LA LIBERTÀ ACCADEMICA È UNO SCUDO ALL’AUTORITARISMO. PER TUTTE E PER TUTTI da IL MANIFESTO – Officina dei saperi
LA LIBERTÀ ACCADEMICA È UNO SCUDO ALL’AUTORITARISMO. PER TUTTE E PER TUTTI da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LA LIBERTÀ ACCADEMICA È UNO SCUDO ALL’AUTORITARISMO. PER TUTTE E PER TUTTI da IL MANIFESTO

La libertà accademica è uno scudo all’autoritarismo. Per tutte e tutti

CAMPUS LARGO. Le proteste che negli Stati uniti metteranno in crisi il Maccartismo trovano nelle università un importante sostegno e lo stesso accade quando denunceranno i crimini di guerra in Vietnam. Oggi sono quelle stesse università a essere al centro di un nuovo conflitto per la difesa della libertà accademica

Mario Ricciardi  24/04/2024

La libertà accademica ha valore eticamente per le persone che essa protegge – studenti, ricercatori e insegnanti – e per la comunità politica. Le violazioni di questa libertà, infatti, hanno conseguenze dirette per chi le subisce, ma finiscono per colpire indirettamente tutti i cittadini.

Lo spazio sottratto alla libera discussione e al libero confronto delle idee all’interno delle istituzioni accademiche rende più difficile per chiunque godere dei vantaggi di una società libera: avere accesso ai migliori risultati disponibili delle scienze naturali e sociali, delle tecniche e della riflessione morale. Sembra assurdo dover difendere questo principio oggi, in società in cui tutti rivendicano la propria libertà come cosa preziosissima, ma le vicende degli ultimi mesi mostrano che anche nei regimi politici che si descrivono come «liberali» la libertà accademica è oggi sotto attacco.

PER SPIEGARE perché questo accade, bisogna ricordare i due profili che definiscono la libertà accademica. È una protezione nei confronti delle interferenze da parte dei poteri pubblici, che sono per loro natura esposti alla tentazione – sia nei regimi democratici sia in quelli autoritari – di piegare l’insegnamento, la ricerca e la discussione delle idee ai propri fini; sia nei confronti delle amministrazioni delle istituzioni universitarie, che non dovrebbero mai oltrepassare il confine che separa una gestione oculata delle risorse dalla pretesa di decidere come si dovrebbe insegnare, fare ricerca e discutere le idee.

Queste attività dovrebbero infatti essere affidate alla riflessione autonoma della comunità degli insegnanti, degli studiosi e dei discenti, che sono gli unici in grado di apprezzare al meglio gli standard normativi da rispettare per realizzare i propri scopi.

Per buona parte della propria storia, le università hanno dovuto combattere per affermare la propria autonomia soprattutto sul primo fronte. In una fase iniziale, la minaccia proveniva dalle autorità ecclesiastiche, che avanzavano una pretesa di controllo in difesa dell’ortodossia dottrinale, contro le deviazioni ereticali. La nascita dell’università moderna, retta da un principio di laicità garantito da norme di rango costituzionale è l’esito di questo primo conflitto per l’autonomia, che trova negli illuministi i propri difensori più eloquenti.

Esemplare, sotto questo profilo, è lo scritto di Kant sul Conflitto delle facoltà (1798), in cui il filosofo sostiene che il potere pubblico ha il dovere di sostenere e difendere la ricerca della verità all’interno delle istituzioni accademiche senza alcun riguardo per i pregiudizi e gli scopi contingenti dei governi. Come ha scritto Paul Guyer, uno dei più autorevoli studiosi contemporanei del pensiero di Kant, questo vuol dire che lo Stato deve supportare l’organo della sua stessa critica. Una formulazione chiarissima del principio della libertà accademica.

Questo modello viene più volte messo in discussione, in primo luogo dai regimi totalitari, ma senza mai essere rinnegato del tutto, e torna in auge dopo la seconda guerra mondiale come un principio centrale degli ordinamenti liberaldemocratici in buona parte dei paesi europei e negli Stati uniti.

Le vigorose proteste che, proprio negli Stati uniti, metteranno in crisi il Maccartismo, trovano nelle università un importante sostegno, e lo stesso accade, nella seconda metà degli anni Sessanta, quando saranno le proteste universitarie a denunciare con veemenza i crimini di guerra in Vietnam.

