Una promessa: la recensione del primo film inglese di Patrice Leconte
Un thriller dei sentimenti che è anche una lezione di cinema.
Se è vero che l’inglese, come ci insegnano le sorelle
Brontë, i personaggi di Jane Austen e i
sonetti di Shakespeare, è la lingua dell’amore prima a
lungo taciuto ma poi confessato tutto d’un fiato, allora è giusto che
Patrice Leconte l’abbia scelta al posto del francese
per il suo film più elegante.
Come Grand Budapest Hotel di Wes
Anderson e il lontano Lettera da una sconosciuta di Max Ophüls, Una promessa attinge al sofferto immaginario
dello scrittore austriaco Stefan Zweig, autore sì delle celebri
biografie di Honoré de Balzac e della regina delle brioches
Maria Antonietta, ma soprattutto cantore
dell’inafferabilità del sentimento amoroso, sulle prime così assoluto
e poi evanescente.
Accostandosi al racconto "Il viaggio nel passato", il regista rimane
certamente fedele al sottile voyeurismo della sua precedente filmografia, ma sublima il suo
sguardo dal buco della serratura in una raffinatezza formale mai fine a se stessa, in una
perfetta e incisiva mise en scene che, attraverso riprese oblique e
inquadrature inusuali, ci trascina anima, cuore e intelletto sul palcoscenico delle emozioni
trattenute.
Un po’ come il Martin
Scorsese de L’età
dell’innocenza, Patrice Leconte si pregia
di colti riferimenti pittorici e di nuche ossessivamente filmate, sete fruscianti e corpi che si
reggono tremanti ai corrimano, ma ci stupisce con un ritmo sempre più incalzante e
modernissimo che fa di Una promessa una grande lezione
di cinema.
Sembra che l’autore de L’uomo del treno abbia letto nella mente di
quanti associano noia e già visto ai film in costume, preferendo orientarsi su un
thriller dei sentimenti che non ha nulla del melò e che ci fa addirittura pensare,
complice la musica impetuosa di Gabriel Yared, a
La donna che visse due volte
di Alfred Hitchcock, altro maestro del voyeurismo.
Sono bravi Alan Rickman, Rebecca
Hall e Richard Madden nei panni
dell’anziano marito, della sua giovane moglie e del ragazzo umile e appassionato
che si intromette nel loro matrimonio. Il regista lo sa e permette che ogni attore sia di volta
in volta l’allegoria di un sentimento: ora la malinconia, ora l’orgoglio ferito
ora una dolce femminilità.
Leconte, però,
è tutto e solo per i suoi personaggi. Dalla suntuosa dimora che li isola dal mondo
esterno, il regista tiene fuori anche Stefan Zweig, chiudendo la porta al
suo dolore, al suo sogno infranto di una felix Austria e a
quell’angoscia simile a una morsa di piombo che lo portò a togliersi la vita
quando ormai era al sicuro nel Nuovo Mondo.
Ma poi Patrice ci ripensa, lasciando che a fare capolino, una volta
finita la Grande Guerra, siano le bandiere con le svastiche.
Chi non
conosce Zweig le noterà appena, divorato dalla
curiosità di scoprire se Friederich e
Charlotte finalmente si ameranno in libertà. Gli altri,
specialmente chi ha superato i quaranta e ha e una passionaccia per i mitteleuropei,
penseranno ancora una volta a quanto sia effimero il sogno di una felicità definitiva.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali