Under the skin Recensione

Under The Skin - recensione del film con Scarlett Johansson

03 settembre 2013
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Con Sexy Beast prima, e ancor di più con Birth poi, Jonathan Glazer aveva dimostrato di poter essere molto di più di un brillante creatore di immagini.

Under The Skin - recensione del film con Scarlett Johansson

Con Sexy Beast prima, e ancor di più con Birth poi, Jonathan Glazer aveva dimostrato di poter essere molto di più di un brillante creatore di immagini. In Under the Skin, particolarissimo film di fantascienza che il regista ha montato e rimontato per molti mesi, il processo di progressiva astrazione e rarefazione mostrato in quei primi due titoli giunge a un punto estremo, che pare però sacrificare le esigenze della testa a favore di quelle dell’occhio.

Piazzandosi all’incrocio tra L’invasione degli ultracorpi, L’uomo che cadde sulla Terra e Species – Specie mortale, Under the Skin non si dilunga inutilmente in spiegazioni e contestualizzazioni, e fin dall’apertura mette in chiaro come siano le atmosfere, le immagini e i suoni i veri protagonisti.
Complici i ruvidi e affascinanti paesaggi scozzesi, le rotondità di una Scarlett Johansson che si mostra generosamente, i contrasti cromatico-tematici e la sua capacità evocativa, Jonathan Glazer inanella una serie di sequenze e d’inquadrature che, come nei suoi videoclip, sono caratterizzate dalla capacità di essere algide, magnetiche e inquietanti. Ma, per usare una frase fatta, i videoclip e il cinema non sono la stessa cosa, e nella gelida e spesso silenziosa messa in scena di Under the Skin risuona assordante una narrazione esile e pretestuosa.

La parabola per personaggio della Johansson, infatti, è tanto lineare quanto semplice e piuttosto banale, quella di una gelida e algida cacciatrice aliena che seduce le sue vittime con la promessa del sesso e che lentamente inizia a provare i sentimenti della sua maschera umana: empatia, generosità, pietà. Per poi ovviamente doversene dolere quando scopre anche i lati più grevi e aggressivi della popolazione terrestre.
Poco, pochissimo, del tutto insufficiente a reggere in piedi un’impalcatura ambiziosa come quella voluta da Glazer, tutta intrisa intellettualisticamente di sguardi, corpi, superfici. E a questa insufficienza, Glazer pensa di poter porre rimedio con uno stile ermetico e astratto utile a dare l’impressione di voler e poter contenere molto di più.

Non bastano però le tante riprese, quasi rubate, di un’umanità comune a passeggio per le strade della città, né un novello Elephant Man capace di aprire una breccia nel cuore alieno della protagonista, né il solito camionista violento e psicopatico, per rendere credibile e profonda la riflessione di Glazer sulla natura crudele dell’umanità e della vita in generale: ché anche gli alieni son crudeli come una natura scozzese che a volte chiede il suo tributo.
Né bastano spunti visivi ai confini della video arte per convincere ad apprezzare un film che, alla fin fine, appare vacuo, velleitario ed estetizzante.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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