OGGI SONO quelle stesse università a essere al centro di un nuovo conflitto per la difesa della libertà accademica, reso possibile da una profonda trasformazione delle università avvenuta a partire dalla fine degli anni Settanta. Con l’ascesa del modello dell’università «corporate», che non risponde più ai propri standard normativi interni, ma è soggiogata alla volontà dei finanziatori privati (e questo vale, sia pure in misura diversa, sia nei sistemi come quello degli Stati uniti, prevalentemente privato, sia in quelli europei, ancora, per fortuna, prevalentemente pubblici) e, in ultima analisi a scopi commerciali, la libertà accademica è nuovamente in pericolo.

Si sospendono, e si minaccia di licenziamento, gli insegnanti e gli studiosi che difendono i diritti dei palestinesi, si mettono in atto misure repressive e intimidatorie nei confronti degli studenti che protestano pacificamente, anche se ebrei, utilizzando l’accusa infamante di antisemitismo per stroncare sul nascere un movimento di protesta che potrebbe mettere in difficoltà il governo di Netanyahu.

In vista del 25 aprile, è bene ricordare che in Italia anche il ritorno della libertà accademica è figlio dell’antifascismo e della resistenza. A chi vorrebbe un’università prona, ubbidiente e asservita ai poteri economici e alla destra che li corteggia mettendosi a disposizione per reprimere le proteste, bisogna avere il coraggio di dire «No».

Arrestarli non basta, la Palestina accende le università degli Usa

CAMPUS LARGO. Dopo le retate alla Columbia si agitano Nyu, Yale, Mit… Proteste da Berkeley al Cal Polytechnic, richiesta la Guardia Nazionale

Marina Catucci  24/04/2024

Gli arresti a centinaia non fermano le manifestazioni per la Palestina nelle università Usa, anzi sembrano provocarne l’allargamento a sempre nuovi campus. Una tendenza che non dà cenno di rientrare.

Non è più solo la Columbia University ad avere manifestazioni e sit in permanenti. A New York anche la progressista New School e la prestigiosa Nyu sono mobilitate, e così sta accadendo a Yale, al Mit di Boston, alla Tufts, alla University of North Carolina. Sulla costa ovest ci sono accampamenti di protesta all’Università della California, a Berkeley. Studenti si sono barricati all’interno della California Polytechnic State University. Per il Seattle Times, centinaia di studenti stanno organizzando una manifestazione nella regione di Puget Sound (Washington) a cui parteciperanno due dozzine di scuole superiori e college.

LA RISPOSTA DEGLI ATENEI non si discosta da quella della rettrice della Columbia, Minouche Shafik: chiamare la polizia e cercare di tenere a casa gli studenti con la didattica da remoto. La New York University ha chiamato la polizia per disperdere la folla che continuava ad aumentare, e quando da parte degli studenti sono state lanciare alcune bottiglie si sono verificati momenti di tensione ma niente arresti. A Yale invece decine di studenti sono stati arrestati con l’accusa di trespassing (sconfinamento), e Harvard ha deciso di sospendere il Comitato per la solidarietà con la Palestina. Se la risposta dei rettori non cambia, altrettanto accade con le reazioni degli studenti: «Come ebrea, come studentessa di Yale, come americana, sono convinta di non volere che gli omicidi continuino a verificarsi in mio nome e con i miei soldi – dice la 22enne Miriam Levine – E quindi continuerò a protestare».

PARTE DEL PROBLEMA è che i rettori di queste prestigiose e costose università private non possono permettersi di perdere i grandi donatori e quindi cercano di soffocare le proteste in nome della sicurezza. «Parlano della minaccia antisemita – dice Rachel Schwartzes, studentessa del Cuny, l’università della città di New York – ma più della metà degli studenti che protesta è ebrea. Il problema è che gente come Robert Kraft ha ritirato il sostegno alla Columbia e chiamato in causa i docenti». Laureato alla Columbia, proprietario dei New England Patriots (football americano), il miliardario ha annunciato di non essere «a suo agio» nel continuare a sostenere economicamente la sua ex università da quando sono cominciate le proteste. Lo stesso giorno la Columbia ha ordinato ai professori del suo campus principale di passare a un sistema di didattica ibrido e concludere l’anno accademico con meno problemi possibili.

