademia di Belle Arti. Qui cominciò a essere strabiliato dall’opera di Raffaello, che da allora avrebbe costituito uno dei principali punti di riferimento per il suo percorso artistico. Nel 1797 fece un ulteriore salto, approdando a Parigi nella bottega di Jacques Louis David, il massimo artista francese dell’epoca nonché il campione per antonomasia della pittura neoclassica.
Nel 1802 Ingres vinse il Prix de Rome con l’opera Gli ambasciatori di Agamennone presso la tenda di Ulisse (attualmente all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi) ma il soggiorno a Roma, associato al prestigioso riconoscimento, fu a lungo procrastinato a causa delle difficoltà finanziarie dello stato francese, passato in pochi anni dall’Ancien Régime alla turbolenta stagione rivoluzionaria per giungere infine al Consolato di Napoleone Bonaparte. In effetti Ingres ebbe la possibilità di realizzare un ritratto del nuovo uomo forte della nazione, che ora si trova al Musée d’Armes di Liegi. L’esperienza si ripeté nel 1806 quando stavolta il generale era ormai l’imperatore Napoleone I, sebbene l’opera, ora al Musée de l’Armée di Parigi, venisse accolta con un certo disappunto, giacché appariva poco consona all’augusta dignità appena acquisita dal soggetto effigiato.
Finalmente Ingres poté partire per l’Italia, dove ebbe modo di ammirare e studiare i grandi maestri del passato. Durante il lungo soggiorno romano sposò nel 1813 Madeleine Chapelle, con la quale intraprese una felice unione matrimoniale.
Ma le difficoltà finanziarie seguite alla caduta dell’impero napoleonico indussero Ingres a trasferirsi, anche su consiglio dello scultore Lorenzo Bartolini, suo vecchio amico, a Firenze. Nel 1825 Carlo X gli conferì la Legion d’Onore, a dimostrazione di come il cambio di regime non avesse comunque impattato sulle sue fortune artistiche. In seguito Ingres si legò anche a Luigi Filippo d’Orléans, salito sul trono in seguito alla rivoluzione del 1830 e in particolar modo a suo figlio Ferdinando. Fu proprio in occasione della prematura morte di quest’ultimo che Ingres avrebbe disegnato una serie di vetrate destinate alla cappella eretta a Parigi per commemorare il principe.
Nel 1834 Ingres tornò a Roma, avendo ricevuto la nomina di direttore dell’Accademia di Francia, sita a Villa Medici. Scaduto l’incarico, nel 1840 il pittore rientrò a Parigi, ricevendo una trionfale accoglienza che segnò la sua definitiva consacrazione. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati dalla caduta di Luigi Filippo e dalla morte della moglie, occorsa nel 1849, ma anche dalle attestazioni di stima che continuava a ricevere l’una dopo l’altra, venendo ammesso pure al Senato. Si spense il 15 gennaio 1867 a Meung-sur-Loire.
Ingres fu un artista capace di cimentarsi con diversi soggetti, dall’arte sacra alla mitologia antica per giungere ai ritratti nei quali ebbe a eccellere. Non si possono poi dimenticare i suoi numerosi dipinti dedicati al modo sensuale e rarefatto delle odalische. Con la propria opera segnò il passaggio dal neoclassicismo, nel cui alveo si era formato, alla nuova stagione romantica. anticipandone in parte stilemi e istanze.

L’erede che non c’era

Enrichetta d’Este, duchessa di Parma, in un ritratto eseguito nella cerchia di Rosalba Carriera (dorotheum.com)

Nel 1727 morì Francesco Farnese, duca di Parma e Piacenza, al quale successe il fratello Antonio. Costui, ormai non più giovanissimo e ancora scapolo, sposò Enrichetta d’Este, figlia del duca di Modena Rinaldo, nella speranza di generare un erede per una dinastia che ormai, dopo due secoli di storia, pareva prossima all’estinzione. Ma anche lui si spense ben presto, il 20 gennaio 1731, vittima di un’indigestione.
Comunque poco prima di spirare aveva lasciato un testamento nel quale dichiarava suo erede “il ventre pregnante della Serenissima Signora duchessa Enrichetta d’Este, sua legittima consorte dolcissima”. Così fu accesa la speranza di un erede postumo che in extremis venisse a salvare la stirpe dei Farnese. Dopotutto grandi interessi erano in gioco: Elisabetta Farnese, figlia del defunto fratello maggiore di Antonio, Odoardo, e moglie del re di Spagna Filippo V di Borbone scalpitava per assegnare lo stato a uno dei suoi figli mentre all’Austria, al contrario, premeva ostacolare qualsiasi ricostruzione dell’influenza spagnola in Italia, pressoché svanita all’indomani del trattato di Utrecht che nel 1714 aveva posto fine alla guerra di successione spagnola.
Per fugare i consistenti sospetti di una gravidanza simulata Enrichetta fu esaminata da una commissione di medici e levatrici che stabilì che era incinta di sette mesi. Tuttavia nel dicembre 1731 una nuova visita certificò una volta per tutte l’inesistenza di ogni gravidanza.
Ormai la dinastia dei Farnese era giunta al termine. Nel 1732 don Carlo, figlio di Elisabetta e Filippo V, fece il suo ingresso a Parma, capitale degli avi materni. Non sarebbe però restato qui a lungo, trasferendosi ben presto a Napoli, dove divenne re con il nome di Carlo IV. Dopo alterne vicende il ducato di Parma e Piacenza, integrato con l’aggiunta di Guastalla, fu assegnato a suo fratello Filippo. Così cominciò la storia del ramo parmense dei Borbone.
In quanto a Enrichetta, uscita umiliata da una vicenda ben più grande di lei, non restò che lasciare la scena. Si risposò con Leopoldo d’Assia Darmstadt, rimanendo di nuovo vedova nel 1764 senza avere avuto figli. Morì a Borgo San Donnino, l’attuale Fidenza, il 27 ottobre 1777.

Il segretario fiorentino

Niccolò Machiavelli in un ritratto di Santi di Tito, ora conservato in quello Palazzo Vecchio di Firenze dove ebbe a svolgere tante e delicate mansioni (analisidellopera.it)

Niccolò Machiavelli nacque a Firenze il 3 maggio 1469. Seguì studi umanistici sotto la guida di Marcello Virgilio Adriani, che in seguito lo avrebbe raccomandato per il governo della repubblica.
Così, nel 1498, Machiavelli fu posto alla guida della seconda cancelleria, competente in particolar modo per le questioni di politica estera e militare, venendo poi assegnato alla cruciale segreteria dei Dieci. Allora Firenze attraversava un momento travagliato, avendo appena assistito dapprima alla caduta del regime della famiglia Medici e poi a quella del predicatore domenicano Girolamo Savonarola, poi finito sul rogo. Non che d’altronde la situazione nel resto dell’Italia fosse serena: in effetti lo splendore culturale si accompagnava alle interferenze delle potenze europee, senza dubbio agevolate dalle continue diatribe tra i diversi stati in cui era suddivisa la penisola.
Proprio il lavoro, corredato anche da missioni diplomatiche, nell’amministrazione fiorentina offrì a Machiavelli un osservatorio privilegiato tanto sulle questioni politiche più scottanti quanto sulla condizione umana. In particolar modo giunse alla conclusione che gli stati non dovessero fare affidamento sulle volubili compagnie di mercenari, sempre foriere di disordini e voltafaccia, bensì su milizie regolarmente arruolate, addestrate e stipendiate.
Tra il 1511 e il 1512, sullo sfondo della guerra tra il re di Francia e Papa Giulio II, Machiavelli fu incaricato della stessa difesa di Firenze. Ma la battaglia di Prato registrò la sconfitta della repubblica e il concomitante ritorno dei Medici al potere, suggellato nel 1513 dall’elezione a Papa del cardinale Giovanni, che assunse il nome di Leone X. Com’era prevedibile, il cambio di regime si ripercosse anche su Machiavelli, il quale venne licenziato, incarcerato e finanche torturato.
Profondamente amareggiato, si ritirò con la moglie e i figli nella sua casa dell’Albergaccio, a Sant’Andrea in Percussina, nei pressi di San Casciano. Ma fu proprio qui, nella solitudine della campagna, che poté attendere alla stesura di quelle opere, spesso scaturite dall’osservazione della realtà circostante, che avrebbero consacrato il suo nome. Si ricordano, per esempio, opere storiografiche come i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e Vita di Castruccio Castracani come anche la commedia satirica La Mandragola.
A questa fase appartiene anche il suo massimo capolavoro: Il Principe. Dedicato, nel tentativo di ingraziarselo, al nuovo signore di Firenze Lorenzo de’ Medici, duca di Firenze, rappresenta un’acuta e spesso impietosa disamina dell’arte del governo, nella quale chi regge gli stati deve fare i conti innanzitutto con la fondamentale imperfezione degli esseri umani. Ecco allora che il principe è chiamato a essere, a seconda delle circostanze, leone o volpe, ricorrendo a volte alla forza e a volte all’astuzia. Tuttavia è improprio presentare il letterato fiorentino come il teorico di un brutale cinismo insofferente ai dettami della morale. Piuttosto il suo rappresenta uno sforzo volto a scrutare il mondo con uno sguardo disincantato, intriso di amaro realismo, senza lasciare spazio a un ingenuo idealismo.
Nel 1527 il Sacco di Roma provocò, per riflesso, l’ennesimo cambio di regime. Di nuovo da Firenze vennero cacciati i Medici. Per un’amara beffa del destino Machiavelli venne relegato ai margini dal ricostruito governo repubblicano, che ora gli rinfacciava i legami che aveva intessuto, seppur con fatica, con la fazione medicea. Ormai emarginato e umiliato, Machiavelli morì a Firenze il 21 giugno 1527, lasciando la sua famiglia in povertà.
Al di là dell’incomparabile valore del suo lavoro letterario il segretario fiorentino può essere ritenuto, a buon diritto, il padre delle scienze politiche come noi le conosciamo ora.

Una polacca sul trono di Francia

Un ritratto di Maria Leszczyńska, ora al Castello di Versailles, eseguito da Jean Baptiste van Loo (marcmaison.com)

Maria Leszczyńska nacque a Trzebnica il 23 luglio 1703. I suoi genitori, Stanislao Leszczyński e Caterina Opalińska appartenevano entrambi alla piccola nobiltà polacca. Tuttavia il destino della famiglia cambiò all’improvviso quando Carlo XII di Svezia nel 1704 invase la Polonia e detronizzò Augusto II, ovvero l’elettore di Sassonia Federico Augusto I. Costui si era alleato con la Russia e la Danimarca per fronteggiare il predominio della Svezia sul Baltico. Al suo posto Carlo XII fece eleggere dalla Dieta proprio Stanislao Leszczyński, il quale salì al trono con il nome di Stanislao I.
Ma il suo regno doveva rivelarsi breve, dato che era strettamente legato alle fortune militari della Svezia. Infatti nel 1709 la devastante sconfitta che lo zar Pietro il Grande inferì a Carlo XII nella battaglia di Poltava comportò pure la caduta del monarca che questi aveva imposto a Varsavia. Così Stanislao I si vide costretto a partire per l’esilio mentre sul trono polacco tornava Augusto II.
Con la famiglia visse oscuramente per alcuni anni alla periferia di Strasburgo. Nel 1725 gli giunse una richiesta che lo lasciò sbalordito: il duca di Borbone, primo ministro di Luigi XV, gli chiese la mano di sua figlia Maria per il quindicenne re di Francia. In effetti Luigi XV in tenera età era rimasto, in seguito a una rapida serie di lutti familiari, l’ultimo erede della casa regnante e la sua promessa sposa, l’infanta di Spagna Maria Anna Vittoria, appariva ancora troppo giovane perché potesse generare in tempi rapidi. Inoltre André Hercule Fleury, tutore del monarca e futuro cardinale, disdegnava l’ennesimo legame con qualche altra dinastia europea che avrebbe potuto costituire una fonte di complicazioni politiche. Così la principessa venne, con grande mortificazione sua e della sua famiglia, rispedita in patria e al contempo fu annunziato il fidanzamento del re con Maria Leszczyńska, sebbene questa gli fosse più anziana di quasi sette anni.
Molti storsero il naso di fronte a quella che appariva come una vera e propria mésalliance, non vedendo in Maria, figlia di un ex re elettivo, una sposa degna del monarca francese. Ciononostante dalla loro unione nacquero dieci figli, tra cui Luigi Ferdinando, il tanto sospirato delfino, che venne al mondo nel 1729. Costui però non sarebbe mai salito sul trono, premorendo a entrambi i genitori nel 1765, sebbene nel frattempo avesse generato diversi figli con la sua seconda moglie, Maria Giuseppina di Sassonia, tra cui i futuri re Luigi XVI, Luigi XVIII e Carlo X. Si noti che Maria Giuseppina era nipote e figlia di quegli Augusto II e Augusto III che, come si è visto e si vedrà, si erano contesi il trono di Polonia con il padre di Maria.
Nello scintillante e artefatto mondo di Versailles la regina Maria ebbe sempre un ruolo secondario, sia per il suo carattere schivo sia perché si ritrovò oscurata dalle diverse favorite del marito, in primis la celeberrima Madame de Pompadour.
Non che il suo matrimonio risultasse comunque privo di riflessi internazionali. Infatti nel 1733, morto Augusto II, Luigi XV appoggiò la candidatura del suocero Stanislao, che così tornò sul trono di Polonia. Tuttavia Austria e Russia gli contrapposero Augusto III, ovvero l’elettore di Sassonia Federico Augusto II, figlio del re defunto. Ne scaturì la guerra di successione polacca che, tra alterne vicende, si concluse nel 1738. A Stanislao, sconfitto dai sostenitori di Augusto III, fu concesso, a titolo di compensazione il ducato di Lorena, che poi alla sua dipartita sarebbe passato alla Francia.
Maria, la regina polacca di Francia, morì il 24 giugno 1768 in quella Versailles nella quale non era mai davvero riuscita a brillare, benché fosse la moglie di Luigi XV.

Il maestro del rococò

Una significativa opera di Giambattista Tiepolo, ora alla Quadreria del Palazzo Ducale di Venezia: Nettuno offre doni a Venezia. (visitmuve.it)

Giambattista Tiepolo nacque a Venezia nel 1696, figlio di un mercante che, morendo, lasciò la famiglia in condizioni abbastanza agiate. Intorno al 1710 entrò a far parte della bottega di uno dei più quotati pittori della città lagunare, Gregorio Lazzarini. Ma già nel 1717 risultava affrancato, iniziando così una brillante carriera artistica.
Due anni più tardi sposò Cecilia Guardi, sorella dei pittori Antonio e Francesco. Dalla loro unione nacquero i figli Giandomenico e Lorenzo, che poi collaborarono attivamente con il padre.
A Venezia Tiepolo ricevette committenze sia per le residenze del patriziato che per le chiese cittadine. E ben presto la sua fama si estese al di là della Laguna, tanto che Dionisio Dolfin, patriarca di Aquileia, gli chiese di realizzare degli affreschi, prevalentemente di soggetto biblico, per il Palazzo Patriarcale di Udine. Successivamente lavorò anche a Milano, Bergamo e Vicenza. Ragguardevoli sono gli affreschi, ispirati a celebri opere letterarie, della Villa Valmarana di Vicenza, detta dei Nani.
Nel 1750 l’attività di Tiepolo assunse una dimensione europea: infatti assieme ai figli si recò in Germania, più precisamente a Würzburg, dove il principe vescovo Carl Philipp von Greiffenklau gli aveva commissionato un grandioso ciclo di affreschi da eseguirsi nel suo palazzo. Nel 1762, rispondendo all’invito di re Carlo III di Borbone, partì con i figli per la Spagna, realizzando opere celebrative della monarchia iberica ma anche dipinti di soggetto sacro, come la celeberrima Immacolata Concezione ora al Prado. Tiepolo morì a Madrid il 27 marzo 1770.
Giambattista Tiepolo rappresenta senza dubbio il maggiore esponente della pittura rococò. Nelle sue opere, soltanto in apparenza intrise di un’atmosfera leggera, persino quasi frizzante, emerge in realtà l’irrequietudine di un’intera civiltà che avverte, a livello più o meno inconscio, l’imminenza della propria fine, con conseguenze che sarebbero impattate anche sulla stessa scena artistica.