Tommaso Moro rifiuta di piegarsi al volere del re d’Inghilterra che gli impone di accettare il suo divorzio e la frattura con la Chiesa di Roma. Pagherà con la vita la fedeltà alla sua coscienza.

Scritto da Robert Bolt (sceneggiatore anche di Lawrence d’Arabia, Il dottor Zivago e Mission) e tratto da un suo dramma radiofonico, il film di Fred Zinnemann dedicato alla vicenda di Tommaso Moro (fatto santo dalla Chiesa Cattolica ma divenuto simbolo universale di fedeltà alla propria coscienza) vanta un cast stellare, a partire dal protagonista Paul Scofield (grande attore di teatro che il pubblico ricorderà anche nei panni del severo professore universitario Mark Van Doren in Quiz Show), che impersona Tommaso con una dignità mite e gentile che rende giustizia alla grandezza del personaggio.

Quella di Tommaso è una parabola umana dall’esito tragico, un uomo che muore per non tradire quello che il suo cuore riconosce come giusto, per fedeltà alla sua natura più profonda, ma che lo fa senza mai condannare chi cede ed è più debole di lui e sempre certo del progetto buono di Dio sulla sua vita, così da affrontare la decapitazione con il sorriso di chi sa di stare tornando a casa.

Tommaso è innocente (come riconoscono anche i suoi avversari, primo tra tutti Thomas Cromwell, l’ambizioso segretario del cardinale Wolsey disposto a tutto per il potere) ma non è ingenuo, non ignora le leggi della politica e le debolezze umane, ma si rifiuta di piegarsi al compromesso e se si astiene per condannare è per lasciare spazio alla libertà altrui e alla misericordia di Dio. Il silenzio di Tommaso, quello con cui difende fino alla fine la propria vita nella convinzione che il martirio non vada cercato se non come ultima opzione, diventa tuttavia un giudizio assordante di fronte alla mediocrità, all’ambizione o alla superficialità altrui.

La sua grandezza umana emerge da una serie di confronti con i suoi cari e i suoi avversari: l’amata figlia Margaret, che condivide con lui l’amore per il latino e per la filosofia, l’amico duca di Norfolk, che alla fine allontana in nome della loro stessa amicizia, ma soprattutto Richard Rich (un giovanissimo ma già eccezionale John Hurt), l’uomo che viene a chiedere la sua raccomandazione e che alla fine spergiurando ne siglerà la condanna a morte. Conoscendo la debolezza di Richard, Tommaso gli consiglia di tenersi lontano dalla corte e dalle sue seduzioni e di dedicarsi ad un mestiere onesto che potrebbe renderlo davvero grande, anche se di una grandezza nascosta, nota solo a se stesso e a Dio.

Un uomo per tutte le stagioni non cede mai alla tentazione di ridurre questo o altri personaggi a semplici macchiette o a cattivi puri e semplici: emblematico il trattamento di Enrico VIII (un sempre energico Robert Shaw) , che anche dopo che si è consumato il “tradimento” di Tommaso non può fare a meno di cercarlo tra i tanti cortigiani incapaci di dirgli la verità. Se il rapporto di Tommaso con Dio è profondamente intimo e personale, esso non viene mai separato dall’appartenenza alla Chiesa, di cui pure Tommaso conosce bene le debolezze e la corruzione (ben rappresentate dal cardinale Wolsey, interpretato dal grande Orson Wells).

Girato nel 1966 e premiato da ben sei Oscar, Un uomo per tutte le stagioni riprende elementi che lo sceneggiatore Robert Bolt fa risuonare in altre sue opere; le riflessioni sulla corruzione della macchina statale e sulla propensione umana a farsene irretire e compromettere certamente richiamano le atmosfere della Russia sovietica del Dottor Zivago, mentre la mite e disarmata fedeltà alla verità di Tommaso preannunciano il dramma delle reducciones gesuite di Mission.

Il film, che resta fedele alla sua struttura quasi teatrale, mantiene ancora oggi intatti il suo ritmo e il suo fascino e ripropone in modo quanto mai attuale un dilemma universale dove la sfida filosofica preclude la simpatia umana e l’idealismo si accompagna ad un realismo sorridente nonostante tutto.

Laura Cotta Ramosino