In risposta la sezione della Columbia University dell’Associazione americana dei professori universitari, ha annunciato che intende presentare al Senato universitario una “Risoluzione di censura” contro la rettrice Shafik, la sua amministrazione e i copresidenti del Consiglio di amministrazione. La risoluzione è stata redatta nel fine settimana dopo che Shafik ha autorizzato la polizia a sgomberare il “Gaza Solidarity Encampment” con conseguenti arresti di massa. Il livello di tensione sembra destinato a salire, con sempre più campus occupati, la protesta che si sta estendendo anche alle scuole superiori, un’elezione presidenziale in vista e un braccio di ferro che coinvolge più soggetti.

I SENATORI REPUBBLICANI Tom Cotton e Josh Hawley hanno chiesto a Joe Biden di inviare alla Columbia la Guardia Nazionale, altri pensano che non sia una cattiva idea avere accanto un gruppo come Shirion Collective, la “rete di sorveglianza” pro-Israele che ha offerto taglie in cambio di informazioni sui manifestanti filopalestinesi, e compensi a inviati undercovered che documentino (o provochino) comportamenti raccontabili come antisemiti. Il Collettivo Shirion, concentrato soprattutto negli Usa e nel Regno Unito, si vanta della sua capacità di rilevare le tracce digitali per “smascherare in modo aggressivo gli antisemiti”, e sui social media pubblica i nomi delle persone che accusano di essere antisemite. La caccia è in corso.

«Le università israeliane sono il laboratorio dell’industria militare»

ISRAELE. Intervista all’antropologa israeliana Maya Wind: «Iai, Rafael, Elbit sono nate negli atenei. E sul piano politico le facoltà di legge producono interpretazioni innovative del diritto internazionale per sostenere che Israele non lo viola»

Chiara Cruciati  24/04/2024

«È nostro dovere chiedere di interrompere i rapporti con l’accademia israeliana fino a quando non prenderà parte al processo di decolonizzazione». Così Maya Wind conclude la conversazione con il manifesto. Antropologa israeliana alla British Columbia, ha da poco pubblicato per Verso il libro Towers of Ivory and Steel: How Israeli Universities Deny Palestinian Freedom in cui indaga il ruolo dell’accademia nel mantenimento del sistema di oppressione del popolo palestinese.

Partiamo dal ruolo storico nella fondazione dell’industria militare israeliana.

Le università israeliane sono state una colonna portante del dominio razziale, dell’apartheid e dell’occupazione e sono state al servizio dello stato in diversi modi. Innanzitutto, il luogo stesso e il modo in cui i campus sono stati costruiti su terre confiscate, per togliere continuità al territorio palestinese, li rende una delle infrastrutture della spoliazione. Lo è anche la produzione di conoscenza funzionale al sistema militare e di intelligence: molte discipline sono state subordinate alla produzione di ricerche che forniscono da decenni modelli di governo militare dei palestinesi. Infine, c’è l’aspetto tecnologico: l’accademia israeliana ha dato vita all’industria militare israeliana. Le aziende ancora oggi leader sono nate dentro l’accademia israeliana, pensiamo a Science Corps, dipartimento di ricerca interno alle milizie Haganah, operativo nei primi tre campus israeliani, il Technion, la Hebrew University e il Weizmann Institute. Con la fondazione dello stato, accademici e scienziati israeliani hanno lavorato perché Israele non solo importasse armi e tecnologie militari ma perché le sviluppasse. È questa l’origine dell’industria militare israeliana, di Israel Aerospace Industries, Rafael, Elbit Systems, nate dentro le università, in particolare al Technion. Sono le aziende poi divenute esportatrici globali. E dalle loro origini le armi prodotte vengono testate sui palestinesi. Le università sono il laboratorio centrale dell’industria militare israeliana e i loro vertici ne parlano apertamente. Li cito nel libro quando dicono che senza l’accademia Israele non avrebbe mai raggiunto il livello attuale.

Tale collaborazione è ancora attiva e trova applicazione nell’offensiva su Gaza?

Intorno alle collaborazioni c’è grande oscurità. Quello che sappiamo è che tutte le tecnologie sviluppate in passato sono il fondamento di quelle nuove, è come un edificio che cresce. Rafael, Elbit, Iai sono interne al sistema accademico in diversi modi: borse di studio agli studenti, finanziamento di ricerche e interi laboratori, porte girevoli di ricercatori e dipendenti. Sono due sistemi inseparabili. E poi c’è un altro tipo di industria, in particolare all’Università di Tel Aviv, che si occupa di intelligenza artificiale.

Esiste anche un ruolo politico di legittimazione delle pratiche militari?

Da anni e in particolare negli ultimi sei mesi gli accademici reagiscono ai tentativi di giudicare Israele a livello internazionale. Ad esempio alla Corte internazionale di giustizia: accademici e giuristi israeliani producono interpretazioni del diritto umanitario e del diritto di guerra per proteggere Israele dall’accusa di genocidio. Da decenni fabbricano interpretazioni innovative del diritto internazionale per sostenere che Israele non lo viola e che le offensive militari contro i palestinesi non comportano crimini di guerra. Le università sono davvero soggetti centrali nel meccanismo di legittimazione e di sostegno dell’impunità israeliana. Quando il Sudafrica si è rivolto alla Cig, facoltà di legge e giuristi si sono subito mossi per produrre controargomentazioni. Tra i più attivi c’è l’ex responsabile del dipartimento di diritto internazionale dell’esercito che oggi lavora alla Tel Aviv University e che ha detto, la cito: «L’arena internazionale è un campo di battaglia. Devi conoscere il tuo nemico e sapere come affrontarlo, non vogliamo fornirlo di munizioni».

Sul piano politico, abbiamo assistito non solo a una mancata condanna dell’offensiva su Gaza ma anche alla repressione interna ai campus delle voci critiche.

Fin dalle sue origini l’accademia israeliana è stata un luogo ostile e repressivo per studenti e professori palestinesi. Di certo c’è stata un’escalation, con le amministrazioni delle università che hanno sospeso studenti, li hanno cacciati dai dormitori con sole 24 ore di preavviso, chiesto indagini nei loro confronti. La caccia alla streghe è facilitata da facoltà e gruppi di studenti ebrei israeliani, come la National Student Union che sorveglia i palestinesi e li denuncia. Il caso della professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian è esemplare: è stata arrestata e interrogata la scorsa settimana. La ragione per cui è da anni perseguitata è che ha il coraggio di fare ricerca sulla violenza coloniale e la violenza di stato. La Hebrew University è diretta responsabile di quello che le sta accadendo: per anni ha deciso di non sostenerla e infine l’ha sospesa, aiutando il clima di incitamento contro di lei.

Qual è il rapporto tra accademia israeliana e palestinese?

È quello che l’intellettuale palestinese Kamal Nabulsi definisce il lato scolastico dell’occupazione. Israele ha sempre visto nell’educazione palestinese una minaccia, come ogni altra amministrazione coloniale. Per questo l’ha sempre repressa sia dentro Israele che nei Territori occupati. Le università israeliane hanno avuto un ruolo perché hanno condizionato per decenni l’iscrizione dei cittadini palestinesi alla fedeltà allo stato e hanno continuamente represso la ricerca critica palestinese e la mobilitazione interna ai campus. Senza contare il silenzio del mondo accademico israeliano di fronte alla distruzione di tutte le università di Gaza, ai continui raid e agli arresti nei campus in Cisgiordania e a Gerusalemme est e alla detenzione nelle prigioni militari israeliane di studenti e professori palestinesi.

In Italia sono in corso da mesi proteste per porre fine alle collaborazioni con gli atenei israeliani. Negli Stati uniti lo stesso. Si chiede di boicottare le istituzioni, non i singoli docenti. Cosa ne pensa?

Il mio libro intende fornire chiaramente le prove della complicità del mondo accademico israeliano nell’oppressione dei palestinesi. È un fatto che sia complice del sistema di apartheid, occupazione e colonialismo. Per questo ne sostegno il boicottaggio. Penso che per i docenti, gli studenti e le amministrazioni delle università nel mondo (in particolare in Occidente: sono gli atenei occidentali a finanziare e legittimare l’accademia israeliana) sia indispensabile assumersi la responsabilità della propria complicità della mancata libertà dei palestinesi.

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